Rosa Miriam Elizalde www.cubadebate.cu
Poche ore prima dell’attacco contro l’Ambasciata cubana a Washington, una donna con un impermeabile rosso, occhiali scuri, mascherina ed un cappuccio fotografava la facciata del palazzo della 16esima strada nel quartiere Adams-Morgan. Le telecamere di sicurezza l’hanno registrata in pieno giorno e, nonostante il travestimento, i funzionari della sede diplomatica l’hanno riconosciuta perfettamente. È la moglie di un militante della “causa” anticastrista, Mario Félix Lleonart Barroso che, curiosamente, risulta essere il comune denominatore di personaggi ed istituzioni relazionati con queste trame.
Lleonart Barroso, pastore battista nato a Cuba e abitante a Washington DC, il quale vanta nelle reti sociali la sua stretta relazione con il Doral Jesus Worship Center -una chiesa che si situa nell’epicentro della controrivoluzione venezuelana e cubana di Miami- e con i suoi amici del Dipartimento di Stato, nella cui pagina Twitter lo pubblicizzano in un’intervista come “perseguitato per la sua fede a Cuba, dove ha subito anni di minacce e arresti” (tweet del 16 gennaio 2020).
Il nome di questo individuo, un “assiduo partecipante agli atti di persecuzione” contro i cubani a Washington, è solo una pista nell’arsenale di prove offerto, questo martedì, dal ministro degli Esteri cubano Bruno Rodríguez Parrilla. Il ministro ha definito “attacco terroristico” la sparatoria contro la sede diplomatica, il 30 aprile, il cui protagonista è un altro pastore nato a Cuba, legato anch’egli alla chiesa di Doral e ad individui molto attivi in quella congregazione che, non molto cristianamente, hanno richiesto uccidere, con i droni, Raúl Castro ed il presidente Miguel Díaz-Canel.
Alexander Alazo Baró, l’autore della sparatoria, è stato presentato come un malato psichiatrico assediato da fantasie persecutorie, mentre il regime di Trump ha insabbiato il suo dossier nel mezzo di un oscuramento informativo.
La cosa straordinaria è che, salvo le immagini riprese dall’Ambasciata che sono state divulgate martedì, le scandalose prove erano di dominio pubblico. Si possono estrarre, facilmente, dalle reti sociali e trovare i legami tra questi signori e i terroristi della vecchia scuola delle bombe sotto le macchine, come Ramón Saúl Sánchez. Ma allo stesso tempo anche, con le voci più violente dell’apparato politico anticubano e anti-venezuelano di Miami, fino ad arrivare alla Casa Bianca. Con tutti contemporaneamente.
Il vicepresidente Mike Pence è stato il principale oratore di una “celebrazione religiosa” presso il Doral Jesus Worship Center, che ha contato con la presenza del governatore della Florida Ron DeSantis, i senatori Marco Rubio e Rick Scott ed il deputato Mario Diaz-Balart. L’incontro del 1 febbraio 2019 è stato particolarmente commentato, perché Pence ha promesso, dal pulpito, la testa di Nicolás Maduro in “questione di giorni o settimane” e Díaz-Balart, esaltato, ha affermato che Cuba e Venezuela soffrivano “lo stesso cancro”. Inoltre lo fu perché è stato considerato come uno dei primi atti elettorali a favore della rielezione di Donald Trump. L’agenzia AP, quel giorno, si è fatta eco delle dichiarazioni della rappresentante democratica Debbie Wasserman Schultz, puro buon senso: “La politica estera è politica interna nel sud della Florida”.
Sebbene il segretario di Stato Mike Pompeo e alcuni dei suoi subordinati -compresi quelli dell’OSA- parlino un giorno sì e l’altro pure di Cuba per silurare la collaborazione medica cubana, le autorità degli USA hanno evitato di pronunciarsi sulle questioni cruciali di questo caso che oggi, giovedì, ha un’udienza preliminare presso il tribunale del distretto di Columbia.
