Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com
Il giudice Diego García-Sayán che è stato anche Presidente della Corte Interamericana per i diritti umani, su El País del 3 novembre (Edizione America), dà una lezione su come annacquare una notizia terribile e disperderla in un ragionamento sofistico che parte da una casuccia dell’Honduras dove, nottetempo, qualcuno ha ucciso una donna e ferito un ospite, ed arriva ai massimi sistemi e alla domanda da mille pistole: c’è democrazia in America Latina?
La notizia importante è che l’attivista ambientalista Berta Cáceres, assassinata nel suo letto nel 2016, ha perso la vita per colpa di un complicato complotto che parte da una delle famiglie più potenti dell’Honduras e finisce nel braccio armato di un assassino prezzolato. A quasi due anni dall’omicidio di una persona indifesa, uno staff internazionale di giuristi ha determinato che Berta Cáceres è stata vittima del potere e della politica del suo paese: “è indiscutibile la partecipazione di dirigenti, gestori e impiegati di DESA; del personale di security privata contrattata dall’impresa; di agenti statali e di strutture parallele alle forze di sicurezza dello Stato in atti delinquenziali precedenti, concomitanti e posteriori all’omicidio”. DESA è l’impresa che progettava la costruzione di una diga, incurante delle proteste in difesa del territorio messe in atto dalle popolazioni indigene; ne è proprietaria dal 2011 una delle famiglie più potenti dell’Honduras che il gruppo di avvocati internazionali indica come parte della struttura criminale che ha emesso la condanna a morte per Berta Cáceres.
Di tutto questo dà conto il giurista nel suo editoriale su El País, che, di fronte alle terribili conclusioni a cui sono pervenuti gli avvocati, si pone la gigantesca domanda: “L’America Latina si trova ancora in una situazione in cui un gruppo di impresari può operare con impunità contro la vita di un dirigente sociale? Quanto ha progredito la regione nella costruzione di una relazione efficiente e democratica fra i diritti indigeni e i progetti d’investimenti?”. Ignora Diego García-Sayán che l’attuale governo dell’Honduras proviene da un golpe inclemente? Ignora il potere dei narcos e le collusioni con i governi, in grandi paesi come il Messico, la Colombia o il Perù, sua terra natia in cui ha operato anche come ministro? La gigantesca questione indigena, così acuta soprattutto in Centroamerica, viene liquidata dal nostro editorialista con le seguenti parole: “ormai non si discute più sul fatto che i diritti degli indigeni non possono essere calpestati”. Benissimo! Dunque, tutto risolto? Non proprio, ci dice Diego García perché persistono debolezze istituzionali che “spiegano l’alto tasso di conflittualità e il corso impredicibile dei conflitti quando si tratta di grandi progetti di investimenti di fronte a un mondo indigeno con una crescente autopercezione dei propri diritti”.
Nonostante la sua lunga storia di giurista sia in patria che nelle massime istanze internazionali come le Nazioni Unite, nonostante che per il suo curriculum abbia rischiato di diventare Presidente dell’Organizzazione degli Stati Americani, nonostante le sue esperienze in Guatemala e in Salvador, il nostro Diego García-Sayán sembra Alice nel paese delle meraviglie; con grande candore nota che è necessario (oggi, 3 novembre 2017) “sottolineare la gravità di quanto avviene in Honduras. Secondo la ONG Global Witness, più di 120 attivisti ambientali sono stati assassinati nel paese dal 2010, rendendolo il paese più pericoloso del mondo per gli attivisti ambientalisti”. Continua il nostro Cappuccetto Rosso, che attraversa i boschi senza sospettarne i pericoli, che il gruppo di avvocati internazionali sostiene addirittura “che dietro la violenza ci sarebbero non solo sanguinosi appetiti imprenditoriali, ma articolazioni con le strutture del potere statale”. Ma pensa un po’!
Il nostro giudice è ferito da questa sua constatazione, fa uno sforzo di memoria e ricorda di aver letto, nei tempi andati, quanto narrato da scrittori della taglia di Miguel Angel Asturias o di José María Arguedas e finalmente apre gli occhi e denuncia: “quel che sta avvenendo in Honduras non è un romanzo e mette dolorosamente in evidenza le inevitabili differenze di ritmo nel processo di democratizzazione della regione. La cosa grave –e inaccettabile- è che in alcuni paesi sembrano valere ancora regole di esercizio del potere profondamente autoritarie e violente che debbono essere seriamente indagate e punite per dare un taglio a questo inaccettabile circolo vizioso”.
Viene da chiedersi dove fosse questo magistrato peruviano (paese di forte presenza indigena) quando in Honduras si perpetuava un golpe per assicurare la fedeltà all’impero di un paese ribattezzato “la portaerei degli Stati Uniti”, e dove stava più di due anni fa quando Berta Cáceres lottava contro il progetto idroelettrico di Agua Zarca. Forse il giurista brillante e famoso non ne sospettava il pericolo, ma Berta sapeva molto bene che, nella sua battaglia, rischiava la vita.