La lezione rivoluzionaria

 

di Teofilo

 


Incontro con il mito della boxe cubana che oggi compie 54 anni e ha portato in Italia una rappresentativa juniores per una serie di stage con i pugili di casa nostra. «Lo sport è salute perché dà molti più anni alla vita di quanti la vita ne dia allo sport. Così vinciamo nonostante l'embargo Usa»

 


F.Piccioni 29 marzo 2006

 


Oggi il mito compie 54 anni. Alto, ancora «tirato », per nulla ingrassato, come è invece accaduto a tanti altri pugili una volta scesi dal ring sulla terra. Lo abbiamo atteso nella sala del palazzo delle Federazioni, a Roma, mentre intanto dallo schermo arrivavano le immagini del documentario dedicatogli da Alessandro Angelini. Sei ragazzi in tuta cubana accompagnano le movenze di Teofilo negli incontri che l'hanno consegnato alla storia del pugilato. Sono i cadetti juniores che il tre volte oro olimpico cubano ha portato in Italia per una serie di stages con i pari età di casa nostra. Sfugge loro tra le labbra, qua e là, persino un «suggerimento» («gancio!») quando vedono nello schermo l'avversario un po' scoperto. Poi intuiscono scattare il diretto destro - quasi invisibile all'occhio - e sorridono. Soprattutto quando vedono Teofilo, alle olimpiadi di Monaco '72, dare lezione a Duane Bobick, una delle «grandi speranze bianche» che hanno concluso la carriera già tra i dilettanti. Poi lui entra e loro diventano più seri, anche se con gli occhi ridenti. E cercano di capire cosa si dice tra Gianni Minà che intrattiene da par suo la platea (in cui spicca anche Vincenzo Cantatore) e l'esempio vivente che inseguono da quando hanno infilato per la prima volta i guantoni. E' un'altra lezione, di stile anche questa. Il mito non si compiace, quasi sminuisce il suo immenso talento, restituendo invece a Cuba, alla Rivoluzione, al sistema educativo che è riuscita a mettere in piedi, i meriti di una carriera difficilmente ripetibile. Del resto loro lo sanno, si sono rivisti bambini nelle palestre sbrecciate, nei cortili polverosi, mentre imparano i rudimenti della noble art dai migliori maestri che ci siano al mondo. Come tecnica, nessuno lo contesta, quella cubana è la scuola migliore. «E' un onore ricevere tanti complimenti qui in Italia - esordisce Teofilo con voce calda e soffocata - ma questi vanno ai miei allenatori, al mio popolo, al mio comandante. Se sono diventato così famoso è perché lo sport, insieme alla cultura, all'educazione e alla salute, è stato la base della Rivoluzione cubana come spiegò Fidel Castro nel famoso discorso «La storia mi assolverà». Il nostro paese ha fatto sforzi enormi per portare avanti lo sport nonostante l'embargo americano. Con poche risorse, siamo sempre riusciti a fare tanto».

Perché altri paesi latinoamericani molto più grandi di Cuba non hanno mai raggiunto i vostri risultati sportivi?

A Cuba la Rivoluzione ha creato un istituto di medicina sportiva e una scuola internazionale dello sport che ci hanno permesso di tirare su atleti e allenatori di primo livello. E' un sistema che continua a produrre ancora oggi gli stessi talenti del passato. Ospitiamo atleti che vengono da ogni angolo del mondo e a tutti insegnamo che il sacrificio porta risulti. Lo sport è salute perché dà molti più anni alla vita di quanti la vita ne dia allo sport.

Il tuo rifiuto del professionismo fu una scelta ideologica o una conseguenza del fatto che chi prima di te aveva provato l'avventura in America (Kid Gavilan e KidChocolate) aveva fallito malamente?

Loro hanno vissuto in un'altra epoca, sotto il regime di Batista. Il nostro apostolo, José Martí , diceva «siate colti per essere liberi». Così uno sa dove andare e quali passi affrontare. Il professionismo tratta i pugili come una merce da vendere e mettere da parte una volta che non servono più.

Chi è l'avversario che ti ha messo maggiormente in difficoltà?

Il rivale più duro è sempre stato l'allenamento. Se non lo superi, non puoi vincere. Come lo studio prima degli esami.

Cos'è la paura sul ring?

Ognuno la vede secondo il proprio punto di vista. Per me è la responsabilità di affrontare un impegno. Se sei ben preparato, la paura scompare.

Negli anni settanta tutto il mondo sognava un incontro tra te e Alì, come sarebbe finita?

Lo hanno chiesto anche a lui e ha risposto che il match sarebbe finito pari. Mohammed è stato uno dei più grandi di sempre, prima come uomo poi come pugile. Si è battuto per i diritti della sua gente, ha cercato di aiutare il mondo a risolvere i problemi. Ha un grande cuore e una grande sensibilità, soprattutto nella vita privata.

E della parabola di Tyson che pensi?

Non conosco il mondo professionistico e dunque non mi sento di rispondere. Non credo comunque che la sua storia sia molto diversa da quella di tanti altri finiti male, la boxe ne è piena di casi così.

Sei mai andato ko?

Una volta, in Bulgaria, durante una finale di un torneo juniores. Scivolai e mi rialzai senza problemi. Knockdown non mi ci ha mai messo nessuno.

Neanche il tuo erede, Felix Savon, quando facevate guantoni insieme?

Ci ha provato due volte e due volte l'ho steso, senza muovere i piedi, solo le mani. Io lo avvisavo prima: guarda che se mi colpisci fai male. I suoi allenatori gli dicevano di studiarmi e non provocarmi. Lo mandai a gambe all'aria prima di un mondiale e Alcides Sagarra lo rimproverò: a un leone puoi tirargli la coda finché dorme ma quando si sveglia lascia perdere...

Le prossime medaglie olimpiche Cuba le conquisterà in Cina...

Mi dicono che i cinesi sono grandi organizzatori di eventi. Vedremo.