Petrolio e gas, il nuovo Cono Sur si impone alle companies
 

Shell: bisogna «accettare» la Bolivia

 

nazionalizzatrice, come già in Venezuela
 


| 16 Maggio 2006 | Anubi D’Avossa Lussurgiu | www.liberazione.it |



La ola di sinistra, o meglio di rinnovamento politico su spinta dei movimenti sociali e popolari, che continua ad avanzare nei paesi dell’America Latina sta cambiando la scena della partita energetica. Con riflessi globali considerevoli e urgenti dilemmi politici posti all’Occidente e al Nord del pianeta. Lo si è visto anche nel recente vertice euro-caraibico-latinoamericano di Vienna, per quanto vuoto quanto ad iniziativa concreta. L’ultimo in ordine di tempo, ma non nelle previsioni, degli eventi determinanti è stato il decreto di rinazionalizzazione del gas boliviano da parte del nuovo governo del presidente Evo Morales e del vice Linera. Che ha agitato le acque nei rapporti interni al Cono Sur e proprio nel campo delle leadership di sinistra, come in quelli con le potenze europee: a dover fare i conti con la necessità di trattare su basi nuove per i contratti di sfruttamento dei giacimenti, sono infatti le maggiori compagnie finora coinvolte, ossia Petrobras e Repsol. Un’esperienza in parte già attraversata dal mondo delle companies, perché fu il Venezuela di Hugo Chavez ad imporre per primo la costituzione di società miste, sul suo prezioso petrolio, con riserve tra le più durature al mondo; e con dalla sua l’arma della distribuzione consolidata negli Usa.

Ora per Chavez è in corso il suo primo tour euro-mediterraneo: che è passato per Vienna, poi per Londra dove ieri ha ribadito nell’incontro col sindaco Ken Livingston la sua sfida a George W. Bush - definito «criminale di guerra» e «contro l’umanità» - e proseguirà in Libia e Algeria. Cioè tra i massimi fornitori attuali di gas all’Europa, insieme alla Russia che cerca a sua volte margini di ricontrattazione, usando l’arma della travolgente domanda asiatica, e soprattutto cinese. Ma il viaggio del presidente venezuelano, che sempre ieri ha dovuto subire l’ennesima ritorsione dell’Amministrazione di Bush jr ossia l’embargo imposto su qualsiasi vendita di armi a Caracas perché il suo leader «non si impegna nella lotta al terrorismo», è cominciato in Italia. Nella forma del primo incontro fra un capo di Stato e il nuovo presidente della Camera dei deputati, Fausto Bertinotti. E poi con un colloquio telefonico con Prodi e un appuntamento con il segretario dei Ds, Piero Fassino, dopo l’udienza del Papa. Peraltro, non è affatto escluso che, nei prossimi giorni, il “giro” di Chavez si concluda in modo imprevisto: cioè, dopo Tripoli e Algeri, con un ritorno a Roma, ad incontrare fisicamente e ufficialmente Romano Prodi, dopo l’incarico a formare il governo (tanto che gli impegni in Bolivia sono stati rinviati).

Tutto ciò sembra aver molto preoccupato il maggiore quotidiano italiano, il Corriere della Sera: che, senza mai fare riferimento diretto alla posta politica con l’Italia e con le sinistre nostrane, durante e dopo il summit di Vienna è andato all’attacco dell’«innamoramento degli intellettuali» per Chavez e il suo protagonismo nel nuovo teatro latinoamericano. Con un articolo in prima di Ian Buruma domenica e con un commento di Pierluigi Battista ieri. In entrambi la figura del presidente “bolivariano” del Venezuela è riassunta nella definizione di «caudillo filocastrista», ma anche peggio, come «neo-dittatore». Con particolare spregio per una realtà che salta all’occhio: ossia che Chavez è stato il presidente più duramente contestato dalle opposizioni del suo paese, fino a subire un tentativo di colpo di stato (e varie altre prove di destabilizzazione non propriamente democratica). Ma non un partito d’opposizione ha subito provvedimenti coercitivi, tanto meno è stato sciolto. Mentre Chavez stesso ha vinto tutte le elezioni, anzi le ha vinte sempre di più; e persino un referendum confermativo, chiesto dalle opposizioni, che avrebbe potuto rifiutare e il cui risultato è stato riconosciuto dalla stessa Casa Bianca.

Ma a via Solferino evidentemente non si curano di questa realtà. Così che Battista va dietro a Buruma per rispolverare niente meno che la storia dei “chierici” filo-comunisti del Novecento: e ce n’è per chiunque, da Brecht ad Aragon, da Shaw all’ex petainista La Rochelle, dall’ex mussoliniano Cantimori a Simone De Beauvoir. Con un passaggino per Martin Heidegger e il suo filo-hitlerismo.

Forse la realtà cui guardano dagli spalti della corazzata del Corsera, per giustificare tanto spreco di retorica d’archivio, è un’altra e magari non dichiarata? Potrebbe essere: per esempio, quella di un particolare interesse italiano, specificamente coinvolto nella vicenda del Venezuela. Ossia il rifiuto dell’Eni, finora di sottostare alle nuove regole imposte sovranamente dalla autorità di quel paese. Sola tra le companies petrolifere, peraltro, insieme alla Total francese: che ieri, dopo la maggiore prudenza dimostrata per la “sua” Repsol dal primo ministro spagnolo Zapatero a Vienna, ha rilanciato aggressivamente anche contro il decreto Morales sul gas in Bolivia.

A ricordare che questi sono interessi di retroguardia persino se guardati dall’interno del mondo delle grandi multinazionali, è stato proprio ieri il vertice di una della maggiori, la Shell. L’Ad, Jeroen van der Veer, è stato intervistato dal Financial Times, non propriamente un quotidiano filocastrista: e ha detto parole di puro buon senso. Ricordando che «più aumentano i prezzi del petrolio e del gas e più il modo di pensare è nazionalistico» e che «alla fine, i governi sono sempre quelli che comandano». Suggerendo che le rinazionalizzazioni sono oramai «una nuova realtà» da «accettare» e che adire a vie legali contro quelle decisioni è per le compagnie semplicemente «controproducente». Rivendicando, persino, che in Venezuela la Shell è stata «tra i primi a rinegoziare». E concludendo: «Siamo in armonia col governo, cosa che è molto importante. In Bolivia, ritengo che arriveremo a una
soluzione». Troppo di sinistra o forse il mercato non è solo diritto di rapina?