7 febbraio 2006

 

 

Il 22 gennaio del 2002, Evo è cacciato dal Paradiso. Vale a dire: il deputato Morales viene allontanato dal Parlamento. Il 22 gennaio del 2006, in quel luogo dal pomposo aspetto, Evo Morales è stato consacrato presidente della Bolivia. Vale a dire: la Bolivia comincia a rendersi conto che è un paese a maggioranza indigena. Al momento dell’espulsione, un deputato indio era un caso più unico che raro. Quattro anni dopo, sono molti i legislatori che masticano coca, un’abitudine millenaria vietata nel solenne recinto parlamentare.

 

Molto prima dell’espulsione di Evo, i suoi, gli indigeni, erano già stati espulsi dalla nazione ufficiale. Non erano figli della Bolivia; non erano altro che la sua mano d’opera. Fino alla metà del secolo scorso, gli indios non potevano votare, né camminare per i vicoli delle città. Con il cuore in mano, nel suo primo discorso presidenziale Evo ha detto che, nel 1825, gli indios non erano stati invitati alla fondazione della Bolivia. Ma questa, d’altronde, è la storia di tutta l’America, inclusi gli Stati Uniti. Le nostre nazioni sono nate nell’inganno. L’indipendenza dei paesi americani è sempre stata usurpata da una piccolissima minoranza. Tutte le prime Costituzioni, senza eccezioni, hanno lasciato fuori le donne, gli indios, i neri e i poveri in genere. L’elezione di Evo Morales, almeno in questo senso, equivale all’elezione di Michelle Bachelet. Evo ed Eva. Per la prima volta un indigeno presidente in Bolivia, per la prima volta una donna presidente in Cile. E lo stesso si potrebbe dire del Brasile, dove per la prima volta il ministro della Cultura è un nero. La cultura che ha salvato il Brasile dalla tristezza non ha forse radici africane? Nelle nostre terre, malate di razzismo e “machismo”, non mancherà chi crede che tutto questo sia uno scandalo. Scandaloso è che non sia successo prima.

 

Cade la maschera, il volto si affaccia, e la tormenta cresce. L’unico linguaggio degno di fede è quello che nasce dal bisogno di dire. Il più grave difetto di Evo consiste nel fatto che le persone gli credono, perché trasmette autenticità persino quando parlando castigliano, che non è la sua lingua originale, commette alcuni errori. I dottori che esercitano la maestria di essere le voci esterne, lo accusano di ignoranza. I venditori di promesse lo accusano di demagogia. Quelli che imposero in America un solo Dio, un solo re, una sola verità, lo accusano di “caudillismo”. E gli assassini degli indios sono presi dal panico, timorosi che le loro vittime siano come loro.

 

La Bolivia sembrava nient’altro che lo pseudonimo di coloro che in Bolivia comandavano, e che la sfruttavano mentre cantavano l’inno. E l’umiliazione degli indios, ormai un’abitudine, sembrava ormai il destino. Ma ultimamente, negli ultimi mesi, anni, questo paese viveva in un perpetuo stato di ribellione popolare. Quest’ondata di continue rivolte - che già esistevano- ha prodotto una miriade di morti e registrato il suo culmine con la guerra del gas. Esisteva prima e ha continuato anche dopo, fino alle elezioni di Evo contro il vento e la marea. Con il gas boliviano si stava ripetendo la vecchia storia dei tesori rubati per più di quattro secoli, dalla metà del XVI secolo: l’argento del Potosí ha lasciato una montagna sventrata, il sale della costa del Pacifico ha lasciato una cartina senza mare, lo stagno di Oruro ha lasciato moltissime vedove. Questo, solo questo hanno lasciato.

 

Le popolazioni di questi ultimi anni sono state crivellate dalle pallottole, ma hanno evitato che il gas passasse in mano straniera, hanno rinazionalizzato l’acqua in Cochabamba e a La Paz, hanno rovesciato governi gestiti da fuori e hanno detto no alle tasse sugli stipendi e ad altri ordini del Fondo Monetario Internazionale. Dal punto di vista dei mezzi civilizzati di comunicazione, queste esplosioni di dignità popolare sono state definite barbarie. Mille volte l’ho visto, letto, ascoltato: la Bolivia è un paese incomprensibile, ingovernabile, intrattabile, inaccessibile. I giornalisti che lo dicono e lo ripetono si sbagliano: dovrebbero confessare che la Bolivia è per loro, un paese invisibile.

 

Non ha nulla di strano. Questa cecità è solo una cattiva abitudine degli stranieri arroganti. La Bolivia è nata cieca di per sé, perché il razzismo getta fumo negli occhi, e sicuramente non mancano i boliviani che preferiscono vedersi con occhi di disprezzo. Ma sarà pur per qualcosa che la bandiera indigena delle Ande rende omaggio alla diversità del mondo. Secondo la tradizione, è una bandiera nata dall’incontro dell’arcobaleno femmina con quello maschio. E questo arcobaleno della terra, che nella lingua originale si chiama tessuto dal sangue che fiammeggia, ha più colori dell’arcobaleno del cielo.

 

Da perlumanita.it, traduzione di Stefania Russo