Atilio Boron 12 maggio 2006 tratto da perlumanita.it

 

La menzogna come principio

 

della politica estera
 

Stati Uniti in America Latina
 

 

Questo studio si propone di analizzare il ruolo dell'America Latina nella politica estera statunitense. Il crollo dell'ordine bipolare è stato accompagnato dal vigoroso rinascimento di antiche teorizzazioni che, in sintesi, propongono la tesi dell'irrilevanza dei nostri paesi. La qual cosa sarebbe dovuta al loro scarso interesse strategico ed economico, soprattutto se paragonati al Medio Oriente, all'Asia Centrale o al Sud Est Asiatico, per non parlare dell'Europa. Una delle sue varianti, forse la più radicale, sottolinea che la nostra irrilevanza risponde ad una dolorosa realtà: l'America Latina è stata, in verità, una costruzione mitica, un'immagine fantastica orfana di ogni supporto reale. Siccome non esistiamo, come potrebbe esserci una politica verso di noi? La tesi di questo studio è che invece esistiamo e che per questo Washington ha una politica molto ben definita e relativamente invariabile sull'America Latina, e che ce l'ha perché la nostra regione gli interessa e molto.

La pericolosa eredità del colonialismo


Che il tema della nostra così detta irrilevanza -o della "irrealtà della realtà" latinoamericana- non sia nuovo lo dimostra abbondantemente e con una insolita combinazione di eleganza stilistica e profondità di ragionamento un notevole saggio di Roberto Fernández Retamar, Caliban, apparso originariamente nel 1971 come risposta ad una domanda insidiosa che gli venne formulata su questo tema: "Voi esistete? Esiste l'America Latina?
Le riflessioni di Fernández Retamar mettono in evidenza, a partire da un minuzioso percorso storico, l'eccezionalità del processo di costruzione delle società latinoamericane -simbiosi unica fra i mondi precolombiani, europei e africani- e la definita identità risultante. Identità che, proprio come quella europea o statunitense, non implica uniformità ma una feconda diversità all'interno di uno spazio storico-culturale comune. Tuttavia, una delle sfortunate conseguenze di questa creazione civilizzatrice è stata la persistenza -concimata da più di tre secoli di dominazione coloniale, e quasi quattro a Cuba e a Portorico- di radicati atteggiamenti di subordinazione culturale e ideologica fra i gruppi dirigenti e ampi settori dell'intellettualità latinoamericana.
Proprio una delle manifestazioni di questa "colonialità" è la pervicace negazione dell'esistenza stessa dell'America Latina, della comune storia dei suoi paesi, della sua ricca e varia cultura anch'essa comune e del suo futuro inevitabilmente condiviso. Il passato, il presente e il futuro, oltre alla geografia, ci conferiscono questa identità. L'intellettuale colonizzato, fedele alla tradizione imperiale dell'ignorare le colonie -invariabilmente percepite come popoli barbari e giustamente meritevoli della sistematica rapina a cui si vedono sottoposti- assume come propria la visione del mondo dei padroni. Tutti gli imperi considerano i loro dominati come inferiori, barbari, spregevoli, al punto che la loro stessa condizione umana, sia ieri che oggi, veniva spesso messa in questione. Così pensavano i romani della Gallia e dell'Iberia, le attuali Francia e Spagna; l'Inghilterra niente di meno che dell'India, una delle civiltà più antiche ed esuberanti del pianeta; e così pensa oggi la classe dirigente degli Stati Uniti in relazione a quasi tutto il resto del mondo, includendo, come una delle sue più recenti incorporazioni, la così detta "vecchia Europa".
Nel campo della politica estera ciò si traduce nella famosa tesi dell'irrilevanza dell'America latina, ispirata tradizionalmente da Washington, così come prima aveva fatto l'Inghilterra Vittoriana rispetto all'India. In entrambi i casi si capisce molto facilmente la logica che presiede a questo ragionamento: convincere l'altro della sua insignificanza e della sua inferiorità concede al dominatore un vantaggio praticamente decisivo in qualsiasi controversia. Si capisce quindi l'insistenza di alcuni oscuri occupanti del Dipartimento di Stato o del Consiglio di Sicurezza Nazionale nel sottolineare la nostra irrimediabile inferiorità, nel dirci che occupiamo un quinto o sesto posto nelle loro priorità e nel chiederci di non pretendere che ci venga prestata maggiore attenzione di quella che compassionevolmente ci viene accordata, quasi come un favore. Come dicevo prima, il fatto grave non è che simili tesi vengano espresse da portavoce di Washington; la cosa pietosa e deplorevole è che venga ritenuta valida da pseudo esperti di vicende internazionali e da governanti rassegnati e zoppicanti dei nostri paesi. In casi estremi, come nel mio paese, questo atteggiamento è stato la giustificazione esibita per adottare come un principio cardine dell'agenda estera dell'Argentina la politica delle "relazioni carnali" con gli Stati Uniti, in altre parole il più assoluto e incondizionato allineamento a Washington in ogni e ciascuno dei temi internazionali. Abbiamo pagato assai cara una simile insensatezza.
Riassumendo: la dottrina della "negligenza benigna" non è altro che una rozza bugia, un atteggiamento ipocrita che cerca, attraverso questo trucco, di dissuadere qualsiasi tentativo di mettere in questione i rapporti di subordinazione stabiliti fra la potenza dominante e i nostri paesi. Condizione previa di questa impugnazione è prendere coscienza della nostra vera importanza per gli Stati Uniti e, quindi, sviluppare una strategia collettiva per, in concordanza con quanto sopra, definire i nostri rapporti con la Roma americana.

