Rimpatriata

 

per non aver collaborato con la

 Procura facendo pressione su suo marito

 

 

L. PEREZ NAVARRO - 23 nov.'05

 

 

L’insistente bussare alla porta la svegliò, mentre appena cominciava il giorno. Era sola in un monolocale, una specie di studio per il quale pagava l’affitto il 15 di ogni mese. Ricordò che era il 16 e pensò che la proprietaria venisse per il pagamento.

 

La maggiore delle sue figlie, Irmita, era in vacanza all’Avana. La piccola Ivette, di due anni, si trovava a Sarasota con Teté, la bisnonna paterna, affinché Olga potesse lavorare la sera. Ogni fine settimana percorreva più di 200 miglia di strada per stare con la bambina.

 

Aprì. Una ragazza che indossava la divisa dell’Immigrazione, accompagnata da due uomini del FBI, le chiese di identificarsi. “Olga Salanueva, lei è in stato d’arresto”, le disse. Era il 16 agosto 2000.

 

 

IL RICATTO

 

Tre giorni prima aveva fatto visita in prigione a suo marito René González che, insieme ai suoi compagni Ramón, Gerardo, Fernando e Antonio, era stato arrestato la notte del 12 settembre 1998, con l’accusa di essere un agente straniero non dichiarato.

 

“Parlammo della lettera che la Procura gli aveva consegnato il mese precedente invitandolo a negoziare le accuse”, ricorda Olga Salanueva. “Se accettava lo si poteva multare e inviare a casa. Avrebbe dovuto presentarsi come testimone della Procura e questo implicava sostenere le menzogne inventate contro i suoi compagni. In uno dei paragrafi gli ricordavano che il mio status legale migratorio (di cittadina cubana residente permanente negli USA) poteva venire revocato e che mi potevano rimpatriare a Cuba”.

 

“Stanno orchestrando qualcosa contro di noi. Dobbiamo essere preparati a tutto”, le disse René in quell’incontro. Era molto vicino l’inizio del processo – era atteso per settembre, ma cominciò il 27 novembre – ed egli sapeva che avrebbero tentato di esercitare pressioni nei suoi confronti utilizzando la famiglia.

 

René non firmò il documento. Come risposta disegnò un pugno chiuso con il dito medio eretto.

 

 

IL CARCERE

 

“Non appena aprii la porta mi resi conto che si trattava di qualcosa che aveva a che fare con René”, ha affermato Olga. “Riconobbi uno degli agenti del FBI che era presente due anni prima, quando lo arrestarono”.

 

Mi tirarono fuori di casa ammanettata e mi portarono nell’edificio dell’Immigrazione di Miami, dove presero le mie impronte digitali. Dissero che avevo tentato di entrare negli USA tentando di falsificare un visto. Non era vero perché io venni reclamata legalmente da René, che è cittadino nordamericano. L’intenzione era far vedere che io ero a conoscenza delle sue attività. Visto che non avevano modo di provarlo” – altrimenti mi avrebbero arrestato insieme al resto del gruppo – “mi processarono per una questione migratoria”.

 

“Poi mi trasferirono in un carcere statale, dove l’Immigrazione prese in affitto una cella nella quale portano le persone con cattiva condotta a Krome (l’installazione che veramente mi corrispondeva, ma dove non mi portarono adducendo ragioni di sicurezza).

 

Mi resi conto che perseguivano lo stesso scopo di quando avevano rinchiuso i Cinque nel ‘buco’: che ci stessi molto male. Ero sola in una cella, senza finestre. Non uscivo a prendere il sole. Il cibo era pessimo, non mi permettevano di ricevere assistenza medica...”

 

“Nei più di tre mesi che stetti lì vidi Ivette soltanto una volta. Parlavamo al telefono e mi diceva: ‘Mami, perché non vieni a vedermi, io ti voglio vedere’. La nonna Teté fece le pratiche per una visita e le autorità della prigione le dissero che si sarebbe svolta in un piccolo salotto per avere un contatto più intimo, ma non fu così. Io da una parte e mia figlia dall’altra, separate da un cristallo parlando attraverso un telefono. Data la sua inquietudine mi venne in mente di dirle che ero in un ospedale, che avevo molto catarro e che non la potevo abbracciare. Ricordo che mi disse: ‘Mami, perché in questo ospedale ci sono tanti ‘sheriff’s’? Per me questo fu un colpo molto forte”.

 

“Cominciai a scrivere a mio marito, ma non gli consegnavano le lettere. Tuttavia, ogni giorno io ricevevo la sua corrispondenza, i suoi poemi e le sue parole d’incoraggiamento. Anche quelle di Gerardo, Tony, Ramón e Fernando. Io conservo quelle lettere”.

 

“René mi diceva che avrebbe continuato a scrivermi, nonostante non ricevesse risposta, che era sicuro che avremmo vinto nel processo, che lì a Miami sarebbe affiorata tutta la storia del terrorismo contro Cuba. Io avevo molte speranze di presenziare al processo. Non fu così e questo frustrò la promessa che gli avevo fatto di stare accanto a lui in quei momenti difficili.”

