La grande esportazione di Cuba nel mondo

Il governo dell’Isola sta formando gratuitamente 10.000
medici provenienti dai ceti più umili dei paesi poveri

 

Pascual Serrano (Da Rebelion) 8 aprile 2005

 

Il governo cubano sta preparando come medici più di 10.000 giovani di tutto il mondo, provenienti da famiglie umili o da gruppi etnici emarginati. Per 7 anni il Programma Nazionale di Sanità li accoglie gratuitamente nell’Università Latino-americana di Medicina. Offre loro i libri e il materiale necessario, l’assistenza sanitaria, l’alloggio, il cibo e 100 pesos al mese per le spese. Dei 28.071 studenti di Medicina che ci sono a Cuba, 10.403 sono stranieri: 9.024 del continente americano e il resto dei Caraibi e dell’Africa. Ogni anno si iscrivono 1.500 allievi.

 

Si tratta di un’iniziativa adottata da Fidel Castro dopo il disastro umanitario provocato dagli uragani che hanno devastato l’America Centrale nel 1998. In 92 giorni la Scuola della Marina, situata in una zona dell’Avana privilegiata per essere di fronte al mare, è diventata un complesso educativo per preparare come medici i giovani latino-americani e africani, provenienti da più di 27 paesi. Quest’anno conseguirà la laurea il primo contingente.

 

Gli allievi vengono selezionati nei settori più umili della popolazione, cioè nelle comunità rurali e nei gruppi etnici emarginati. Ci sono anche 50 nordamericani appartenenti agli strati sociali poveri. I governi dei loro paesi non dispongono di una struttura educativa per formare chi non dispone dei soldi necessari, anche se appoggiano questo progetto cubano. Quando il Governo non lo fa, sono i gruppi di solidarietà a chiedere le borse di studio. E’ il caso del Messico, che all’inizio non si è interessato, o di paesi come El Salvador, che non ha rapporti diplomatici con Cuba. Queste ragioni non hanno mai avuto importanza per il Governo dell’Isola. Un paese poverissimo come Haiti, per esempio, conta 606 giovani in questa Università.

 

Al corso di 6 anni è stato necessario aggiungerne un’altro preparatorio per mettere tutti nelle stesse condizioni di partenza. Nel terzo anno i giovani vengono distribuiti nelle 21 scuole di Medicina esistenti in tutto il paese.

 

A Cuba ricevono una formazione come medici comunitari. Vengono formati nello spirito etico ed umanitario della Medicina. La sfida che poi dovranno affrontare sarà quella di inserirsi in un sistema sanitario neoliberale.

 

L’obiettivo è quello di continuare a fornire ai più poveri l’assistenza sanitaria che storicamente Cuba ha offerto negli angoli più umili e lontani del pianeta. Attualmente l’Isola ha 23.964 collaboratori della sanità, dei quali 17.013 sono medici distribuiti in 76 paesi di tutto il mondo. Gli specialisti se ne vanno volontari per un tempo che solitamente è di 2 anni, incassano lo stipendio stabilito a Cuba per un medico e un aiuto per la famiglia che lasciano nel paese. Il paese che li riceve deve solo collaborare al mantenimento del professionista. Nell’Isola una delle attività di maggiore riconoscimento sociale è aver partecipato come medico in queste campagne di solidarietà.

 

Gli allievi dell’Università Latino-americana di Medicina ci hanno comunicato le loro impressioni. Fredy Punciano (Perù) afferma che "è un’esperienza unica quella che ci permette di fare questo paese. Qui troviamo gente di molti paesi e impariamo. Il nostro obiettivo è diventare medici generici e umanisti". Diana, di Panama, segnala che "nel mio paese studiare medicina è molto caro. Cuba ci dà un’opportunità unica. Noi siamo una grande famiglia. Possiamo convivere con i cubani e conoscere questa gente". Una studentessa nordamericana di razza nera ci commenta la propria esperienza. "Io sono venuta qua perché le scuole nel mio paese sono molto differenti. Lì le lezioni non si fanno con solo 20 studenti per aula e ogni trimestre costa 50.000 dollari più i libri, il cibo e molte altre spese. Qui tutto è gratis". "Inoltre – ha aggiunto – l’insegnamento in questa nazione è molto differente. A Cuba si studia per prevenire e aiutare una comunità. Negli USA, per far guarire solo alcune persone".

 

La maggioranza di loro riconosce che l’immagine dei cubani che conoscevano nel loro paese era falsa. La panamense Diana afferma: "Mi dicevano che qua molta gente era in prigione e c’era molta repressione. Perciò all’inizio non volevo venire. Adesso ho visto che tutto era falso". Anche per il peruviano Fredy è stato lo stesso: "Avevamo un’immagine molto traumatica. Ho letto che a Cuba venivano ad allenarsi i futuri terroristi dell’America Latina. La Medicina cubana aveva una buona reputazione, ma si diceva che qua non si rispettano i diritti umani. È evidente che non è vero".

 

Insistono anche sul modello educativo di cooperazione e aiuto che domina a Cuba. Carolina (Cile), dai tratti inequivocabilmente indigeni, aggiunge che "qua c’è più pratica e rapporto con il paziente. Nel mio paese è più teoria. Fino al 4º anno non si vede un malato". Anche il boliviano Anel lo sottolinea: "Lì ti insegnano a lottare solo, a risolvere i tuoi problemi individualmente. Qua ti dicono che bisogna lottare collettivamente, che da solo non puoi risolvere i problemi". Anibal Lara, di Panama, è della stessa opinione: "Nel mio paese mettono da parte la solidarietà di questa professione. E’ tutta una competizione per essere tra i 40 promossi dei 200 che cominciano il corso. Rivaleggiano fra loro. Qui si cerca di formare uno studente completo, che dimostri di aiutare i suoi compagni e non cerchi di superarli. Si vuol fare in modo che lo studente sia solidale."

