Da Fidel a Chavez, passando per piqueteros, Sem Terra, indios:
il nuovo asse dell'antagonismo afro-indio-latinoamericano.
Il ruolo di Lula. La minaccia Uribe e i piani USA.
Fulvio Grimaldi - 31 gennaio 2005
Del mio lungo giro dalla prima rivoluzione latinoamericana dei tempi nostri, lungo le lancette dei sommovimenti sismici di questo continente in trapasso tra adolescenza e maturità, fino al ritorno all'isola caraibica che è, appunto, l'alfa e l'omega, la culla e il faro, di quanto si sta muovendo nell'emisfero, ricordo tre episodi particolarmente significativi sul ruolo che la vicenda cubana ha nel nuovo contesto.
A Buenos
Aires, in un'Argentina ancora groggy per la falcidie generazionale operata dai
generali della dittatura filo-yankee (non si scordi mai il ruolo da protagonista
di Vaticano e P2, oggi più che mai impazzanti da noi) e per il massacro sociale
ed economico del ladrone Carlos Menem, quella festa di piqueteros che esplode in
standing ovation al canto di una giovane compagna: "Que mueran los yankees - que
viva Fidel!"
Poi, in Brasile, un fazzoletto di terra sotto grandi sequoie, punteggiato da
baracche e teli neri della spazzatura, dove Matheus, 20 anni, secondo anno di
agraria all'università di Campo Grande (Mato Grosso do Sul), arrivato lì a
cinque anni d'età con un'ottantina di acampados Sem Terra, che reclamano la
terra improduttiva di un fazendero assenteista, per la mia telecamera si spoglia
della maglietta lacera e infila quella della festa, con il volto del Che e la
bandiera di Cuba: "Se Lula si arrende, noi, come il Che e Fidel, non lo faremo
mai!"
Infine, a Caracas, uno qualsiasi degli episodi di mescolanza del presidente Hugo
Chavez con il suo popolo, nel quale il successore del Libertador Simon Bolìvar,
non manca mai di raccontare la sua Cuba, il suo Fidel, fin dalla prima visita
nel '94, appena liberato dal carcere di Rafael Caldera: "Mi disse Fidel: la
giustizia sociale, l'uguaglianza, la libertà noi le chiamiamo socialismo,
voialtri laggiù le chiamate bolivarismo. Va benissimo così. E io gli risposi:
sono d'accordo" (con tanti saluti agli immarcescibili grilli parlanti dell'
eurocentrismo che si dilettano nel fare le pulci a chi non rientra nei loro
schemini perennemente decontestualizzati). E la folla che gli risponde con
l'urlo: "Cuba sì, yankee no!"
Negli anni '80, tenente colonnello dei paracadutisti, Hugo Chavez lavora al suo
progetto rivoluzionario all'interno delle Forze Armate, ben sapendo che, in
America Latina, o tiri dalla parte delle masse escluse l'apparato della società
più forte e presente sul territorio, o finisci come con Videla, Pinochet e, in
Venezuela, Jimenez. La sua ispirazione scaturisce, oltreché dalla lezione
indipendentista e antioligarchica di Bolìvar, da Gramsci e Mao Tse Tung,
dall'esempio di Josè Martì e dall'esperimento consolidato di Fidel Castro. Un
filo rosso che attraversa il processo rivoluzionario fin da quegli esordi del
"Movimento Rivoluzionario Bolivariano 200", che spostò a sinistra l'asse
dell'esercito, più tardi bonificato con l'immissione, al posto dei lividi
creoli, di inediti quadri meticci e indios. Filo rosso che lega l'insurrezione
fallita del 1992, nel nome di un popolo vampirizzato da Carlos Andres Perez, il
Ciancimino del Venezuela, alla costituzione bolivariana del 1999, modellata in
buona misura su quella cubana e alle centinaia di leggi che hanno fornito la
base legale alla rivoluzione sociale: riforma agraria, pesca, infanzia,
maternità, donne, scuola, adolescenti, anziani, lavoro, casa, ambiente, indios e
loro territori, petrolio...
