Ecuador, la vittoria scomoda di Correa

 


| martedì 28 novembre 2006  | S.Asinelli |
 

 

Il risultato delle elezioni presidenziali ecuadoregne sarà ufficializzato solo oggi, ma già nella tarda serata di ieri, con oltre il 70% di schede scrutinate, la vittoria di Rafael Correa è apparsa schiacciante. Il 66% degli elettori ha scelto il candidato delle sinistre confluite in Alianza País (AP), bocciando sonoramente il rivale Alvaro Noboa, imprenditore alla guida del Partido Renovador Institucional (PRIAN).
“Grazie a dio abbiamo trionfato”, è stato il commento a caldo di Correa che al primo turno era arrivato secondo con uno scarto di circa 5 punti percentuali. “Accettiamo questa vittoria con dignità ed umiltà – ha proseguito – consapevoli di essere solamente uno strumento del potere del popolo”. A scrutinio non ancora ultimato, i sostenitori dell’economista, che ha fatto della sua amicizia con Chávez il punto forte della contrapposizione al magnate delle banane Noboa, hanno riempito le strade di Quito per festeggiare. Un’euforia che ha contagiato l’intero Paese.
Al di là della retorica populista, infatti, è indubbio che la prospettiva di una svolta che metta almeno un freno alle politiche neo liberiste anche nel Paese sudamericano ha svegliato più di una coscienza. Il programma di Correa mira alla ridefinizione dello sfruttamento delle risorse economiche dell’Ecuador da parte delle imprese straniere, in particolare di quelle statunitensi. Una ridefinizione che passa per lo stop alle privatizzazioni ed una progressiva riacquisizione da parte dello Stato delle risorse nazionali. Agli antipodi rispetto al programma presentato dallo sconfitto Noboa, che forte del sostegno della Casa Bianca è andato predicando ulteriori aperture per gli investitori stranieri. Un punto di vista, quello dell’imprenditore più ricco del Paese, che non ha riscosso molto successo in un momento dove i risultati delle politiche socialiste e nazionali ottenuti in Venezuela e Bolivia riecheggiano in tutto il continente latino americano. L’imprenditore delle banane ha già fatto sapere di non accettare il risultato e di voler attendere l’ufficializzazione dello scrutinio da parte del Ufficio Elettorale Nazionale, previsto per questa mattina, al fine di poter presentare ricorso. Il candidato del PRIAN ha parlato di “un gigantesco imbroglio perpetrato ai miei danni”, invocando il Tribunale Elettorale per un nuovo conteggio delle schede. La denuncia di brogli da parte di Noboa era annunciata, così come i proclami di marca Usa volti a screditare la vittoria democratica di Correa. Il timore è che il Paese possa ora finire nel tunnel della rappresaglia statunitense. Le manovre di accerchiamento sono peraltro iniziate già ieri, quando dal cilindro dello zio Sam, quasi per magia, sono fuoriusciti ‘timori’ e ‘perplessità’ sulla tenuta finanziaria dell’Ecuador a guida Correa. Fiutando la sconfitta di Noboa già dalle prime ore del mattino, è stata la famigerata banca d’affari ‘Morgan Stanley’ ad aprire le danze emettendo un rapporto che mina la credibilità ecuadoregna: “C’è una forte probabilità – vi si legge – che parte del debito estero dell’Ecuador potrebbe non essere pagato nel caso in cui il candidato di sinistra Rafael Correa venga confermato vincitore delle elezioni”. Il rapporto si basa sul fatto che il neo presidente potrebbe adottare, precisano alla ‘Morgan Stanley’, un “approccio morale ed etico e non propriamente finanziario” rispetto alla questione del debito estero. Alla banca d’affari Usa ha fatto eco l’altrettanto famigerata ‘Credit Suisse’: “Il mercato probabilmente non reagirà bene al progetto di rinegoziare il debito estero e di non escludere una richiesta di moratoria”, ha dichiarato la portavoce Carola Sandy, aggiungendo che “la proposta di convocare l’assemblea costituente per riformare radicalmente il sistema politico è inoltre un elemento di ulteriore preoccupazione perché potrebbe essere implementata senza il supporto del congresso”.
Gli interventi di ‘Credit Suisse’ e ‘Morgan Stanley’ sconfinano nel politico e mettono direttamente il dito nella piaga che la vittoria di Correa può aprire in seno alle speculazioni neo liberiste nel Paese sudamericano. Il programma di Correa si rivela in tutta la sua pericolosità per gli interessi imperialisti. Oltre all’obbiettivo di azzerare il debito pubblico, infatti, il neo capo di Stato ha più volte ribadito il proprio secco rifiuto ad un accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. Le bordate atlantiche, a questo punto, erano previste. E già le minacce si trasformano in attacchi veri e propri: le obbligazioni internazionali sull’Ecuador con scadenza 2012 hanno ceduto di tre punti, mentre lo spread del debito del Paese rispetto all’indice EMBI+, indice che misura il differenziale di rendimento tra i bond dei Paesi emergenti e i titoli di Stato Usa, si è allargato di 60 punti base a 587 punti base nei confronti del ministero del Tesoro Usa. Tradotto in parole semplici, la fiducia dei mercati neo liberisti nell’Ecuador diminuisce mano a mano che viene confermata la vittoria di Correa.

