sabato, 06 maggio 2006 Sabina Morandi www.liberazione.it

 

Morales, Mattei e il gas boliviano

 


L’hanno chiamata “nazionalizzazione” e hanno subito gridato allo scandalo. Nessuno dei giornalisti impegnati a scagliarsi contro l’iniziativa “demagogica” e “populista” del presidente boliviano Evo Morales ha ritenuto necessario fornire qualche informazione in più, ad esempio che il referendum sulla nazionalizzazione del gas tenutosi nel 2004 ottenne il 95% di sì. Oppure che i contratti che il presidente vuole ridiscutere - trattativa che le 21 compagnie straniere presenti nel paese finora si sono guardate bene dall’avviare - sono illegali e incostituzionali perché non hanno mai ottenuto l’approvazione del Congresso. Altra informazione significativa: prima della “nazionalizzazione” la Procura generale boliviana aveva incriminato tre ex presidenti della repubblica (Jorge Quiroga, Gonzalo Sanchez de Losada e Carlos Mesa) più otto ministri degli Idrocarburi e quattro ex-presidenti dell’impresa statale boliviana, tutti accusati di avere intascato laute mazzette in cambio della cessione alle corporation internazionali di buona parte dei profitti del settore estrattivo, l’unica fonte di ricchezza del poverissimo paese.

Morales insomma non vuole affatto buttare fuori le compagnie straniere ma, come Chavez, vuole costringerle a ridiscutere i contratti-capestro imposti illegalmente. La ventata di rinnovamento che sta spazzando l’America Latina, unita all’aumento dei profitti del settore energetico che rende ancora più scandalosa la tradizionale rapina del sottosuolo, spingono i paesi produttori come la Bolivia e il Venezuela di Chavez lungo la china dell’ora o mai più. Una china certamente più rischiosa per il presidente boliviano perché il gas, a differenza del petrolio, ha bisogno di molti più investimenti - e quindi delle compagnie straniere - ma la Bolivia di questo dispone, oltre che dell’evidente sostegno del ben più potente vicino petrolifero. Al di là quindi dell’isteria di prammatica perfino alcuni giornali dell’ortodossia liberista come il Financial Times consigliano le compagnie di fare buon viso a cattivo gioco perché i tempi della cuccagna - ovvero della rapina - stanno per finire. Del resto anche il candidato di sinistra alla presidenza del Perù, Ollanta Humala, ha fatto sapere di volersi muovere nella stessa direzione qualora riuscisse a vincere le elezioni.

Le compagnie devono insomma rassegnarsi: niente più palloni in cambio di petrolio - come recitava il “contratto” firmato nel 2001 dall’Agip con gli indigeni huaorani dell’Ecuador - né la formula 82-18 imposta alla Bolivia, dove 82 sta per la percentuale incassata dalle compagnie private e il 18 per cento sarebbero le royalties da pagare allo Stato. Peccato che quel 18 per cento rappresenti una cifra virtuale - il monitoraggio della quantità di gas estratto è affidata alle compagnie private - che, almeno secondo le conclusioni dei giudici boliviani, è stata quasi integralmente evasa da quando, nel 1996-97, ebbe luogo la privatizzazione selvaggia che «consegnò in mani straniere il controllo e la direzione di un settore strategico», come ha dichiarato il presidente.

Morales vuole semplicemente ribaltarla, questa formula, per avvicinarsi al tipo di rendimento considerato accettabile per gli investimenti nel settore che normalmente si aggira sul 12 per cento, sempre, naturalmente, che non si tratti di fare affari con quattro straccioni indigeni.

Già perché lo scandalo sta tutto qui, come aveva ben capito Enrico Mattei di cui si festeggia in questi giorni il centenario della nascita: la politica delle concessioni petrolifere in cambio di royalties ridicole - come quelle che negli anni Venti del Novecento consegnarono il petrolio mediorientale in mano anglo-americane - non era più proponibile già cinquant’anni fa, figuriamoci ora.

Sarebbe necessaria invece, come scriveva Mattei, "una politica il più possibile priva di reminescenze imperialistiche e colonialiste, volta al mantenimento della pace, al benessere di chi quella risorsa possiede per dono della natura e chi la utilizza per forza della sua industria".

Nella transizione a questo nuovo modello di relazioni commerciali con il Sud del mondo, Mattei aveva immaginato per l’Italia un ruolo che i suoi dirigenti - troppo “atlantisti” o semplicemente razzisti - non ebbero il coraggio di assumersi. Il ruolo di un paese amico che avrebbe potuto mettere al servizio dei produttori le capacità tecnologiche delle proprie imprese in cambio di un giusto compenso. Chissà se Zapatero, Kirchner e Lula - quest’ultimo presidente del paese principale importatore di gas boliviano attraverso la Petrobras - saranno in grado di raccogliere la sfida che i governi italiani di allora fuggirono come la peste.