Bruno Rodríguez, ad esempio, ha posto domande di logica elementare: quale responsabilità ha il Doral Jesus Worship Center? Come può una persona con disturbi mentali essere autorizzata ad avere una licenza per portare armi e viaggiare per migliaia di miglia con un fucile d’assalto senza essere rilevato? Quali sono i legami del sicario con la apparato anticubano della Florida? Che peso ha il discorso d’odio nella trama? Cosa faceva la moglie di Lleonart, un pastore che ostenta i suoi incontri con Trump e Pompeo, aggirandosi camuffata presso l’Ambasciata cubana poche ore prima dell’attentato?
Il ministro degli Esteri cubano ha ingiunto la Casa Bianca ed il Dipartimento di Stato a spiegare ciò che sanno sui legami tra l’attaccante dell’Ambasciata e coloro che promuovono la violenza contro l’isola. Ha preteso una risposta su ciò che li spinge a non denunciare il fatto, sebbene abbia avanzato un’ipotesi: “Un governo che difende come legittimo punire l’intera popolazione di un paese, come fa il governo degli Stati Uniti con il blocco economico, è in pratica un incitatore all’odio contro Cuba”.
In questo attacco, l’unico cubano che ha ricevuto un proiettile è stato José Martí, la statua di metallo che domina il piccolo giardino dell’Ambasciata. Ma, la notte del 30 aprile, si sarebbe potuto verificare un massacro nel palazzo della 16esima strada di Adams-Morgan. Dieci funzionari erano all’interno dell’edificio quando i proiettili hanno perforato la porta d’ingresso. Se qualcuno fosse morto, forse saremmo allo stesso punto: Washington reagisce all’aggressione nel suo stesso cortile includendo Cuba nella “lista dei paesi che non collaborano alla lotta contro il terrorismo” (sic), come accaduto ieri. Nel frattempo, l’Isola continua ad esigere dalla Casa Bianca maggiore coerenza e meno cinismo, perché l’impunità ed il crimine vanno insieme, si generano, si coltivano e si incoraggiano, si dissimulano, si riproducono, si imitano, si applaudono.
Nell’analizzare la serie di dipinti di Goya intitolata “I disastri della guerra”, l’ispanista francese Paul Lefort ha osservato che “ogni volta che c’è un salto qualitativo nell’uso della violenza, c’è qualcuno disposto a superarlo”. Se Trump e Pompeo continuano sulla stessa via, cosa succederà dopo l’assalto all’Ambasciata?
(Originariamente pubblicato sul giornale La Jornada, del Messico)
Asalto a la Embajada
Por: Rosa Miriam Elizalde
Pocas horas antes del ataque contra la Embajada de Cuba en Washington, una mujer con impermeable rojo, lentes oscuros, tapaboca y capucha, fotografiaba la fachada de la casona de la Calle 16 en el barrio Adams-Morgan. Las cámaras de seguridad la grabaron a plena luz del día y, a pesar del disfraz, los funcionarios de la sede diplomática la reconocieron perfectamente. Es la esposa de un militante de la “causa” anticastrista, Mario Félix Lleonart Barroso que, curiosamente, resulta ser común denominador de personajes e instituciones relacionados con esta trama.
Lleonart Barroso, pastor bautista nacido en Cuba y vecino de Washington DC, hace alardes en redes sociales de su estrecha relación con la Doral Jesus Worship Center -una iglesia ubicada en el epicentro de la contrarrevolución venezolana y cubana de Miami- y con sus amigos del Departamento de Estado, cuya página en Twitter lo publicitan en una entrevista como “perseguido por su fe en Cuba, donde soportó años de amenazas y detenciones” (tweet del 16 de enero de 2020).
El nombre de este individuo, un “asiduo participante en los actos de hostigamiento” contra los cubanos en Washington, es solo una pista en el arsenal de pruebas que ofreció este martes el canciller cubano Bruno Rodríguez Parrilla. El ministro llamó “ataque terrorista” al tiroteo contra la sede diplomática el pasado 30 de abril, cuyo protagonista es otro pastor nacido en Cuba, vinculado también a la iglesia de Doral y a individuos muy activos en esa congregación que, no muy cristianamente, han solicitado matar con drones a Raúl Castro y al presidente Miguel Díaz-Canel.
