28 novembre 2006 - M.Matteuzzi www.ilmanifesto.it

 

America latina

 

Il vento soffia. Con o senza Chavez

 

 

A lume di logica sembrava impossibile che in Ecuador, uno dei paesi più poveri e ingiusti dell'America latina, vincesse in libere elezioni l'uomo più ricco del paese - «il Berlusconi ecuadoriano» -, il re delle banane, (ovviamente) amico di Bush ed entusiasta del trattato di libero scambio su cui il presidente in carica Palacio non si azzardava a mettere la firma nel timore di essere il settimo presidente in dieci anni a dover sloggiare in fretta e furia dal palazzo presidenziale di Carondelet a Quito.
Una volta, fino a poco tempo fa, sarebbe finita così. L'uomo più ricco e più succube agli interessi alieni (oltre che ai propri), avrebbe vinto le elezioni, votato dai poveri. Che anche in Ecuador sono la stragrande maggioranza della popolazione.
Però le cose sono cambiate. Lula in Brasile è stato rieletto dalle masse povere del nord-est. Evo Morales in Bolivia è statto eletto dalle masse indie escluse da sempre. Chavez in Venezuela è stato eletto (e si rappresta a essere rieletto domenica) dal popolo dei ranchitos affogato in un'incredibile povertà dalla minoranza democratica che ha fatto i miliardi (di dollari) sfruttando a proprio uso e consumo un oceano di petrolio. Un cadavere politico come Daniel Ortega è stato riesumato dal popolo del Nicaragua non certo dalle sue controverse virtù politiche quanto dai tre lustri di devastante politica neo-liberista dei presidenti democratici.
Rafael Correa non è un sovversivo e neanche un indigeno come Evo Morales o un migrante nordestino come Lula o un meticcio di provincia che ha trovato nella carriera militare la sua via d'uscita come Hugo Chavez. Nato nella ricca Guayaquil, economista laureato nell'università belga di Lovanio e poi negli Stati uniti, bianco e cattolico (anche, ciò che lo rende sospetto, parla il quechua), non dice niente di più che di voler parzialmente rivedere il pagamento del debito estero, di essere contrario al patto leonino che va sotto il nome di Trattato di libero scambio con gli Usa, di voler rivedere (e aggiornare) i contratti-capestro sul petrolio dell'oriente ecuadoriano con le grandi multinazionali, di voler riscrivere una costituzione fatta dalla e per la minoranza bianca sulle spalle della grande maggioranza india, di non essere più disposto a regalare per pochi spiccioli la grande base aero-navale di Manta agli interessi strategici di Washington (e del suo alleato colombiano Alvaro Uribe).
E' troppo? E' sovversivo? E' populista? O è solo il minimo? Il vento di cambio soffia sull'America latina. In molti hanno esultato con troppa fretta per lo stop imposto a Chavez dopo la vittoria in Perù di Alan Garcia o il fallimento della candidatura venezuelana al Consiglio di sicurezza. In realtà quel vento soffia, anche grazie a Chavez ma indipendentemente da Chavez.

 

 

 

28 novembre 2006 -  D.Varlese www.ilmanifesto.it

 

 

 

Ecuador, si cambia Correa a valanga

 

A metà scrutinio dopo il ballottaggio di domenica, l'economista cattolico di sinistra è al 61% contro il 31% del miliardario bananero e neo-liberista Alvaro Noboa. Che però non riconosce la sconfitta. Euforia a Quito ma nessuna cambiale in bianco dopo la scottatura con Lucio Gutierrez. Come in Bolivia con Evo, attesi grandi cambiamenti
 

 

 