 

 

 

sabato, 06 maggio 2006 Fernando Marchiori  www.liberazione.it

 

Assassinio di un leader che voleva

nazionalizzare il petroli

 


Un dramma del regista argentino César Brie, dedicato a Marcelo Quiroga Santa Cruz, scrittore e dirigente socialista boliviano ucciso nel 1980 durante il colpo di Stato di García Meza. Il corpo non è mai stato ritrovato
 


In Bolivia Evo Morales ha firmato il decreto di nazionalizzazione degli idrocarburi, mentre l’esercito ha circondato i principali centri estrattivi. Nei teatri italiani il regista argentino César Brie ha presentato il suo ultimo spettacolo, Otra vez Marcelo. «Diranno - sono alcune parole del dramma - che la Bolivia è governata da narcotrafficanti, che facciamo parte dell’impero del male, che siamo diventati anche noi uno stato canaglia. Per favore, quando ascolterete e leggerete queste cose, non credeteci».

L’attore e regista argentino, fondatore in Bolivia nel 1991 del Teatro de los Andes, una delle realtà artistiche più prestigiose dell’America Latina ma molto seguita anche in Europa e in Italia dove Brie ha vissuto a lungo come rifugiato politico durante la dittatura militare nel suo paese, ha dedicato il suo nuovo lavoro a Marcelo Quiroga Santa Cruz, scrittore e professore universitario, giornalista e parlamentare, ministro socialista delle miniere e del petrolio, autore nel 1969 di un’altra coraggiosa legge che nazionalizzava risorse naturali e petrolio del paese andino. E’ come se Brie avesse ripreso un frammento di un suo precedente capolavoro, l’Iliade, e lo avesse passato sotto una lente di ingrandimento. In una scena di quello spettacolo, prodotto proprio in Italia nel 2000 e diventato un evento della scena internazionale, tre donne vestite di nero narravano la fine di alcuni eroi omerici destinati a rimanere senza sepolcro. Ai nomi antichi si aggiungevano quelli di Quiroga Santa Cruz e dei sindacalisti Walberto Vega e Carlos Flores, trucidati nella sede della Central Obrera Boliviana di La Paz il 17 luglio del 1980. «Di loro rimangono i nomi e la memoria, ma non la tomba», intonavano le donne mostrando le foto delle tre vittime del colpo di stato del generale García Meza. Le ferite di un presente stagnante si riaprivano al pulsare della tragedia antica fin dentro le vene della contemporaneità.

Il titolo del nuovo spettacolo (dopo oltre due mesi di repliche, da Milano a Lecce, da Venezia a Napoli, sarà a Firenze il 12 e 13 maggio alla Stazione Leopolda, nell’ambito di una personale che Fabbrica Europa dedica a César Brie) parafrasa un’opera incompiuta dell’intellettuale desaparecido, Otra vez marzo, per alludere alla vita troncata e insieme all’attualità di un politico lungimirante, capace di parlare ancora oggi al popolo boliviano. Tutte le sue battaglie sembrano infatti aver anticipato le urgenze sociali ed economiche che scuotono la Bolivia: il superamento delle disuguaglianze etniche e di classe, la sovranità popolare, la lotta contro la corruzione e, appunto, la nazionalizzazione degli idrocarburi. Non a caso il neopresidente Morales, nel corso della cerimonia d’insediamento, ha chiesto alla folla un minuto di silenzio in onore di tutti gli indigeni vittime dell’ingiustizia dalla Conquista a oggi, e poi anche in onore di tre bianchi: il gesuita Luis Espínal, Ernesto Che Guevara e Quiroga Santa Cruz.

César Brie si è accostato a Quiroga attraverso i ricordi di chi lo ha conosciuto, i documenti e le foto concessi dalla famiglia e le pagine straordinarie del romanzo Los deshabitados, con il quale lo scrittore vinse nel 1962 il prestigioso Premio Faulkner. Per riscattarne pienamente la figura, tuttavia, l’artista argentino doveva affrontare anche i suoi scritti e discorsi politici, provando questa volta a fare della poesia a partire dall’economia, come in Dentro un sole giallo - spettacolo ben noto al pubblico italiano per la lunga tournée dell’anno scorso - era riuscito a commuovere partendo dagli atti di una commissione d’inchiesta governativa per ricostruire una catastrofe naturale e la corruzione che ne era seguita.