Irrilevanti?


La tesi dell'irrilevanza, che sarebbe "politicamente scorretto" giustificare su basi razziste, adduce che l'America latina non pesa nello scenario internazionale, che i suoi paesi non sono "giocatori a centrocampo" nello stadio mondiale e che le sue economie non gravitano sui mercati globali. Ma questa tesi crolla sotto il peso di numerosi paradossi. Se l'America Latina fosse così irrilevante, come spiegare il fatto che gli Stati Uniti sono incorsi in una sequela interminabile di interventi militari (oltre cento lungo il secolo ventesimo), invasioni, golpes di mercato, assassini politici, corruzione, campagne di destabilizzazione e scardinamento di processi democratici e riformisti perpetrati contro una regione totalmente priva di importanza? Non sarebbe stata più logica una politica di indifferenza rispetto a dei vicini ribelli ma insignificanti? Come spiegare il fatto che sia stata proprio questa la prima regione al mondo per la quale gli Stati Uniti hanno elaborato, fin dal 1823, una posizione specifica nella loro agenda di politica estera, la Dottrina Monroe? Se siamo così poca cosa, perché Washington persiste da più di 40 anni nel suo blocco contro Cuba, condannato perfino da Giovanni Paolo II? Se valiamo poco o nulla, perché tanta ostinazione per creare l'ALCA? E se non esistesse l'America Latina, come spiegare allora il naufragio di questo progetto di consolidamento imperiale?
Come si vede, l'idea di una nostra pseudo irrilevanza non resiste alle prove empiriche. In realtà l'America Latina ha un'importanza strategica fondamentale per gli Stati Uniti, ed è la regione che gli propone le maggiori sfide a lungo termine. Negli anni ottanta, nel culmine delle "guerre stellari" di Ronald Reagan, c'era chi diceva che l'URSS era un problema transitorio per gli Stati Uniti ma che l'America Latina costituiva una sfida permanente, radicata nelle inamovibili ragioni della geografia. Era talmente vero che, in quegli stessi anni. il personale diplomatico assegnato all'ambasciata degli Stati Uniti in Messico era superiore a quello che era disseminato in tutto il territorio dell'Unione Sovietica. Poiché l'America Latina è la frontiera calda degli Stati Uniti, il suo inevitabile contatto con la periferia imperiale, quella che sottomette e saccheggia, generando una vasta zona di perpetue turbolenze politiche che scaturiscono dalla sua condizione di essere la regione con la peggiore e la più ingiusta distribuzione di entrate e di ricchezze del pianeta.
Se la Casa Bianca mente spudoratamente al popolo statunitense -ricordiamo la storia delle famose "armi di distruzione di massa" che presuntamente esistevano in Iraq e le recenti dichiarazioni di Colin Powell pentito di averle avallate- perché non dovrebbe mentire ai latinoamericani? L'eccezionale rilevanza della nostra regione è stata adeguatamente sottolineata da Colin Powell quando ha detto, rispetto alle aspettative depositate da Washington sull'ALCA che "il nostro obbiettivo è quello di garantire alle imprese statunitensi il controllo di un territorio che si estende dall'Artico all'Antartide e il libero accesso senza nessun tipo di ostacolo dei nostri prodotti, dei servizi, delle tecnologie e dei capitali in tutto l'emisfero". Irrilevanti? Da notare l'importanza della nostra regione come un gigantesco mercato per gli investimenti statunitensi, grandi opportunità d'investimento, favolose aspettative di profitti resi possibili dal controllo politico che Washington esercita su quasi tutti i governi della regione, e tutto ciò in un territorio che ospita un repertorio quasi infinito di risorse naturali di ogni genere.