 

Quando già era imminente il rimpatrio, René le scrisse: “Anche se non sarai qui, io continuerò a scriverti ogni giorno tutto quanto capiterà in tribunale”. E così nacque il diario nel quale racconta il processo.

 

 

DI RITORNO A CUBA

 

“Mi rimpatriarono il 22 novembre. Il processo contro René e i suoi compagni cominciava il 27 di quel mese”, racconta Olga. Avevano fatto il possibile e l’impossibile perché egli si arrendesse, si vendesse, fosse testimone della Procura. Ma non ci erano riusciti.

 

Durante l’udienza di fronte al giudice d’Immigrazione, la Procura sostenne che il visto di Olga non valeva più perchè lei era a conoscenza della attività di suo marito.

 

“Ricordo che il magistrato chiese le prove contro di me. Gli risposero che facevano parte delle prove del processo contro i Cinque e che non potevano ancora essere rese note. ‘Ma sono una famiglia?’, chiese. ‘Sì’, disse la Procura, ‘anche le figlie fanno parte del gruppo’. ‘Quanti anni hanno?’ ‘Una 14 e sta ricevendo addestramento, l’altra due’. ‘Lo sta ricevendo anche quella?’ ‘Lo riceverà in futuro’. Noi scherzando chiamavamo Ivette la bimba spia”.

 

“Chiesi di accomiatarmi da René ma non mi autorizzarono. L’ultima volta che ci vedemmo fu proprio il giorno del mio arresto. Quando mi trasferirono nel carcere, mi chiesero se volevo vedere mio marito e collaborare con loro. Risposi che non avevo niente da dire ma che lo volevo vedere. Subito mi resi conto che era il modo che utilizzavano per dimostrargli che non erano solo minacce, ma era l’unica opportunità di incontrarci un’altra volta. Mi presentarono vestita da detenuta. L’incontro avvenne in un salone, circondati da agenti del FBI. Lui mi chiese: ‘Chi ti ha arrestato? L’Immigrazione?’ Gli dissi di si. ‘Probabilmente ti rimpatrieranno’, mi disse. Ci salutammo e fino a oggi non l’ho visto più”.

 

Olga chiese un’altra cosa: di viaggiare con sua figlia Ivette. Era ancora recente la liberazione di Elián (avvenuta nel giugno di quell’anno) e temeva che la mafia anticubana residente a Miami compisse rappresaglie sulla bambina. Ricevette una risposta negativa alla sua richiesta, con il pretesto che Ivette è cittadina nordamericana e che questo processo non riguardava lei. “Suggerii che ciò avvenisse alle condizioni da loro determinate, che un parente la portasse nell’aeroporto, che me la consegnassero nell’aereo. Ma rifiutarono qualsiasi tipo di condizione”.

 

Il 22 novembre di primo mattino la trasferirono dalla cella all’aeroporto di Opaloca. Un’altra prigioniera venne incaricata di avvisare per telefono Teté. La fecero salire su un aereo militare che trasportava a Cuba gli espulsi, nel quale viaggiò per tutto il tempo ammanettata.

 

“La bambina ritornò con mia suocera Irma il giorno seguente. Non voglio ricordare le amare ore che passai aspettando mia figlia...”

 

 

RIVENDICARE IL DIRITTO STATUNITENSE

 

Accanto alla scaletta Nuris Piñero, avvocatessa della famiglia dei nostri Cinque eroi, aspettava Olga. Di quel momento racconta: “Olga è scesa con nobiltà, con la fronte alta, con un sentimento d’innocenza così evidente che immediatamente ho capito di avere una persona molto speciale davanti a me. Penso che sia una donna straordinaria, all’altezza del marito che ha scelto”.

 

“Il trattamento ricevuto da Olga”, ha affermato, “è contrario al diritto, un modo di forzare un risultato nell’ambito criminale, è una delle torture che vieta l’8º Emendamento della Costituzione degli USA. Se questo non fosse un caso politico coperto con un manto giuridico, il modo di agire sarebbe stato diverso. Nella pratica giudiziaria nordamericana, se una persona coinvolta in un processo comune riceve tali pressioni, non appena queste si conoscono e vengono denunciate, viene rimessa in libertà e non si discute più la questione”.

 

Recentemente, passati 5 anni dal rimpatrio, Olga ha sollecitato per 7ª volta il visto – negatole per sei volte – per visitare suo marito accompagnata dalla piccola Ivette. La risposta è in sospeso. Un paragrafo della Legge d’Immigrazione e Naturalizzazione degli USA permette, dopo 5 anni, di rivedere il dossier di una persona rimpatriata e di autorizzare il suo ingresso in quel territorio.

 

“Le autorità nordamericane”, ha affermato l’avvocatessa, hanno l’obbligo di dare una risposta favorevole. È il modo di rivendicare il diritto migratorio e il sistema giuridico degli USA di fronte all’ingiustizia commessa contro René, contro Olga e contro le loro figlie.