Difficile impresa quella di scuotere testimoniando, senza abdicare alla verità della finzione teatrale. Significa rispondere all’obbligo morale di dire, ma ostinarsi a dire nella fedeltà a una poetica; superare gli intenti documentari e pedagogici facendone lo strumento di verifica della propria necessità artistica. Ma per César Brie l’attore è, fuori scena, un essere umano che interroga la propria coscienza, e quella coscienza, quel dolore che il mondo gli procura non può che trovare, in scena, una forma in cui precipitare, per darsi agli altri e ritornare in circolo.

La chiave di questo delicato equilibrio è qui il rapporto tra Marcelo e la moglie Cristina, la donna che per venticinque anni ha cercato il corpo del marito, chiedendo giustizia e in parte ottenendola, visto che il diretto responsabile dell’assassinio, García Meza, è stato riconosciuto colpevole dopo un processo durato dieci anni e sta scontando la sua pena in galera. Banzer, invece, è tornato al potere “democraticamente” quando è stato eletto alla Presidenza della Repubblica, carica che ha mantenuto fino al 2001, poco prima di morire. Ancora oggi che l’artrite la costringe a muoversi sostenendosi a un deambulatore - anche per andare a teatro e rivedersi nei passi di ballerina claudicante con i quali Mia Fabbri interpreta la sua parte - Cristina non smette di cercare il corpo del marito, di chiedere giustizia per una morte lunga quanto la propria sopravvivenza.

Così il rapporto tra Cristina e Marcelo ha tracciato l’altro binario, accanto a quello politico, su cui scorre lo spettacolo. Quasi un Romeo e Giulietta alla rovescia. Se la storia raccolta da Shakespeare è un inno all’impazienza, quella vissuta da Cristina e Marcelo è un inno alla perseveranza.

Un lungo e stretto corridoio separa e riunisce in un continuo movimento di attrazione e distacco i due personaggi in scena, l’uno di fronte all’altra in uno spazio che diventa strada, casa, salone da ballo, aula parlamentare, terrazzo, scala che scende verso la morte. Ai lati, su due strisce di stoffa, gli oggetti di volta in volta utilizzati dagli attori ed elevati al ruolo di comparse: dei recipienti, un annaffiatoio, alcune lettere, fogli con appunti, soldatini di piombo, un telefono, della farina. Due fili attraversano a mezz’aria questo spazio intriso di grigi e bianchi e ocra, percorrono la distanza che talvolta appare incolmabile tra i due. Su quei fili viaggeranno come panni stesi le lettere dall’esilio, le notizie dei giornali, le speranze. Su quei fili, in una delle scene più belle dello spettacolo, Cristina farà scorrere la gruccia cui resta appesa la giacca di Marcelo che ha appena indossato sopra l’abito bianco da sposa, così da diventare lei stessa manichino, marionetta d’amore per celebrare un matrimonio a distanza che è promessa e presagio, costrizione di forme e gioco innocente, convenzione di passi e calore dell’abbraccio di Marcelo assente. La scoperta dell’ingiustizia e della repressione poliziesca, l’esperienza dell’esilio e della fuga, fanno sì che l’educazione sentimentale e l’intimità coniugale della sposa ballerina e dell’oratore timido non siano mai avulse dalle vicende del Paese, dalle scelte politiche e dalle loro conseguenze. I due piani si intrecciano, si inseguono, si confondono. Così gli spettatori che hanno sorriso per le ingenuità degli amanti, diventano la moltitudine che acclamava Quiroga all’annuncio della nazionalizzazione del petrolio, seguono la chiamata in giudizio dei generali Barrientos e Banzer per i crimini commessi durante il colpo di stato. Quiroga accusò l’ex dittatore Hugo Banzer, al potere dal ’71 al ’77, di 220 delitti, di ognuno dei quali mostrò le prove. Con un discorso in Parlamento che durò tre giorni e fu trasmesso in diretta alla radio e alla televisione nazionali - nello spettacolo scandisce le scene della sua tortura e dell’occultamento del suo cadavere - ottenne il processo contro di lui. E’ per bloccare quel processo che si giunse al colpo di stato, il cui primo atto fu appunto l’assassinio di Marcelo.

Come già Padre Espinál - l’educatore e intellettuale che fu ucciso poco prima di Quiroga e che riviveva in un’altra opera del Teatro de los Andes, I sandali del tempo - e come Che Guevara, assassinato 40 anni fa in Bolivia, anche la figura di Marcelo ha i tratti della passione rivoluzionaria e del sacrificio. Gli indigeni nel giorno dei morti li “chiamano”, brindano con le loro anime e rinnovano un abbraccio fraterno. Il teatro di César Brie, nel suo linguaggio radicato e universale insieme, dà corpo e voce a queste presenze che tornano a infiammare quel mondo e a interrogare il nostro.