L'America Latina potrebbe essere, in funzione di probabili sviluppi tecnologici, la regione che conta sulle maggiori riserve petrolifere del mondo. Non lo è oggi, potrebbe esserlo domani. In ogni caso, anche nelle condizioni attuali, può offrire una fornitura più vicina e sicura agli Stati Uniti, dato assai significativo visto che le loro riserve non vanno oltre i prossimi dieci anni e le fonti alternative di rifornimento sono molto più lontane e sono entrate in una zona di crescente instabilità politica a causa della tradizionale rozzezza con cui Washington maneggia queste questioni. Il Medio Oriente è diventato una polveriera che può esplodere in qualsiasi momento, dove il risentimento anti statunitense raggiunge proporzioni impressionanti perfino negli "Stati-clienti" come l'Egitto, l'Arabia Saudita e la Turchia. E i bacini petroliferi dell'Africa Occidentale e dell'Asia Centrale mancano delle più elementari condizioni politiche necessarie a garantire un flusso stabile e prevedibile di petrolio verso gli Stati Uniti. L'oscena pressione esercitata sul governo venezuelano dalla Casa Bianca deve essere vista alla luce di queste realtà.
L'America Latina ha anche grandi riserve di gas, dispone di qualcosa in più della terza parte del totale di acqua potabile del pianeta, ed è il territorio dove si trovano i fiumi più ricchi del mondo e alcuni dei suoi maggiori bacini acquiferi. Una di queste, quella del Chiapas, è già stata considerata una possibile soluzione per affrontare l'inesorabile esaurimento della somministrazione d'acqua che flagella il Sud ovest dagli Stati Uniti e che compromette l'accesso a questo liquido vitale di popolazioni come quelle di Los Angeles e San Diego. E se di biodiversità si tratta, come potrebbe essere irrilevante una regione che conta sul 40% di tutte le specie animali e vegetali esistenti sul pianeta? Questa ricchezza costituisce una calamita potente per le grandi multinazionali statunitensi, disposte ad imprimere il marchio del loro copyright a tutte le forme di vita animale o vegetale esistenti e, a partire da lì, dominare interamente l'economia mondiale. C'è una ragione se il tema dei diritti di proprietà intellettuale ha tanta priorità per Washington, come testimoniano i negoziati in seno all'Organizzazione Mondiale del Commercio.
Per ultimo, dal punto di vista territoriale, l'America Latina è una retroguardia militare d'importanza cruciale. Ovviamente, i funzionari del Dipartimento di Stato lo negano nel modo più assoluto, ma gli esperti del Pentagono sanno che è così. Da qui la caparbietà con cui Washington riempie la nostra geografia di basi militari, e l'impegno a garantire l'immunità del personale che vi lavora. Se fossimo così poco importanti come ci dicono, perché la Casa Bianca si dovrebbe affannare tanto a proporre politiche che suscitano un ripudio quasi universale nella regione?