Quanto al petrolio lasciatemi ricordare, insieme alla forniture a prezzo
politico a Cuba, che hanno fatto inviperire l'oligarchia debellata, un tempo
manomettitrice brigantesca di questa massima ricchezza del paese, una visita a
El Palito, raffineria-cuore della PDVSA, la società riconquistata da Chavez allo
Stato dopo che i golpisti della destra l'avevano utilizzata per il famigerato
paro, la serrata padronale che doveva affamare il paese e s'illudeva di
sollevarlo contro Chavez. Della nuova struttura "orizzontale" nel governo della
compagnia petrolifera, con gli operai partecipi del processo decisionale (non
sempre esente da tentativi restauratori dell'immancabile residuo burocratico),
erano un bel simbolo le tre mense separate - dirigenti, impiegati, operai - oggi
riunite in una sola, aclassista.
Antonio Serra, dirigente e riorganizzatore della raffineria, comunista, è sicuro
che l'imperialismo e i suoi fantocci nella regione presto o tardi tenteranno il
colpo di forza per impadronirsi della ricchezza energetica del paese e per
bloccare il processo rivoluzionario, con i suoi effetti contagiosi sull'intero
continente, ma ha anche piena fiducia in un popolo che si sta attrezzando, alla
maniera cubana, vedi Plaja Giron, ad affrontare minacce del genere.
Nell'Incontro mondiale degli intellettuali in difesa dell'umanità e nel
Congresso bolivariano dei popoli, il tema che attraversava entrambe le
manifestazioni di Caracas era l'unificazione bolivariana dell'America del Sud e
del Caribe, a concretizzazione del sogno, appunto, di Bolìvar e di Martì. E
tanta eco e passione ha già suscitato, nei sei anni di rivoluzione bolivariana,
tra le masse del continente e tra le sue avanguardie, questo messaggio e la sua
implicazione antimperialista, rivolta in primo luogo al nemico principale, gli
USA con il loro ALCA (progetto di ricolonizzazione latinoamericana), ma anche ai
succedanei neocolonialisti europei , da costringere anche i governanti più
riluttanti e filo-yankee, per quanti retropensieri nutrissero, a sottoscrivere
un impegno per la "Comunità Sudamericana degli Stati". E' accaduto a Ayacucho,
Perù (luogo della definitiva disfatta spagnola ad opera del giovanissimo
maresciallo Sucre), nel dicembre scorso. E' sicuramente la forza del messaggio
di riscatto partito e rafforzato da Cuba e rilanciato dal Venezuela ad aver
permesso al fronte progressista (Venezuela, Argentina, Brasile, l'Uruguay con il
Frente Amplio di Tabarè Vasquez e dei gloriosi Tupamaros, il nuovo Panama di
Torrijos) di imporre la sua egemonia sullo schieramento conservatore di Perù,
Bolivia, Ecuador, le Guayane, Colombia, con nel mezzo il Cile cerchiobottista di
Lagos.
Cuba, non ultima delle vecchie rivoluzioni impossibili, residuato di una vicenda
sconfitta nel Novecento con la caduta dell'URSS, lo sbrindellamento del blocco
est-europeo, la corruzione o disintegrazione degli Stati progressisti della
nazione araba e del Sud del mondo, la murdochizzazione della Cina, come
definiscono Cuba dirigenti della Sinistra, anche "alternativa" ma all'orecchio
della manipolazione informativa occidentale; Cuba, invece, prima rivoluzione
socialista del Nuovo Mondo, di Nuestra America, a cui guardano nuovi governi,
nuovi movimenti, nuove volontà che vanno ben al di là dell'"altro mondo
possibile" nella Porto Alegre significativamente sconfitta dalla Destra e dove
Chavez, acclamato più di tutti, ha rimesso all'ordine del giorno, tra chi
rischiava di confinarsi nel correttivo altermondialista, le parole "antimperialismo"
e "rivoluzione". "Un'altra rivoluzione è possibile!" si legge sui muri della
città, in alternativa a un altro slogan, più vecchio e più vago.