Rafael Correa, il candidato che si opponeva nel ballottaggio di domenica al miliardario bananero Alvaro Noboa, filo-liberomercato e filo-Bush, sembra avviato a una vittoria a valanga. Ieri, quando erano stati scrutinati circa le metà dei voti, conduceva con il 68.1% contro il 31.8% del suo avversario. Che però ha rifiutato finora di riconoscere la sconfitta. Un dato è però già incontrovertibile, in attesa del risultato finale annunciato per oggi o domani, come ha subito rilevato Correa: «Il voto mostra che il popolo vuole un cambio». Il «popolo» che non ha incertezze, e sente di avere già vinto fin dai primi minuti dopo la chiusura dei seggi.
Ore 17 di domenica, Quito è con il fiato sospeso. Si chiudono i seggi e tutto il paese è incollato alla televisione, in balia degli exit poll. Rafael Correa, candidato di sinistra per Alianza Pais batte il neo-liberista Alvaro Noboa con un margine che cresce a vista d'occhio. Dopo un'ora è già al 57% contro il 43%, 14 punti , contro gli 8 indicati dai sondaggi alla vigilia. E con lo spoglio che avanza, il margine aumenta: ieri erano quasi 36. Per le strade della città si sente la radio che continua ad aggiornare. La più infervorata è Radio La Luna, quella che nel maggio 2005 giocò un ruolo fondamentale nel dirigere le mobilitazioni dei forajidos, gli sconvolti che cacciarono il presidente Lucio Gutierrez, eletto a sinistra e passato a destra. La gente ascolta attonita, incredula: «Hemos ganado», abbiamo vinto.
Stando ai risultati finora disponibili, Rafael Correa ha vinto non solo qui a Quito e nelle regioni andine, dove aveva già sfondato nella primo turno di ottobre. Ha avuto un ottimo risultato anche nelle regioni «storicamente» di Noboa, come la costa e la città di Guayaquil, arrivandogli a ruota. E la sorpresa viene dalla Amazzonia, l'oriente ricco del petrolio ecuadoriano, dove Correa ha stravinto. Qualcosa di impensabile fino a un mese fa, quando al primo turno Gilmar Gutierrez, il fratello dell'ex presidente Lucio Gutierrez, aveva sbancato in questa regione e aveva poi espresso il suo appoggio per Noboa nel ballottaggio. Ma non è ancora finita. Perché se tre delle quattro compagnie di sondaggi danno tutte Correa vincitore la quarta, Consultar, si ostina a dare la vittoria a Noboa con il 42%. Guarda caso è l'impresa finanziata dal Grupo Noboa, a cui il miliardario si aggrappa dicendo che rifiuta questi primi risultati e che richiederà se necessario il riconteggio di tutti i voti.
Solo due ore dopo la chiusura delle urne, una gran folla è già radunata davanti alla sede del partito di Correa , dove è stato montato un grande palco con i musicisti in maglietta verde, il colore di Alianza Pais. Un motivetto è sulla bocca di tutti: «Porqué hoydia el pueblo no quiere ser manejado como hacienda bananera». Il popolo dell'Ecuador vuole il cambio e non vuole più essere gestito come un'azienda di banane tipo quelle del bananero Noboa. In una prima conferenza stampa poco dopo la chiusura delle urne, Rafael Correa dice che è cominciata la liberazione dagli ultimi 20 anni di catastrofica gestione neo-liberista e che lui si riconosce appieno in quella corrente politico-economica di alternativa al neo-liberismo che sta cambiando l' America latina.
Nel suo programma politico, Correa presenta aspetti radicalmente progressisti ed altri più moderati. Sembra andarsi ad aggiungere a Venezuela e Bolivia, rifiutando il trattato di libero scambio in discussione con gli Usa e il rinnovo del contratto di cessione agli americani della base militare di Manta. Rafael Correa è un economista di formazione, in precedenza è stato consigliere economico del presidente Alfredo Palacio, quando questi era vicepresidente di Gutierrez, e poi suo ministro dell'economia e delle finanze, quando Palacio divenne presidente. Rinunciò però all'incarico dopo quattro mesi, per screzi con la gestione di Palacio. Da sempre si definisce oppositore degli organismi multilaterali come la Banca mondiale e il Fondo monetario, in favore di una maggiore partecipazione dello stato nella gestione del petrolio.
Nato a Guayaquil 43 anni fa, ha studiato in Belgio e negli Stati uniti. Prima di essere ministro ha sempre lavorato in ambito universitario scrivendo libri sulla dollarizzazione (l'Ecuador dal 2000 ha sostituito il sucre con il dollaro), sul libero scambio e sul commercio delle banane.
Euforia, dunque qui a Quito, ma anche prudenza e nessuna cambiale in bianco. Una cosa, dicono in molti che sono scesi in strada, è la propaganda elettorale, un'altra è la pratica di governo. Viste le esperienze recenti un giovane del movimento studentesco, Pablo Campagna, non nasconde il timore «che anche Correa tradisca il voto e gli impegni, come ha fatto Lucio Gutierrez». I movimenti sociali, popolari ed indigeni, che hanno fatto vincere Gutierrez nel 2004 e Correa nel 2006, sono ancora scottati da questa esperienza. Però, aggiunge, «le circostanze sono diverse ed abbiamo fiducia e non andrà così: ma se non onora quel che ha promesso, faremo saltare anche lui».
Il compito di Correa non sarà facile, avendo rinunciato a presentare candidati al Congresso e trovandosi di fronte quindi un parlamento prevalentemente ostile. Che però lui dice voler cambiare, come Morales in Bolivia, attraverso una assemblea costituente. All'euforia che si respira a Quito, fa riscontro la depressione di Wall Street: ieri i titoli del debito ecuadoriano sono caduti del 2.8%.