Decisione coraggiosa.
E piena di rischi
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Mercoledì 3 Maggio 2006
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Maurizio Matteuzzi
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Il gobierno popular del
compañero Evo Morales ha «rivoltato la frittata». Dal primo maggio - data
emblematica delle festa dei lavoratori e dei primi cento giorni dall'entrata al
Palacio Quemado di La Paz del primo presidente indio: lui - l'82% dei proventi
del petrolio e del gas boliviani andranno allo Stato, attraverso la compagnia
rinazionalizzata YPFB (Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos), e il 18%
resteranno alle imprese transnazionali.
Dopo il '97, quando lo sfegatato neo-liberista Sanchez de Lozada aveva
privatizzato tutto - dall'acqua al gas: l'ultima risorsa dopo il grande e
plurisecolare saccheggio -, era l'esatto contrario: l'82% di profitti alle
compagnie (e senza contare la voce storicamente sostanziosa del contrabbando),
il 18% alle rachitiche casse dello Stato. In soldoni voleva dire 780 milioni di
dollari contro 140. Dopo la «guerra del gas» dell'ottobre 2004, con relativa
cacciata e fuga (a Miami) di Sanchez de Lozada, e prima che la bomba del gas
scoppiasse fra le mani anche dell'onesto ma pallido Carlos Mesa, il referendum
sulla «rinazionalizzazione» del giugno 2004 aveva portato quei 140 milioni di
dollari a 460. Qualcuno, aveva gridato al «tradimento» di Evo, allora ancora
leader cocalero e del Moviemiento al Socialismo, che aveva sostenuto il sì alla
proposta. Adesso, tre mesi dopo l'insediamento, la frittata e le proporzioni si
sono capovolte. I 780 milioni di dollari l'anno andranno alla Bolivia, anzi, per
la prima volta, ci resteranno e non per finire - si suppone e si spera - nelle
mani di militari nazionalisti ma generalmente golpisti o dell'oligarchia bianca,
come era stato per le altre due o tre nazionalizzazioni tentate. Ma - si suppone
e si spera - nelle mani di un governo popolare eletto da e fatto di
organizzazioni sindacali e movimenti sociali in prevalenza indigeni che si
sentono e sono stati sistematicamente esclusi fin dall'indipendenza,nel 1825.
La mossa di Evo ha preso tutti di sorpresa - dalle compagnie transnazionali ai
campesinos dell'altipiano, dai governi di riferimento di quelle compagnie
all'oligarchia criolla. Nei suoi primi tre mesi di governo, aveva mostrato molta
moderazione e prudenza. All'estrema sinistra sindacale e india già lo si metteva
in graticola, non solo per la rinazionalizzazione del gas che aveva promesso -
con qualche margine di ambiguità - in campagna elettorale.
Ci si aspettava una suo mossa light
che esigesse una spartizione della torta meno iniqua e neo-coloniale ma
lasciasse intatte le intoccabili leggi del «mercato» nei paesi periferici.
Invece il «decreto supremo 28701», accompagnato dall'«occupazione» dei campi
petroliferi e gasiferi da parte dei militari e dal limite di 180 giorni dato
alle compagnie per rinegoziare i nuovi contratti, più duro di così non poteva
essere. Ora la palla passa alle compagnie e ai relativi governi. Prima di tutto
quelli «amici» di Brasile, Argentina e Spagna. Le prime reazioni non sono
incoraggianti. Anche tralasciando quelle, penose, dell'uccellaccio del
malaugurio europeo, il «socialista» spagnolo Javier Solana (così duro con il
boliviano Morales e così morbidamente cieco sui voli segreti della Cia), le big
dell'energia - Total, Exxon Mobil, British Gas, Shell...- hanno reagito con
durezza prevedibile. Fin qui nulla di nuovo. Ma bisognerà vedere la risposta di
Lula (la Petrobras conta per il 20% del Pil boliviano), di Kirchner e Zapatero
(la ispano-argentina Repsol è la seconda per business) hanno riunito i loro
governi in sedute d'emergenza. Si vedrà presto cosa risponderanno a una mossa
concreta e sacrosanta, anche se non piacevole, dopo tante belle parole sulla
solidarietà con i paesi del sud e sull'integrazione latino-americana.
Quello di Evo Morales è un passo deciso e decisivo verso la rottura di quel
modello neo-liberista che ha sconquassato l'America latina negli ultimi 30 anni.
Ma è un passo ad altissimo rischio, economico e politico. In altri tempi non
lontani a quest'ora i tank sarebbero già nella Plaza Murillo di La Paz. Forse è
anche il segnale di rottura della nuova onda di (centro)sinistra
latino-americana: Chavez, Fidel ed Evo (che è andato a firmare un «accordo
strategico» a tre solo pochi giorni fa all'Avana) da una parte - quella
radicale-; Lula, Kirchner e l'uruguayano Tabaré Vazquez dall'altra - quella
ortodossa. Ma di questa eventuale non si potrà incolpare l'indio Evo Morales.