Di Cuba Chavez e poi Lula, con tutti i suoi ripiegamenti su altri fronti, e
Nestor Kirchner in Argentina, hanno rotto l'isolamento di mezzo secolo, oltre al
tiepido appoggio dato dal Messico e tradito dall'amerikano Fox, Marcos o non
Marcos (un personaggio fuori da questo processo). Ma il presidente venezuelano è
andato ben oltre le forniture di petrolio, ricambiate dall'impegno
internazionalista di migliaia di medici e insegnanti cubani operanti nel
grandioso processo di alfabetizzazione e sanitarizzazione del Venezuela,
modellato proprio sull'esempio cubano (che nel mondo in via di sviluppo aveva
avuto l'eguale nel solo Iraq pre-invasione barbarica). L'ALBA, Alternativa
Bolivariana per le Americhe, lanciata da Chavez in contrapposizione all'ALCA e
ai trattati-capestro bilaterali con cui Washington cerca di rimediare
all'incipiente fallimento dell'accordo di "libero" scambio continentale, ha
avuto una prima, esemplare prefigurazione nell'integrazione tra Venezuela e
Cuba, firmata dai due governi nel dicembre scorso. Le colonne portanti di questa
integrazione, che impegna i settori commerciali, doganali, sociali, finanziari,
tecnologici, culturali, informativi (la famosa "Telesur", televisione
satellitare per tutta l'America Latina, che Chavez è andato a studiare nel
Qatar, da Al Jazira), sono: un'effettiva partecipazione dello Stato come
regolatore e coordinatore dell'attività economica, un Piano Continentale contro
l'analfabetismo, un piano latinoamericano di trattamento sanitario gratuito, un
piano di borse di studio nelle aree di maggiore sviluppo economico e sociale, un
Fondo di Emergenza Sociale, uno sviluppo integrato di comunicazioni e trasporti,
sostenibilità dello sviluppo con la protezione dell'ambiente, integrazione
energetica della regione (la "Petroamerica" di Chavez), un Fondo Latinoamericano
di Investimenti e una Banca di Sviluppo del Sud da contrapporre all'FMI, il
diritto di proprietà intellettuale per il patrimonio dei paesi latino-americani,
la lotta per la democratizzazione e la trasparenza.
al servizio dei monopoli...
Il processo va ben al di là della stretta intesa, fratellanza, tra i due paesi
rivoluzionari. Lo si è potuto constatare in occasione del Congresso bolivariano
dei popoli, tenutosi a Caracas e in altri centri del paese a dicembre, con la
partecipazione di tutti i grandi movimenti di massa organizzati, oggi in lotta
con oligarchie, tirannie ultracapitaliste e narcodipendenti, mascherate da
democrazie (Uribe in Colombia, Toledo in Perù, Gutierrez in Ecuador),
penetrazioni dei monopoli euro-nordamericani e dell'apparato militare
statunitense. C'erano proprio tutti. Tra i tanti, Evo Morales, leader del
Movimento al Socialismo (MAS), secondo alle elezioni presidenziali in Bolivia,
dopo la cacciata di Sanchez de Lozada a furor di popolo contro le
privatizzazioni e svendite di acqua e gas, e vincitore delle recenti elezioni
amministrative; i Sem Terra, in grande offensiva dopo la mancata riforma agraria
di Lula e la ripresa delle stragi ad opera dei latifondisti brasiliani, i
sindacalisti della CUT di San Paolo, i dirigenti del movimento indigeno
dell'Ecuador, in lotta con l'indio "rinnegato" Lucio Gutierrez, le
organizzazione dei nativi peruviani e quelle antagoniste, in armi e in lotta
civile, del mafiostato Colombia.
Un momento significativamente immancabile, di grande tensione emotiva e portato
a simbolo del modello cubano, in ogni commissione di lavoro e nelle plenarie,
l'impegno per los cincos, i cinque patrioti cubani grottescamente condannati a
pene pesantissime a Miami per aver denunciato ai banditori della "guerra
mondiale al terrorismo" di Washington i complotti terroristici della mafia
cubana e, oggi cubano-venezuelana, di Miami.
