10 OTTOBRE 1868


La nascita di una nazione

 

P.A. GARCÍA- 9 ottobre 2005

 

 

L’insurrezione era fissata per il 14 ottobre 1868. Ma lo spionaggio spagnolo venne a conoscenza del piano e da L’Avana fu impartito l’ordine di arrestare i principali cospiratori. Un patriota intercettò il messaggio e lo comunicò a Perucho Figueredo, che a sua volta avvisò Carlos Manuel de Céspedes e gli altri.

 

A metà mattinata del 10 ottobre, nello zuccherificio Demajagua, circa 500 cubani giurarono di "morire combattendo prima che retrocedere dalla causa". Secondo Bartolomé Masó, che era presente, Cespedes "riunì i suoi schiavi e li dichiarò liberi (...). Lo stesso fecero gli altri proprietari terrieri riuniti attorno a lui".

 

"Cittadini" – esclamò Céspedes – "questo sole che si innalza sopra la vetta del Turquino sta illuminando il primo giorno di libertà". In quel momento vennero inalberate le due eroiche bandiere d’una nazionalità che si stava coagulando: la bandiera dell’indipendenza e quella della giustizia sociale, che nel 1868 doveva partire necessariamente dall’abolizione della schiavitù.

 

Secondo la tradizione popolare, si udì per la prima volta il grido di Indipendenza o Morte!

 

 

L’INTRANSIGENZA RIVOLUZIONARIA

 

 

Era una truppa inesperta e male armata, composta da proprietari terrieri, contadini medi e piccoli (molti di questi ultimi negri e mulatti liberi) e schiavi liberati in quello stesso giorno.

 

A Yara, due giorni dopo, si scontrarono con un distaccamento spagnolo molto ben addestrato e vennero sconfitti. Secondo la tradizione orale, restando a Céspedes solamente dodici uomini, uno scoraggiato insinuò che era meglio arrendersi. "Restano ancora dodici uomini" – replicò Carlos Manuel –, "sono sufficienti per conseguire l’Indipendenza di Cuba".

 

L’intransigenza rivoluzionaria proclamata nello zuccherificio Demajagua si propagò in tutta l’Isola. In quei giorni una madre cubana, Mariana Grajales, fece giurare i suoi figli su Cristo, "il primo uomo liberale venuto al mondo", che sarebbero morti in combattimento prima di desistere dalla lotta per la Libertà.

 

Nella savana camagueyana (Paradero de Minas, 26 novembre) Ignacio Agramonte, di fronte ad alcuni elementi pentiti di essersi dati alla macchia, precisò che la dignità si poteva conquistare solo sul filo della lama del machete e che per l’indipendenza di Cuba era sufficiente il senso dell’onore dei cubani.

 

Alcuni anni dopo, in qualità di Presidente della Repubblica in Armi, Céspedes avrebbe ribadito quest’intransigenza nella sua celebre lettera al politico statunitense Charles Sumner (1871), dove scrisse: "Il nostro motto è e sempre sarà Indipendenza o Morte. Cuba non solo dev’essere libera, ma non può più tornare ad essere schiava".

 

 

NAZIONALITA’ E NAZIONE

 

 

L’inesperta truppa mambí si riprese con entusiasmo e coraggio dalla sconfitta di Yara e poco dopo entrò trionfalmenta a Bayamo, dove per la prima volta si instaurò un Governo indipendentista. Perucho Figueredo scrisse il testo del nostro Inno Nazionale in groppa al suo cavallo, incitato dal popolo.

 

Alcuni giorni dopo a Pinos de Baire, un dominicano insegnò ai cubani l’uso del machete come arma da guerra. Entrava così nella storia patria Máximo Gómez, il gran formatore di quadri dell’esercito mambí, il geniale stratega militare delle nostre gesta del secolo XIX, secondo l’autorevole valutazione di Antonio Maceo.

 

A Guáimaro si abbracciarono i fondatori e ci dotarono di una Costituzione dove veniva consacrata l’uguaglianza di tutti i cubani di fronte alla Legge. Nasceva la Repubblica cubana ed il suo primo presidente, l’Uomo del 10 ottobre, trasformava nel 1870 in legge la totale emancipazione degli schiavi.

 

Cubani dal diverso colore della pelle condivisero trincee e cariche col machete ed in dieci anni di guerra, battaglia dopo battaglia, venne consolidandosi la nazionalità cubana, il cui inesorabile destino era quello di forgiare una nazione libera e sovrana.

 

Agramonte volle trasformare in realtà il vecchio sogno di Céspedes che la cavalleria degli insorti si abbeverasse lungo le rive dell’Almendares, ma un proiettile spagnolo glielo impedì nella scaramuccia di Jimaguayú. Máximo Gómez, dopo aver consolidato la lotta armata a Guantánamo, tentò di continuare l’opera del Maggiore.

 

Il dominicano beffò il Sentiero di Júcaro a Morón e si accampò in terra di Las Villas. Ma la mancanza d’unità, il regionalismo, la crescente indisciplina nel campo mambí, rovinarono l’invasione di Las Villas. Tutti questi mali spinsero i cubani a inguainare la spada e ad accettare la pace di Zanjón.

 

 

LE BANDIERE MAI AMMAINATE

 

 

Quando alcuni, esauritasi la loro audacia rivoluzionaria, pensavano solo alla capitolazione e molti altri, scoraggiati di fronte a tanta divisione e indisciplina, persero la bussola, la voce di Antonio Maceo si innalzò per salvare il prestigio della Rivoluzione del ’68.

 

A Baraguá, il Titano riprese le eroiche bandiere di Céspedes: nel nostro paese non potrà mai esserci la pace senza indipendenza e giustizia sociale (la quale, nel 1878, continuava a iniziare dall’abolizione della schiavitù). Con l’intransigenza del Generale Antonio e dei suoi compagni nella Protesta, la capitolazione di Zanjón divenne una semplice tregua, come venne presto dimostrato dalla Guerra Piccola e da quella del ’95.

 

Solo l’intervento yankee impedì che i nostri sogni di piena indipendenza e giustizia sociale venissero frustrati. Nelle nuove condizioni di lotta, il motto d’Indipendenza o Morte di quel 10 Ottobre, venne rivitalizzato con quello di Libertà o Morte delle lotte contro la tirannia machadista e batistiana e continua ad essere presente nelle attuali generazioni con il nostro Patria o Morte, Vinceremo.

 

Può quindi meravigliarsi qualcuno che recentemente, quando il popolo cubano ha proclamato di fronte al mondo che le bandiere inalberate nello zuccherificio Demajagua continueranno a garrire per sempre, abbiamo giurato questa risoluzione nel nome di Baraguá?"