GUANTANAMO
Amnesty
International ha presentato un rapporto sugli effetti della
reclusione sui detenuti ed i loro parenti
Londra 7.02.06
Il centro di detenzione statunitense di Guantánamo condanna centinaia di prigionieri e le loro famiglie a una vita di sofferenza, lo ha denunciato Amnesty International (AI) questa domenica in un rapporto, secondo l’agenzia EFE.
Il documento, intitolato Guantánamo: Vite spezzate. Gli effetti della reclusione a tempo indefinito sui detenuti e sui loro parenti, contiene testimonianze di ex prigionieri e dei loro parenti e valuta lo stato nel quale si trovano coloro che permangono incarcerati.
Cinquecento uomini di circa 35 nazionalità sono tuttora detenuti a Guantánamo, nove di loro nonostante il fatto che il Governo di Washington già non li consideri “combattenti nemici”, a cinque anni dell’apertura del centro di detenzione in quella base militare USA in territorio occupato illegalmente a Cuba.
Secondo l’organizzazione per la difesa dei diritti umani, con sede a Londra, che ricorda che varie decine di prigionieri sono attualmente in sciopero della fame, nessuno dei prigionieri è riuscito a presentare appello in un tribunale sulla legalità della sua detenzione.
“Le loro richieste non sono polemiche: chiedono il rispetto dei loro diritti, che li mettano in libertà se non verranno accusati di nessun delitto comune e che organizzazioni come Amnesty possano comunicare con loro”, ha segnalato la direttrice del Programma Regionale per l’America di AI, Susan Lee.
Uno di loro è il saudita Shaker Aamer, che ha risieduto nel Regno Unito dal 1996 fino al suo arresto in Afghanistan, avvenuto nel gennaio del 2002.
In uno scritto al suo avvocato, ha spiegato le ragioni del suo sciopero: “Sto morendo qui ogni giorno, mentalmente e fisicamente. Questo è quel che sta succedendo a tutti noi. Siamo stati ignorati, rinchiusi in mezzo all’oceano per quattro anni. Prima di umiliarmi, preferirei morire tranquillamente. È questo il mio diritto legale.”
AI denuncia anche che tra i detenuti a Guantánamo ci sono stati numerosi tentativi di suicidio.
Secondo l’organizzazione il pakistano Jumah al-Dossari, catturato nel suo paese nel 2001, ha tentato nove volte di togliersi la vita.
Il 15 ottobre 2005 ha approfittato di un’incontro con il suo avvocato per assentarsi dal servizio e tentare di impiccarsi.
Al-Dossari ha scritto poi al suo avvocato che era deciso a suicidarsi per denunciare le “intollerabili condizioni dei detenuti a Guantánamo” e che lo voleva fare in un luogo pubblico, “affinchè l’esercito statunitense non potesse nascondere la notizia”.
Nel novembre e dicembre scorsi lo ha tentato di nuovo, cercando di riaprirsi la ferita che si era provocato in un tentativo precedente.
Nel suo resoconto, AI sottolinea la sofferenza delle famiglie dei prigionieri, che in alcuni casi non sanno nemmeno dove sono i loro cari e se sono ancora vivi.
Il tormento e la vergogna, secondo Amnesty, non finiscono a Guantánamo: alcuni prigionieri vengono trasferiti in altri centri di detenzione illegale, altri continuano a soffrire maltrattamenti e addirittura coloro che sono tornati in seno alle loro famiglie patiscono postumi fisici e psicologici.
Nina Odizheva, madre di Ruslan Odizhev, ex detenuto russo a Guantánamo, assicura che il tempo che suo figlio ha passato nella base nordamericana ha avuto su di lui conseguenze devastanti.
“È malato, vive prendendo medicinali per diversi problemi dei suoi organi vitali. Tenta di non raccontarmi i particolari affinché io non ne soffra, ma non è la stessa persona”, ha confessato.
AI
chiede alle autorità statunitensi la chiusura del carcere a Guantánamo, il
processo o la libertà per tutti i detenuti in quel centro, la pubblicazione e
l’investigazione delle denunce di tortura e dei maltrattamenti ai prigionieri
sotto la loro custodia.