 

Taria Hart, honduregna, spiega la ragione per la quale sono voluti venire a studiare a Cuba: "Prima di tutto per le mancanza di risorse economiche. Siamo poveri o membri di etnie abbandonate dallo Stato. Qui abbiamo imparato ad essere più umanisti. A Cuba la prima cosa è l’etica e la morale. Nei nostri paesi invece la prima cosa è il denaro. Nella mia patria se non hai soldi, muori. Qui si impara a essere più sociali, più umanisti. È la miglior cosa che mi è capitata". Anche la peruviana Camila spiega i problemi del suo paese. "Sono afro-peruviana. Lì abbiamo molti ostacoli. Non abbiamo accesso ad una buona sanità, ad una buona educazione e ad una buona alimentazione. Qua ci hanno insegnato la convivenza. Facciamo discussioni che ci aiutano a crescere. Da quando siamo a Cuba ci sentiamo più preoccupati per il nostro ambiente".

 

Il colombiano Yobani sottolinea la convivenza tra i popoli che implica lo studiare a Cuba: "Mi rendo conto che qui la gente impara ad amare la propria terra. Ciò è fondamentale. Qua si fa un’analisi del sistema sanitario e si giunge a una conclusione reale, che deve contribuire alla trasformazione della sua società. Osservo anche che le etnie delle nostre nazioni sono dimenticate. A Cuba ci mescoliamo e siamo un’unica famiglia latino-americana, che ha perso quella cattiva abitudine di rivaleggiare senza accettare il fratello. Queste sono esperienze uniche nella vita. Sappiamo che non ci laureeremo solo in Medicina, ma anche in pluricultura e plurisocietà", ha aggiunto. "Se mi alzo al mattino – afferma –, mi tiro fuori dalle lenzuola e guardo da una parte vedo un cileno, guardo dall’altra e vedo un ecuadoriano. Ciò è molto bello e mi fa pensare a Martí e a Bolívar."

 

Abbiamo chiesto a questi giovani se provano nostalgia per la loro terra e quali sono i loro progetti per il dopo ritorno. Carolina, la cilena, ha detto che "molti hanno voglia di tornare a casa. Ma so che poco dopo vorranno tornare di nuovo qui".

 

Camila segnala che non potrà dimenticare la sua gratitudine per Cuba quando tornerà nel mondo neoliberale. "C’è un impegno d’amore per il paese che ti ha insegnato tutto questo". Taria, l’honduregna, afferma che "dobbiamo ampliare tutto quanto abbiamo imparato qui. Io studio per la mia vocazione, ma anche per sopperire alla mancanza di medici nel mio paese. Lì è differente. I figli dei poveri studiano nelle aule pubbliche di basso livello educativo. Qua tra i cubani ci sono differenti livelli economici, ma tutti sono uguali nelle aule".

 

Un dubbio che ci espongono riguarda il perché non esista niente del genere nei loro paesi. Yobani ci risponde: "Lì è una questione produttiva. C’è competizione per il posto all’università prima e nell’ospedale poi. Ai nostri governi non conviene un’università gratuita. Se il sistema politico non cambia, non ci sarà mai un’altro modello educativo. Al nostro sistema e al nostro medico non preoccupa se il vicino non ha potuto mangiare o se il bambino della casa contigua è molto malato. A loro non interessa che la gente si educhi, vogliono solo sfruttarla."

 

Anche la boliviana Antet è critica con il suo paese: "Possiamo fare solo quel che dice il Governo. Lì non si impara a essere critici. Qui i cubani condividono tutto fra loro, mentre nei nostri paesi non ci si preoccupa per lo sviluppo della persona".

 

Ricordo loro che probabilmente, quando torneranno nei loro paesi, laureati in Medicina, potranno trovare un buon lavoro nella medicina privata e neoliberale, lontana dalle comunità. "Io so che ci faranno queste proposte – ha detto Carolina –. Ma credo che non dobbiamo perdere la nostra umanità. Sono sicura che se qualcuno non ha un soldo per andare dal medico, io non lo abbandonerò". La afro-peruviana Camila me lo spiega chiaramente:

 

"Qui si viene con un impegno umano e sociale e quell’impegno non si abbandona".

 

Mi sorprende il caso della giovane nordamericana del New Jersey. Lei proviene dal paese più ricco e potente del pianeta ed è venuta a studiare in una piccola isola del Terzo Mondo. "Io vengo a dire che i nostri popoli devono convivere in pace. Il mio Governo pensa che non ho diritto a venire qua, so che stanno tenendo sotto controllo la mia famiglia per sapere cosa sto facendo a Cuba. Non posso essere d’accordo con la politica del mio Governo contro i cubani".

 

Ma c’è qualcosa di eccezionale che osservo in ognuno di loro e che non esprimono a parole: è la sicurezza nelle loro affermazioni, la disinvoltura nella conversazione. I peruviani, boliviani ed equadoriani che ho conosciuto in Spagna lavorando come immigranti, la maggioranza dei quali sfruttati e illegali, sono discreti, remissivi, silenziosi. Una delle responsabili della Scuola Latino-americana di Medicina, senza saperlo, mi sta dando la spiegazione.

 

"Quando vengono qua, la prima cosa che dobbiamo dire a loro è che alzino lo sguardo, guardino diritti negli occhi, che sono i nostri fratelli e amici." Nessuno dice loro questo quando arrivano in Europa.