Siamo tutti

iracheni

 P. DE LA HOZ

 

2.6 José Couso, giornalista spagnolo del canale ‘Tele 5’, è morto assassinato dagli invasori nordamericani a Baghdad. La cannonata che ha fatto a pezzi il suo corpo e quello del cameraman ucraino Taras Prosiuk, dell’agenzia Reuters, è stata sparata con cognizione di causa. Le sezioni G-2 (servizi d’informazione) e G-3 (Operazioni) delle forze d’aggressione, sapevano che nell’albergo Palestina erano alloggiati giornalisti e che questi, per dare un’informazione obiettiva, non seguivano il copione dettato dal Pentagono per informare sulla guerra.

 

Javier, uno dei fratelli di José, è stato all’Avana non solo per denunciare il crimine, ma anche per mettere in evidenza tutti i crimini commessi dagli USA e dai loro alleati come parte dell’aberrante filosofia della guerra preventiva.

 

Nel suo intervento, pronunciato questo fine settimana nell’incontro internazionale Contro il terrorismo, per la verità e la giustizia, le sue parole sono penetrate a fondo. Poche settimane fa Javier si è recato in Iraq, ha percorso la città martire di Fallujah – il 70% della quale è stato completamente devastato dal selvaggio attacco degli occupanti – e ha conosciuto la lotta di un popolo per afferrarsi alla vita in mezzo a tanta morte. Ha raccontato tutto questo con sintetica eloquenza ai partecipanti al forum della capitale cubana.

 

Ascoltandolo ho ricordato le ragioni che più di una volta ha esposto affinché si faccia giustizia in questo ed in tanti altri casi di vittime del terrorismo nordamericano: "Quel che vogliamo è che si ponga fine all’impunità, specialmente in un paese come gli USA, che vanno per il mondo parlando di libertà, di democrazia, per poi pretendersi intoccabili, non giudicabili. Sappiamo chi sono. Abbiamo tutte le prove, con le loro dichiarazioni si autoaccusano e non possono essere giudicati. Perché? Perfino nei codici di giustizia militare esiste questo delitto, il crimine di guerra. Se fosse stato un errore, come hanno detto (ma non è vero), lo avrebbero dovuto investigare. Se fai un errore guidando una macchina devi andare in tribunale, come se avessi rotto un’auto. In questo caso è stata rotta una vita."

 

Una volta la settimana Javier e molte altre persone sfilano davanti all’Ambasciata degli USA a Madrid. Non vogliono vendetta ma giustizia e creare coscienza affinché la filosofia del terrorismo sia cancellata.

 

"Siamo tutti iracheni" ha detto, convinto che questa affermazione sarebbe stata interpretata nel suo significato più autentico: tutti gli esseri umani, dovunque vivano, possono rimanere vittime delle pratiche omicide dell’impero. Ma lo ha detto anche con la coscienza che gli uomini e le donne di questo mondo sono capaci di resistere e vincere i promotori del terrore.

 

Perciò l’abbiamo compreso quando ha detto di sentirsi figlio delle Madri della Plaza de Mayo, fratello delle 73 vittime dell’aereo sabotato davanti alle coste delle Barbados, parente dei Cinque Eroi cubani prigionieri negli USA per aver lottato contro il terrorismo.

 

Perciò apprezziamo José, il suo fratello di sangue, rinato nell’incontro all’Avana.