A Alexander Alazo Baró, el autor del tiroteo, lo han presentado como un enfermo psiquiátrico asediado por fantasías persecutorias, mientras el régimen de Trump ha engavetado su expediente en medio de un apagón informativo. Lo extraordinario es que, salvo las imágenes tomadas desde la Embajada que fueron divulgadas el martes, las escandalosas evidencias han estado al alcance público. Se puede halar fácilmente de la cuerda de las redes sociales y encontrar los nexos entre estos señores con terroristas de la vieja escuela de las bombas bajo los autos, como Ramón Saúl Sánchez. También, con las voces más violentas de la maquinaria política anticubana y antivenezolana de Miami, y hasta con la Casa Blanca. O con todos a la vez.
El Vicepresidente Mike Pence fue el orador principal de una “celebración religiosa” en el Doral Jesus Worship Center, que contó con la asistencia del gobernador de la Florida Ron DeSantis, los senadores Marco Rubio y Rick Scott, y el representante Mario Diaz-Balart. El encuentro del 1 de febrero de 2019 fue particularmente comentado, porque Pence prometió desde el púlpito la cabeza de Nicolás Maduro en “cuestión de días o semanas” y Díaz-Balart, exaltado, dijo que Cuba y Venezuela padecían “el mismo cáncer”. También, porque fue considerado como uno de los primeros actos electorales a favor de la reelección de Donald Trump. La agencia AP se hizo eco ese día de las declaraciones de la representante demócrata Debbie Wasserman Schultz, puro sentido común: “La política exterior es política interna en el sur de la Florida”.
Aunque el Secretario de Estado Mike Pompeo y algunos de sus subordinados -incluidos los de la OEA- hablan un día sí y otro también de Cuba para torpedear la colaboración médica cubana, las autoridades de los Estados Unidos han evitado pronunciarse sobre los asuntos medulares de este caso, que hoy jueves tiene una audiencia preliminar en la corte del distrito de Columbia.
Bruno Rodríguez, por ejemplo, hizo preguntas de lógica elemental: ¿qué responsabilidad tiene el Doral Jesus Worship Center? ¿Cómo alguien con trastornos mentales puede tener una licencia para portar armas y viajar miles de kilómetros con un fusil de asalto sin ser detectado? ¿Cuáles son los vínculos del pistolero con la maquinaria anticubana de la Florida? ¿Qué peso tiene el discurso de odio en la trama? ¿Qué hacía la esposa de Lleonart, un pastor que hace alardes de sus encuentros con Trump y Pompeo, merodeando disfrazada por la Embajada cubana pocas horas antes del atentado?
El Canciller cubano emplazó a la Casa Blanca y al Departamento de Estado a explicar qué saben sobre los vínculos entre el atacante de la Embajada y los que impulsan a la violencia contra la Isla. Exigió una respuesta sobre qué los mueve a no denunciar el hecho, aunque adelantó una hipótesis: “Un gobierno que defiende como legítimo castigar a toda la población de un país, como lo hace el gobierno de EEUU con el bloqueo económico, es en la práctica un incitador al odio contra Cuba.”
En este ataque el único cubano que recibió un balazo fue José Martí, la estatua de metal que domina el pequeño jardín de la Embajada. Pero pudo haber ocurrido una masacre esa madrugada del 30 de abril en la casona de la Calle 16 de Adams-Morgan. Diez funcionarios estaban dentro del edificio cuando las balas perforaron la puerta de entrada. Si alguien hubiera muerto, quizás estaríamos en el mismo punto: Washington reacciona a la agresión en su propio patio incluyendo a Cuba en “la lista de países que no colaboran con la lucha antiterrorista” (sic), como ocurrió ayer. Mientras, la Isla continúa exigiendo a la Casa Blanca más coherencia y menos cinismo, porque la impunidad y el crimen van juntos, se generan, se cultivan y alientan, se disimulan, se reproducen, se imitan, se aplauden.
Al analizar la serie de pinturas de Goya titulada “Los desastres de la guerra”, el hispanista francés Paul Lefort anotó que “siempre que hay un salto cualitativo en el uso de la violencia hay alguien dispuesto a superarlo”. Si Trump y Pompeo siguen en las mismas, ¿qué vendrá después del asalto a la Embajada?
(Publicado originalmente en el diario La Jornada, de México)
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