Un nuovo
Ecuador?
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martedì 28 novembre 2006
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A.Lai
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Sembra che il vento
dell’affrancamento dal dominio statunitense sia arrivato anche in Ecuador.
Sembra. Appunto. Perché se è vero che di questi tempi ci si deve un po’
rassegnare alla logica del ‘meno peggio’ il candidato Correa era sicuramente
meglio dell’imprenditore miliardario Alvaro Noboa, il ‘presidente-bananero’
legato a doppio filo con la Casa Bianca. Nelle prime dichiarazioni, dopo aver
appreso dagli ‘exit poll’ il risultato del ballottaggio, Rafael Correa, 43 anni,
economista ‘di sinistra’ con studi negli States, ha assicurato che il suo è un
“trionfo della speranza e della cittadinanza”, aggiungendo che ora comincia
un’era di “giustizia sociale, istruzione, salute, lavoro, casa e dignità per
tutte e tutti”. Ha quindi dichiarato che subito dopo il suo insediamento, il 15
gennaio, come successore di Alfredo Palacio, convocherà un referendum popolare
per chiedere l’istituzione di un’Assemblea costituente per riscrivere la Carta
suprema del Paese. Ma se da un lato, parlando di Costituente, Correa intende
indubbiamente riproporre in Ecuador le mosse politiche che hanno fatto di Chávez
e Morales gli idoli della popolazione che lo ha eletto, questo giovane leader
del partito ‘Alianza País’ ha sottolineato che Quito manterrà la dollarizzazione
(il dollaro ha infatti da tempo preso il posto della moneta nazionale, il sucre)
tenendo quindi il Paese monetariamente legato agli Usa. Certo, ha pure
sottolineato che “oggi meno che mai” firmerebbe “un trattato di libero commercio
con Washington” perché questo distruggerebbe l’agricoltura e l’economia
ecuadoregne, ma questa seconda affermazione, come la precedente sulla
Costituzione, potrebbe anche essere propaganda spicciola. Non ci sono dubbi sul
fatto che il dollaro sia molto più stabile del sucre, ma dichiarare di non
volere rapporti economici con gli Stati Uniti e poi mantenere il Paese ancorato
all’orbita statunitense utilizzando quella Usa come moneta corrente sembra
nascondere un cerchiobottismo troppo simile alla cosiddetta ‘sinistra’ che da
queste parti conosciamo bene. La sua ammirazione per il presidente venezuelano
Hugo Chávez e per la sua ‘Rivoluzione bolivariana’, tanto sbandierata dei mesi
scorsi, aveva inoltre lasciato posto, nelle ultime settimane di propaganda
elettorale, ad un linguaggio molto più moderato che però pare essere riuscito a
fare comunque presa sulla quella larga parte di popolazione che da anni aspetta
un cambiamento radicale nel Paese. Un comportamento a ‘corrente alternata’
insomma, che però potrebbe anche essere una risposta a pressioni esterne che non
promettono vita facile al neo-presidente. E non è affatto un caso che sotto
spinta delle ‘Morgan Stanley’ o della ‘Credit Suisse’ di turno, di tempo ne è
passato veramente poco affinché i mercati finanziari cominciassero, a scrutinio
non ancora terminato, a dare addosso a quella che si prefigurava come la neo
eletta presidenza ecuadoregna. Il tempo metterà alla prova la resistenza di
Correa e dei suoi propositi di rinnovamento.
L’America Latina ha bisogno di scosse forti per svegliarsi da anni di torpore da
sottomissione atlantica, ma non tutti sono in grado di guidare rivoluzioni, come
ha fatto Hugo Chávez, e di accodarvisi plasmandone l’etica e la pratica alle
esigenze di un Paese, come ha fatto Evo Morales. Ci sono anche i Kirkner, i Lula,
le Bachelet, quei ‘meglio di niente’ che stanno contribuendo a fare dell’America
Latina un immenso laboratorio dell’affrancamento dal Nuovo ordine mondiale con
capitale Washington.