 

 

 

 
Un nuovo Ecuador?

 


| martedì 28 novembre 2006  | A.Lai |
 

 

Sembra che il vento dell’affrancamento dal dominio statunitense sia arrivato anche in Ecuador.
Sembra. Appunto. Perché se è vero che di questi tempi ci si deve un po’ rassegnare alla logica del ‘meno peggio’ il candidato Correa era sicuramente meglio dell’imprenditore miliardario Alvaro Noboa, il ‘presidente-bananero’ legato a doppio filo con la Casa Bianca. Nelle prime dichiarazioni, dopo aver appreso dagli ‘exit poll’ il risultato del ballottaggio, Rafael Correa, 43 anni, economista ‘di sinistra’ con studi negli States, ha assicurato che il suo è un “trionfo della speranza e della cittadinanza”, aggiungendo che ora comincia un’era di “giustizia sociale, istruzione, salute, lavoro, casa e dignità per tutte e tutti”. Ha quindi dichiarato che subito dopo il suo insediamento, il 15 gennaio, come successore di Alfredo Palacio, convocherà un referendum popolare per chiedere l’istituzione di un’Assemblea costituente per riscrivere la Carta suprema del Paese. Ma se da un lato, parlando di Costituente, Correa intende indubbiamente riproporre in Ecuador le mosse politiche che hanno fatto di Chávez e Morales gli idoli della popolazione che lo ha eletto, questo giovane leader del partito ‘Alianza País’ ha sottolineato che Quito manterrà la dollarizzazione (il dollaro ha infatti da tempo preso il posto della moneta nazionale, il sucre) tenendo quindi il Paese monetariamente legato agli Usa. Certo, ha pure sottolineato che “oggi meno che mai” firmerebbe “un trattato di libero commercio con Washington” perché questo distruggerebbe l’agricoltura e l’economia ecuadoregne, ma questa seconda affermazione, come la precedente sulla Costituzione, potrebbe anche essere propaganda spicciola. Non ci sono dubbi sul fatto che il dollaro sia molto più stabile del sucre, ma dichiarare di non volere rapporti economici con gli Stati Uniti e poi mantenere il Paese ancorato all’orbita statunitense utilizzando quella Usa come moneta corrente sembra nascondere un cerchiobottismo troppo simile alla cosiddetta ‘sinistra’ che da queste parti conosciamo bene. La sua ammirazione per il presidente venezuelano Hugo Chávez e per la sua ‘Rivoluzione bolivariana’, tanto sbandierata dei mesi scorsi, aveva inoltre lasciato posto, nelle ultime settimane di propaganda elettorale, ad un linguaggio molto più moderato che però pare essere riuscito a fare comunque presa sulla quella larga parte di popolazione che da anni aspetta un cambiamento radicale nel Paese. Un comportamento a ‘corrente alternata’ insomma, che però potrebbe anche essere una risposta a pressioni esterne che non promettono vita facile al neo-presidente. E non è affatto un caso che sotto spinta delle ‘Morgan Stanley’ o della ‘Credit Suisse’ di turno, di tempo ne è passato veramente poco affinché i mercati finanziari cominciassero, a scrutinio non ancora terminato, a dare addosso a quella che si prefigurava come la neo eletta presidenza ecuadoregna. Il tempo metterà alla prova la resistenza di Correa e dei suoi propositi di rinnovamento.
L’America Latina ha bisogno di scosse forti per svegliarsi da anni di torpore da sottomissione atlantica, ma non tutti sono in grado di guidare rivoluzioni, come ha fatto Hugo Chávez, e di accodarvisi plasmandone l’etica e la pratica alle esigenze di un Paese, come ha fatto Evo Morales. Ci sono anche i Kirkner, i Lula, le Bachelet, quei ‘meglio di niente’ che stanno contribuendo a fare dell’America Latina un immenso laboratorio dell’affrancamento dal Nuovo ordine mondiale con capitale Washington.