Evidentemente un imperialismo nordamericano come quello che, sotto la guida
terroristica e guerrafondaia dei neonazi intorno a Bush e con la crescente
complicità dei rinascenti imperialismi europei, sta proponendosi di portare la
"democrazia" genocida, modello Ashcroft-Rumsfeld-Cheney-Rice-Sharon, ai cinque
continenti, non poteva non reagire con ogni mezzo a un processo di portata
epocale e di immense prospettive come quello innescato da Cuba e dal Venezuela.
Il timore di doversi trovare di fronte a un sommovimento che, da resistenza
incrollabile a Cuba e da Blocco del cambio in Venezuela, promette di puntare
alla creazione di un blocco continentale antagonista in quella che da Monroe,
negli anni venti dell'800, doveva essere "l'America agli americani" (leggi
"statunitensi"), costituisce, insieme alla debacle in Iraq, la fonte della
massima preoccupazione di Washington. Ne sono espressione i multimiliardari Plan
Colombia e Plan Puebla Panama, la militarizzazione della Colombia e
dell'Ecuador, lungo un asse andino che costituisce oggi il contraltare al fronte
progressista sulla costa atlantica, con le continue incursioni, provocazioni,
gli attentati destabilizzatori in Venezuela, la licenza concessa ad Alvaro Uribe,
grazie a un nuovo Piano Condor, di violare con imprese terroristiche e sequestri
la sovranità degli Stati vicini, il fallito colpo di Stato contro Chavez e il
successivo sabotaggio economico, la penetrazioni di forze speciali statunitensi
(contractors, consiglieri, istruttori, commandos) e di basi militari in tutta
l'area amazzonica, le pressioni del Pentagono, delle transnazionali USA, del FMI
e della Banca Mondiale sul governo brasiliano.
Punta di lancia della controffensiva imperialista è sempre il narcopresidente
Uribe. A lui i padrini statunitensi hanno assegnato il compito della
destabilizzazione terroristica, visto il crollo di ogni opzione reazionaria sul
piano democratico. E' dalla Colombia che veniva il centinaio di paramilitari che
furono scoperti mentre preparavano in Venezuela un attentato a Chavez; sono
passati dalla Colombia gli esplosivi provenienti da Miami con cui poliziotti di
Caracas, al servizio della vandea oligarchica, hanno fatto saltare in aria a
novembre Danilo Anderson, il coraggioso magistrato che era riuscito a
riallacciare i fili del golpe CIA dell'aprile 2002; e sono stati agenti
colombiani a sequestrare in piena Caracas, insieme a militari venezuelani
corrotti da Uribe con una taglia di 1,5 milioni di dollari, e a portare in
Colombia Rodrigo Granda, responsabile internazionale delle FARC-EP. Un atto
piratesco, tipico del nuovo Piano Condor, che violava grossolanamente la
sovranità venezuelana e il diritto internazionale, compiuto mentre Uribe
ospitava in lussuoso esilio Pedro Carmona, protagonista del golpe d'aprile,
autoproclamatosi dittatore del Venezuela e responsabile dell'assassinio di 70
civili che manifestavano per il loro presidente. Il risultato è stato una
tensione al calor bianco tra i due paesi, sulla quale gli USA si sono
precipitati a versare benzina, la rottura dei rapporti commerciali e la
sospensione di quelli diplomatici.
