Evo celebra a La Higuera
il compleanno del Che
Morales lo ha ricordato nel
luogo in cui fu ucciso nel '67. Tanti anni dopo Guevara è un simbolo. Duro a
morire
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15 giugno 2006
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Maurizio Matteuzzi
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I simboli sono duri da
ammazzare. Ieri il Che Guevara avrebbe compiuto 78 anni se, ferito e sconfitto,
non fosse stato assassinato dai rangers boliviani e dalla Cia a La Higuera,
sperduto borgo della Bolivia orientale fra selva e montagne, il 9 ottobre del
'67. Per lui è stato meglio morire presto, e vivere - forse per sempre ma certo
finora - nella coscienza critica e generosa dell'umanità, piuttosto che
logorarsi inevitabilmente nel grigiore della vita quotidiana e nella mediocrità
dei compromessi politici (dentro o fuori Cuba).
Ernesto Guevara de la Serna era nato a Rosario, in Argentina, il 14 giugno del
1928. Con la sua vita e la sua morte, e con due foto - quella del Guerrillero
heroico scattata da Alberto Korda nel '60 e quella di un Cristo del Mantegna
presa da Freddy Alborta subito che fu ucciso - si è convertito in una icona e in
un simbolo. Che è molto più di un marchio commerciale e di uno strumento di
consumo.
In questi anni in tanti hanno provato a distruggere il simbolo. Nel 2005, poco
tempo dopo il successo dei Diari della motocicletta, il film prodotto da Robert
Redford e diretto da Walter Salles, ci provò anche il miserabile figlio di Mario
Vargas Llosa, che almeno qualche libro buono in passato l'ha scritto, con un
articolo sul Corriere della sera in cui spiegava come il Che, responsabile di
un'infinità di «misfatti» in vita, si fosse trasformato in morte nel «logo del
capitalismo». Contro quella «spazzatura» di Alvaro Vargas Llosa e di tanti altri
come lui insorse, sul manifesto, Luis Sepúlveda. «Oggi, a più di 30 anni dalla
sua morte, possiamo essere d'accordo o no con le sue analisi della società
latino-americana o africana, ma nessuno può negare che il Che ha marcato più di
una generazione ridando loro un orgoglio che gli Alvaritos non possono capire:
l'orgoglio di vivere in piedi, essere padroni del proprio destino, di essere
protagonisti attivi della propria storia».
E' questo che fa bollire di rabbia gli Alvaritos e i Corsera. Questo che in
qualche misura ha reso il Che immortale. E, per quanto sconfitto, presente, come
cantava Carlos Puebla nella sua celeberrima ballata: «Aquí se queda la clara, la
entrañable transparencia de tu querida presenzia, comandante Che Guevara».
Ieri in molti paesi dell'America latina si sono celebrati i 78 anni del Che. A
Rosario, il Comune ha collocato una targa di fronte alla casa di calle Entre
Rios 380 dove nacque (di fronte perchè i condomini dell'edificio si sono opposti
a che fosse posta all'ingresso: paura?). All'Avana è stata presentata una
monumentale opera multimediale intitolata al «Che, cittadino del mondo».
Ma è in Bolivia, teatro dell'epopea e della sconfitta di Guevara, fra quei
campesinos che - inevitabilmente - non risposero agli appelli rivoluzionari del
Che, dove le celebrazioni hanno assunto il loro senso più vero e meno retorico.
A La Higuera è voluto andare di persona il presidente
Evo Morales,
che insediandosi alla presidenza già aveva messo Guevara al fianco degli eroi,
quasi sempre sconfitti, delle lotte contro i conquistadores. Evo lo ha celebrato
nel migliore dei modi: a La Higuera, dove fu ucciso, ha diplomato i primi 17
alunni del corso di alfabetizzazione «Yo sí puedo» e aperto un centro medico e,
poi, a Vallegrande, dove restò sepolto anonimo fino al '97 prima di tornare nel
mausoleo di Santa Clara a Cuba, ha inaugurato un altro ospedale.
Perché se è vero che fu e resta «cittadino del mondo», il Che «è stato l'uomo
più universale dell'America latina», come ha scritto Sepúlveda. Il simbolo delle
ribellione e della dignità, duro a morire. Non solo in Bolvia e in America
latina.