Conclusioni


L'importanza dell'America Latina è andata crescendo negli ultimi tempi. Il fallimento delle esperienze neoliberali, che non hanno avviato le notre economie sulla strada della crescita ma non hanno neanche ridistribuito il reddito o consolidato le nostre fragili democrazie, ha fatto sprofondare la regione in una delle sue crisi più profonde. Dal Messico, la frontiera con gli Stati Uniti, all'Argentina, passando per l'America Centrale e il Caribe, tutto il mondo andino e il Brasile, il segno dei tempi è il disincanto verso la democrazia, un crescente attivarsi della protesta sociale e un risentimento sempre più esteso e profondo rispetto agli Stati Uniti.
C'è una vecchia tradizione della politica estera statunitense in America Latina: finché si trova fermamente sotto il controllo di Washington, la risposta ufficiale sarà la "negligenza benigna", e in questo caso la regione resta relegata in secondo piano. Tuttavia, non appena spuntano alcuni sintomi di ribellione o di insubordinazione, questa "irrilevante" regione del pianeta passa al primo piano delle preoccupazioni di Washington, scavalcandone rapidamente altre che parevano più importanti. Prove alla mano: è bastato che un governo socialista moderato venisse democraticamente eletto in Cile, nel 1970, perché quella notte stessa la casa Bianca emettesse l'ordine di "far stridere e gridare l'economia cilena" e destinasse ingenti somme di denaro per scongiurare la minaccia rappresentata da Salvador Allende. Negli anni ottanta, il trionfo del sandinismo aveva convertito il Nicaragua in una gravissima minaccia per la sicurezza nazionale statunitense, scatenando una risposta di Washington che violava le più elementari norme del diritto internazionale. Lo stesso sarebbe avvenuto a Granada, che nonostante i suoi 344 chilometri quadrati e i suoi 60.000 abitanti, anche lei fu considerata dall'amministrazione Reagan un pericolo così grande da giustificare il grottesco intervento militare del 1983. A metà degli anni sessanta, la possibilità di un eventuale ritorno di Juan Bosh al governo della Repubblica Dominicana aveva provocato lo sbarco di 40.000 marines e l'annientamento delle forze insorgenti. Alla fine degli anni novanta, e in una progressione che ha toccato vette davvero preoccupanti negli ultimi anni, Washington ha reagito con un vigore inusitato al consolidamento del governo di Hugo Chávez in Venezuela, le cui credenziali democratiche -monitorate e ispezionate dall'OEA e dalla Fondazione Carter- superano abbondantemente quelle esibite dal Presidente George W.Bush Jr. nelle elezioni del 2000. Quasi mezzo secolo di blocco contro Cuba, scatenato quando l'isola cominciava ad adottare alcune misure riformiste, è un'altra prova definitiva della prepotenza imperiale. In sintesi: se i nostri paesi si sottomettono docilmente a Washington, la regione non è prioritaria; ma se un qualunque governo pretende di prendere il destino nelle sue mani, quel paese latinoamericano, non importa quanto piccolo, viene catapultato al primo livello delle preoccupazioni di Washington.
La nuova dottrina strategica statunitense -secondo Noam Chomsky, un piano di dominazione mondiale come non si conosceva dai tempi di Hitler- annunciata a settembre del 2002, accentua le vergognose prospettive che si aprono nel campo dei rapporti emisferici. Gli Stati Uniti ormai apertamente accettati dai propri dirigenti e dai suoi principali intellettuali organici come un impero, che si è arrogato l'assurda -e pericolosissima- missione di seminare democrazia e libertà in tutto il mondo, e che ha militarizzato i rapporti internazionali e aumentato le spese militari a un livello senza precedenti nella storia, difficilmente possono essere considerati un elemento positivo per rafforzare la presenza dell'America Latina nel sistema internazionale. La decadenza della classe dirigente degli Stati Uniti, esemplificata in modo ineguagliabile dall'arrivo alla presidenza di personaggi mediocri come Ronald Reagan e George W. Bush Jr., non è una buona notizia per il mondo. Tutto fa pensare che la politica perseguita verso l'America Latina in questi anni, accentuata poi dagli attentati del 2001, difficilmente sarà modificata. Nulla permette di prevedere che la premonitrice frase di Bolívar:"Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla provvidenza a piagare l'America Spagnola di miserie in nome della libertà" possa essere un giorno smentita da un governo come quello di Bush Jr. che, secondo eminenti intellettuali statunitensi è stato sequestrato dalle grandi imprese e che, con incredibile miopia, pensa che ciò che è buono per Halliburton è buono per gli Stati Uniti e, in sovrappiù, per il mondo intero.

Traduzione perlumanita.it di Alessandra Riccio