Il regime di Uribe è universalmente percepito come il peggiore praticante di
terrorismo di Stato dopo gli USA e Israele. La sua funzione in America Latina
assomiglia sempre di più a quella assegnata a Israele in Medio oriente. Nel
periodo medio, alla Colombia spetta il compito di provocare un conflitto diretto
con il Venezuela. E non ci si lasci ingannare dallo stop-and-go che nei prossimi
mesi caratterizzerà il rapporto tra i due governi. A Uribe serve preservare un
minimo di apparenze, a Chavez ritardare il più possibile la resa dei conti, agli
USA calcolare il momento migliore per l'escalation. Nel frattempo, per preparare
il terreno, rivendicando il diritto di intervenire ovunque per ragioni di
"guerra al terrorismo", la dottrina Uribe implicitamente rigetta confini
riconosciuti e si riserva la possibilità di violare frontiere nazionali senza
consultare gli Stati i cui diritti infrange. Non è lungo il passo dal
disconoscimento di confini statali, all'annessione di aree adiacenti per motivi
di "sicurezza", o economiche. Solo nel 1992, la Colombia rasentò la guerra
quando inviò le sue navi da guerra nelle acque venezuelane. Oggi le mire di
Bogotà e del suo sponsor nordamericano sono apertamente puntate sullo Zulia,
stato venezuelano confinante con la Colombia, massima fonte degli idrocarburi
venezuelani e uno dei due Stati della federazione ancora governati
dall'opposizione a Chavez. Parrebbe un gioco da ragazzi provocare incidenti di
frontiere un pò più massicci di quelli che si sono susseguiti negli ultimi tre
anni, occupare almeno una parte dello Zulia, installarvi un governo
"democratico" di fuorusciti e, di fronte alla legittima reazione di Caracas,
invocare l'intervento dei marines. Non sono lontani nel tempo l'invasione di
Haiti, il rapimento del suo legittimo presidente, Aristide, e l'occupazione
dell'isola da parte di forze d'occupazione statunitensi a sostegno di un governo
di criminali.
Washington ha fornito alla Colombia aiuti militari secondi solo a quelli
regalati a Israele. Obiettivo primario - e quello che potrebbe ritardare
l'aggressione diretta alla repubblica bolivariana - è la liquidazione del
movimento guerrigliero come primo passo per consolidare la presa sulla regione
andina e il bacino superiore dell'Amazzonia. Raggiunto questo obiettivo, si
avrebbe la pista di lancio per occupare il Venezuela o, almeno, le sue ragioni
petrolifere. Di fronte a un esercito venezuelano, auspicabilmente bonificato con
l'immissione di molti quadri meticci e indios, di appena 40.000 effettivi (ma
Chavez sta rafforzando la Riserva e punta al modello cubano di difesa
territoriale universale), stanno forze armate colombiane triplicate negli ultimi
anni fino a 267.000 effettivi. Fortemente aumentata risulta anche la forza da
combattimento aereo, mentre sono stati introdottoti mezzi di sofisticata guerra
tecnologica per individuare e colpire la guerriglia.
In questa luce, il rapimento di Rodrigo Granda appare soltanto come la prova di
un ampio progetto di intensificazione delle provocazioni, finalizzato anche a
sondare la lealtà, disciplina, e efficacia del sistema di sicurezza venezuelano.
Contribuendo a rianimare un'opposizione fascistoide asservito al colonialismo,
che le successive avanzate della rivoluzione avevano ridotto in coma cerebrale,
gli USA stanno svolgendo un programma che punta a constatare fino a che punto si
possa spingere il Venezuela a cedere sovranità e controllo delle proprie
frontiere.
Non si conti eccessivamente, in questo scenario, su appoggi esterni al
Venezuela. L'Argentina è lontana e ha i suoi guai, l'Uruguay è ancora
diplomaticamente e militarmente irrilevante. Quanto al Brasile, l'ambiguità
dell'attuale governo si estende anche alla dimensione dei rapporti
interlatinoamericani. Al tempo dei colpi di Stato e di mano dell'oligarchia
venezuelana, il ministro degli esteri di Lula, Celso Amorin, organizzò un
cosiddetto "Gruppo di amici del Venezuela". Chavez si guardò bene dal ricorrere
alla sua mediazione: era composto da ostili dirigenti neoliberisti
ibero-americani, tra i quali Aznar di Spagna, Bush, Fox del Messico, Lagos del
Cile e un Brasile che poneva sullo stesso piano l'opposizione golpista
venezuelana e il legittimo governo di Chavez. Ora Lula ha nuovamente offerto i
suoi servizi per mediare tra Colombia, l'aggressore, e Venezuela, l'aggredito.
