Addio Endrigo, la tua nave è partita
di
Leoncarlo Settimelli
08/09/2005
Quando il
tg1 ha dato la notizia della morte di Sergio Endrigo, a 72 anni, è stato come
ricevere una pugnalata. Sergio, l'amico di mille battaglie, se n'era andato.
L'ha fatto con tutta la discrezione possibile, com'era nel suo costume di uomo
semplice, di grande poeta, di uomo meno fortunato di quanto potesse sembrare. È
morto in una clinica romana ieri alle 19.30. Ad aprile i medici avevano scoperto
un microcitoma polmonare e la figlia Claudia ha voluto evitare al padre un
«accanimento terapeutico».
Un artista vero, che lascia nella nostra cultura impronte profonde e che ha
avuto forse la sfortuna di nascere troppo presto, quando la canzone italiana non
era oggetto di quella attenzione oggi dispiegata a piene mani. «La voce di
questo cantante - scrisse Gaio Fratini negli anni '60 - sembra giungere da molto
lontano, estranea com'è ad ogni formula, ad ogni compiacimento». Era vero, anche
se la sua carriera era allora agli inizi. Poi sarebbe venuto il meglio, con la
collaborazione con poeti come Raphael Alberti, Vinicius De Moraes, Josè Martì,
Pier Paolo Pasolini, scrittori come Gianni Rodari, musicisti come Morricone,
Bacalov e parolieri come il fido Sergio Bardotti, che lo accompagnava
allegramente al piano nelle sue serate.
La gola si serra a doverne scrivere, perdonate. Ma ho conosciuto Sergio fino dai
primi concerti al romano Teatrino delle Muse, quando intonava Il soldato di
Napoleone di Pasolini e Via Broletto, La brava gente, Evviva Maddalena, ma senza
darsi arie da intellettuale, anzi sempre bene attento ad arrivare a tutti.
Dichiarava sì di essere figlio d'arte, ma era un dettaglio perché quella
discendenza non gli aveva dato nulla. Il padre era cantante lirico, ma era
scomparso quando Sergio - nato a Pola - aveva appena sei anni. La madre sostenne
tutto il peso della famiglia, lavorando in una fabbrica di lucchetti. Poi, nel
'47, entrambi lasciarono Pola - dichiarata territorio jugoslavo - e furono
accolti in un campo per profughi a Brindisi. Vita tribolata. «Avevo sempre fame
- raccontava Sergio - e a scuola ero stufo di una maestra che badava solo a che
i quaderni fossero in ordine». Lo cacciano e lui si trasferisce a Venezia, dove
fa tutti i mestieri: lift negli ascensori degli alberghi, fattorino alla Mostra
del cinema... Poi partecipa a un concorso per dilettanti alla sala Malibran, ma
senza grandi risultati, perché la sua voce è inadatta alle canzoni del tempo,
tutte gorgheggi e potenza. «Nessuno mi scriveva canzoni e così cominciai a
scrivermele da solo», raccontava. Ebbe la fortuna di entrare nella formazione di
Riccardo Rauchi, il virtuoso del sax, suonando il contrabbasso. Cominciò così la
sua piccola ascesa. Nel frattempo nasceva a Milano la Dischi Ricordi, con al
timone Nanni Ricordi. Che riuniva a Milano Paoli, Gaber, Tenco, Bindi,
cantautori raffinati e colti, dalla vena un po' crepuscolare ma nuova. Ci
finisce anche Sergio, che debutta con Non occupatemi il telefono. Quando la
Dischi Ricordi chiude, quasi tutti emigrano a Roma, verso la Rca, e Sergio,
forte del successo di Io che amo solo te. I suoi sono testi «veri», storie
vissute in versi delicati. Ricordate la tragica storia d'amore di Via Broletto,
con lui gelosissimo che non sopporta la spregiudicatezza di lei la quale, quando
si baciano, «ride o parla adagio/ o mangia noccioline». La troveranno con un
forellino rosso sopra il cuore, «rosso come un fiore». E Maddalena, che regala
notti bianche? E La guerra? «Mi hanno detto di partire senza fare tante storie/
ma chi scriverà la storia no non parlerà di me». Erano temi comuni agli autori
di quegli anni, come De André, Tenco.
Endrigo non si tirava da parte. Veglie contro la guerra del Vietnam? Lui c'era
ma non risparmiava critiche a nessuno e ricordo una sera all'Adriano che, come
redattore dell'Unità, mi rimproverava che il giornale avesse dato spazio alla
boxe di Nino Benvenuti, che era missino sì, ma come sportivo… Alle grandi
serate politiche nei palazzi dello sport non mancava mai e il giorno dopo
telefonava «ti ho sentito, sai, ieri sera». Fu così che nacque la nostra
Filastrocca vietnamita che lui e Morricone musicarono per il film Grazie zia.
Poi scoprì Rodari e nacque Ci vuole un fiore, che è nei libri di testo e che
tutti i nostri figli hanno cantato. Era attento ai poeti che sapessero parlare
alla gente, e scoprì Raphael Alberti, di cui musicò La paloma. Scoprì Vinicius
De Moraes e il Brasile e tradusse e cantò La casa («Era una casa molto carina/
senza soffitta senza cucina»). Cantò a Sanremo nove volte, nel fatidico '68
vinse con una canzone d'amore, Canzone per te, forse non la sua più bella, ma
molto cantata da tutti. Finì terzo nel 1970 con quella che io considero, con
Volare, la più bella canzone di tutti i festival, L'arca di Noé, che in tempi di
tsunami e di katrine appare profetica.
Amareggiato da un'industria che lo aveva emarginato, aveva scritto un piccolo
racconto intitolato Quanto mi dai se mi sparo? Non erano estranee a questo tema
le vicende vissute da vicino, come il suicidio di Tenco, dal quale l'industria
ha tratto grande vantaggio di vendite. Ma era una sana iperbole, perché Endrigo
amava la vita «la calma, la buona tavola, i buoni amici, i buoni libri, la pesca
subacquea, i francobolli, le armi antiche, gli animali, i luoghi non affollati».
Ed è con grande coerenza che, come ha riferito la figlia nel comunicarne la
scomparsa, ha dato disposizioni perché si evitino funerali religiosi. Meglio un
concerto (d'intesa con il sindaco di Roma). Partirà la nave partirà!
A 72 anni si è spento Sergio Endrigo, un grande della canzone italiana con testi
ricchi di una poesia immediata. Vinse a Sanremo nel '68, poi l'industria lo ha
emarginato. Niente funerale, non era credente.