Non v'è alcun dubbio che Chavez abbia l'appoggio incondizionato della stragrande
maggioranza dei venezuelani. Sa che il popolo è disposto a combattere per
difendere la sua terra, il suo governo, la sua rivoluzione e il diritto alla
propria sovranità. La questione della sovranità venezuelana, non è soltanto una
questione di manovre diplomatiche, ma, come per Cuba e per l'Iraq, i grandi
vincitori sugli USA, riguarda l'organizzazione delle masse venezuelane perché
diventino un deterrente militare contro ogni aggressione armata. Altro che i
disarmanti miti New Age della non-violenza.
La carta dell'aperta aggressione militare, con tanto di bombardamenti e sbarchi
di marines è certamente all'ordine del giorno, ma per il momento risulta
inapplicabile per l'eccessiva estensione della copertura militare statunitense
in Asia e Medio Oriente e, come ribadisce in ogni occasione Hugo Chavez con
sensi di riconoscenza, soprattutto per la grandiosa capacità di paralizzare e
far retrocedere l'apparato repressivo degli occupanti dimostrata in un crescendo
continuo dai partigiani iracheni.
La qual cosa non esime certo le forze antagoniste e antimperialiste europee dal
potenziare una solidarietà e, prima ancora, un'attenzione, finora davvero
inadeguate, per i protagonisti del grande processo di emancipazione in atto in
Nuestra America, a partire da Cuba e dal Venezuela (dove non stupisce che i
cosiddetti riformisti italiani, capeggiati da D'Alema, non si peritano di
continuare a esprimere il massimo sostegno alla peggiore feccia fascistoide e
golpista, responsabile del saccheggio di un paese che, al momento dell'arrivo di
Chavez, teneva l'80% della sua popolazione sotto il livello di povertà).
Rafforzare la rivolta sudamericana e del Caribe è compito che si attua
eminentemente nello scontro con i collaborazionismi nel campo di battaglia
interno a ogni paese. L'ultracapitalismo della Crisi, tornato ad essere
coalizione imperialista, imbellettato con il termine "globalizzazione
neoliberista", va combattuto, come ci ricordano sempre i compagni cubani e
venezuelani, in prima istanza nel proprio ambito. E' questa la luce che da qui
possiamo aggiungere al sorgere del sole sull'America Latina. Non per nulla alla
fine di gennaio ci è pervenuto dal Gruppo di Coordinamento della Solidarietà con
la Rivoluzione bolivariana, a Caracas, un appello diretto alle forze
antimperialiste in tutto il mondo e che, tra vari punti, elencava: incrementare
le mobilitazione popolari in tutte le città del mondo; sostenere la sovranità
del Venezuela e di Cuba e il rispetto dell'autodeterminazione di questi popoli;
denunciare la politica guerrafondaia del governo USA e del suo fantoccio Uribe;
denunciare l'appoggio degli USA a gruppi terroristi a Miami e in molte parti del
mondo, nonché quello della Colombia ai gruppi paramilitari e ai golpisti dell'11
aprile 2002; denunciare il persistente uso di rapimenti, torture, pratiche
terroriste in violazione dei diritti umani, praticati dal governo USA in Iraq,
Afghanistan, Guantanamo e, nel proprio territorio, contro i cinque patrioti
cubani.
L'appello si chiude con la parola d'ordine: "Viva l'unità latinoamericana!"
Resta da sottolineare una sensazione forte per chi ha la fortuna di trascorrere
brani di vita nelle rivoluzioni dell'America afro-indio-latina e tra i suoi
larghi e combattivi movimenti di massa, le sue organizzazioni di lotta.
Ascoltare le loro interpretazioni del mondo, seguire la loro informazione di
Stato o di movimento nei mezzi di comunicazione, studiarne le analisi dei
conflitti in atto tra ricchi e poveri, e non tra "democrazie e terrorismo", è
come una doccia purificante e vivificatrice su cervello e sangue. Una
disintossicazione dalle menzogne, dalle distorsioni e dagli stereotipi, non
tanto dell'informazione e disinterpretazione capitalista, che assolve al suo
compito di classe con la ferocia e il cinismo noti, quanto della subalternità,
chissà se più pigra, opportunista, o complice, delle sinistre istituzionali e
della loro comunicazione. Quello che da noi va cercato a fatica nelle nicchie
incontaminate dell'autentico antagonismo alla borghesia, da quelle parti è
verità corrente e scontata: quello che qui è omissione e nascondimento, là è
realtà in piena luce. Così in Ucraina quella che da noi viene esaltata come
"democrazia arancione", là torna ad assumere il suo vero carattere di colpo di
Stato CIA attuato attraverso i manutengoli serbi di Otpor; i bau-bau
dell'umanità, Bin Laden e Al Zarkawi - reali, o più verisimilmente fantasmi, che
siano - riemergono nei loro veri panni di autentici agenti della
controrivoluzione statunitense, quando ancora in vita, e la "guerra al
terrorismo" in Palestina, in Iraq e nel mondo, è sterminio imperialista delle
resistenze di popoli e classi; la "democrazia" delle osannate primarie e del
voto quinquennale nella morsa dell'intossicazione mediatica, si rivela per
dittatura della borghesia e dei suoi sottufficiali "riformisti" o "radicali". La
viscida, ma astuta operazione "non-violenza" e del "rifiuto del potere" è
smascherata per quello che è: una subdola strategia per disarmare le vittime e
lasciare il monopolio del potere e della violenza ai carnefici. Trova una, ma,
prima ancora, etica e biologica, nell'"Esercito del popolo sovrano" in
Venezuela, e nella guerra di difesa del popolo tutto a Cuba. Ma anche nei sei
milioni di cittadini iracheni che, ricevuti a suo tempo addestramenti e armi dal
proprio legittimo governo, oggi sono diventati la prima barriera contro la fine
della civiltà, se non della vita, dell'unica civiltà sopravvissuta, quella dei
proletari e dei popoli del "Sud", dovunque questo "Sud" si collochi.. Parola di
Hugo Chavez. Come mi ha detto Francisco Gonzales, il generale Pancho del Secondo
Frente di Raul Castro nella Sierra Maestra: "Noi siamo vivi perché siamo
armati".
Aggiungo
un'ultima ora su altro tema. A tutti coloro che rischiano di farsi intossicare
dalle fanfare di imperialisti e loro servi sulle magnifiche sorti e progressive
scaturite dalla "enorme affluenza alle urne del popolo iracheno assetato di
democrazia", serve ricordare: le "folle sterminate che a Baghdad inneggiarono
alla caduta della statuta di Saddam Hussein", risultate poi composte da un
centinaio di mercenari in parte importati dal Kuwait e pagati cinque dollari a
testa; un criminale di guerra eletto due volte alla presidenza degli USA con
brogli dimostrati; il milione di firme false raccolte dall'oligarchia golpista
del Venezuela, sotto gli auspici USA, per un primo referendum consultivo e poi
per il referendum revocatorio; le elezioni farsa in Afghanistan; le elezioni
palestinesi con un milione e rotti di votanti su nove milioni di palestinesi
lasciati quasi tutti al freddo; i colpi di Stato elettorali in Jugoslavia, in
Georgia e in Ucraina organizzati dai fascisti serbi di Otpor con i quattrini e
la supervisione della National Endowment for Democracy (istituto CIA per le
guerre a bassa intensità). 125 operazioni guerrigliere al giorno da parte delle
forze regolari irachene (che non sono gli ascari dello squadronista della morte
John Negroponte e del premier-assassino Allawi) sono, quelle sì, l'espressione
della volontà del popolo iracheno di farla finita con invasori e macellai
travestiti da "democrazia".
Un grazie a Fulvio Grimaldi