GUANTANAMO

 


Intervista di James Yee, ex-cappellano di Guantanamo

 

7.02.06

 

«Le guardie carcerarie sembravano in missione di guerra»

Il capitano James Yee, dopo aver assistito i prigionieri di Guantanamo in qualità di cappellano militare musulmano dell’esercito statunitense, è stato arrestato a sua volta perché sospettato di essere una spia di Al Qaeda. Dopo 76 giorni di cella d’isolamento, tutti i capi d’accusa sono stati fatti cadere. Ora ha deciso di raccontare in un libro di Guantanamo e della sua esperienza di presunto terrorista.

 


Un’intervista di Jaakko Kooroshy, Süddeutsche Zeitung, 16 gennaio 2006. Originale : http://www.sueddeutsche.de/ausland/artikel/273/68205/
Tradotto dal tedesco in italiano da Giampiero Budetta, un membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica (transtlaxcala@yahoo.com). Questa traduzione è in Copyleft.

 

 


James Yee, cappellano militare delle forze armate USA, ha cominciato ad assistere dal novembre 2002 i „combattenti illegali“ detenuti a Guantanamo.
Un anno dopo, durante un congedo per ferie, il trentasettenne laureato dell’accademia militare di West Point veniva arrestato e recluso in isolamento per 76 giorni perché sospettato di spionaggio per Al Qaeda.
Dopo essere stato minacciato con la pena di morte, tutte le accuse sono state fatte cadere.
Nell’autunno 2005, James Ye ha ha pubblicato il libro di memorie" For God and Country, Faith and Patriotism under Fire" (Perseus Publishing) ["Per Dio e la Patria, Fede e patriotisme sotto fuoco"].
In un’intervista per la Süddeutsche Zeitung, Yee ha parlato con Jaakko Kooroshy delle condizioni di vita a Guantanamo e della sue personale esperienza di presunto terrorista.

sueddeutsche.de: dopo l’11 settembre e l’inizio della guerra al terrore veniva allestito il famigerato centro di detenzione di Guantanamo Bay. Poco dopo, nel novembre 2002, Le fu chiesto di unirsi alle truppe stazionate lì. Perché scelsero proprio Lei?
James Yee: all’epoca dell’attentato alle torri gemelle, io ero cappellano musulmano delle forze armate statunitensi. Il Pentagono mi chiese di tenere delle conferenze per dare ai soldati delle risposte alle domande sull’Islam.
Ero in grado di chiarire molti equivoci, perché sapevo distinguere tra la religione dell’Islam e l’estremismo. Quando si decise di allestire il campo di prigionia a Guantanamo, fui selezionato ad hoc per partecipare come cappellano musulmano a questa delicatissima operazione.

sueddeutsche.de: qual è stata la Sua prima impressione del campo di prigionia?
Yee: non avevo idea di cosa mi avrebbe aspettato laggiù. Era qualcosa di unico. Non avevo mai visto dei detenuti rinchiusi in gabbie separate.

sueddeutsche.de: i detenuti erano tutti musulmani?
Yee: a quanto mi risulta, sì.

sueddeutsche.de: nel Suo libro descrive l’impiego sistematico di metodi di natura psicologica e fisica finalizzati ad “ammorbidire” i prigionieri per gli interrogatori. Userebbe il termine “maltrattamento” o, addirittura, “tortura” per definire ciò che ha visto?
Yee: si trattava certamente di maltrattamenti. Tuttavia, se si parla di tortura, bisogna interrogarsi sulla sua definizione precisa in termini giuridici. A questo riguardo non credo che esista un consenso unanime.

sueddeutsche.de: potrebbe farci un esempio dei metodi che Lei critica?
Yee: possiamo parlare del cosiddetto „IRFing“. “IRF” è la sigla di “Immediate Response Force”, vale a dire “forza di reazione immediata”. Questa procedura veniva usata, in particolare, per costringere i prigionieri ad uscire dalle loro celle. Le guardie carcerarie si presentavano in tenuta antisommossa e, dopo aver spruzzato il prigioniero di spray al pepe ed aver aperto la porta della cella, lo gettavano a terra con violenza, gli legavano mani e piedi e lo trascinavano fuori.

sueddeutsche.de: i prigionieri reagivano?
Yee: a volte sì, ed in questi casi il trattamento è stato ancor più brutale. A volte l“IRFing” era necessario, per motivi di sicurezza, ad esempio. Ma ciò che ho potuto constatare a Guantanamo è che questa procedura veniva impiegata automaticamente per infrazioni che io definirei di poco conto. Le faccio un esempio: ad alcuni prigionieri veniva consentito di avere un bicchiere di polistirolo in cella.
A volte, i bicchieri, non si sa come, diventavano due, uno per bere e l’altro per uso igienico, per lavarsi dopo essere andati al bagno. Ovviamente, il prigioniero non voleva usare lo stesso bicchiere per entrambi gli scopi. Il regolamento, però, consentiva solo un bicchiere e pertanto il secondo bicchiere veniva considerato come “merce illegale di contrabbando”. La merce illegale di contrabbando veniva punita con alcuni giorni di isolamento, ed è qui che interveniva la squadra IRF.
A mio avviso queste situazioni potevano essere chiarite in modo più misurato.

sueddeutsche.de: ha parlato di questi episodi con il Suo superiore?
Yee: il mio compito di cappellano musulmano a Guantanamo consisteva anche nel raccogliere testimonianze e proporre delle raccomandazioni circa il trattamento dei prigionieri. I problemi andavano affrontati, perché spesso conducevano a comportamenti violenti, oppure ad azioni ancora più estreme, come, ad esempio, a tentativi di suicidio da parte dei detenuti.

sueddeutsche.de: qual è stato l’approccio a questi problemi da parte dei Suoi superiori?
Yee: ritengo che i vertici militari di Guantanamo abbiano creato un clima fertile per abusi e maltrattamenti sui prigionieri. All’epoca dei fatti, il comando della base era nelle mani del generale maggiore Jeoffrey Miller, che in seguito sarebbe stato chiamato in causa per gli scandali di Abu Ghraib e Guantanamo. La frase preferita che ripeteva tra i soldati di stanza a Guantanamo era “la battaglia è cominciata”. Ciò ha fatto sì che le relazioni delle guardie carcerarie con i prigionieri venissero improntate alle sensazioni che si proverebbero in una guerra.
Un altro slogan utilizzato spesso dai militari era: „purtroppo in guerra certe cose possono capitare”. Nei rapporti con i detenuti, ai soldati veniva trasmessa la sensazione di essere scaraventati in un violento combattimento. È così che si era venuta a creare l’atmosfera che spesso sfociava in abusi e maltrattamenti.

sueddeutsche.de: cosa ne pensa della dichiarazione del presidente Bush: “noi non torturiamo”?.
Yee: ancora più importante di questa dichiarazione è il fatto che il senato degli Stati Uniti abbia approvato a stragrande maggioranza un disegno di legge che vieta qualsiasi trattamento crudele, inumano o degradante di individui in custodia del governo degli Stati Uniti.
La discussione intorno al concetto di tortura ha devastato l’immagine degli Stati Uniti e , per gli americani, ora è diventato più difficile proiettare i propri valori al di fuori dei confini nazionali. Se le truppe statunitensi torturano, lo stesso può accadere anche agli americani prigionieri, il che si è già verificato da quando è cominciata la guerra in Iraq.

sueddeutsche.de: ritiene che la pubblica opinione americana ed il Congresso abbiano le idee chiare su quanto accade a Guantanamo?
Yee: no. Gran parte di quello che accade a Guantanamo viene tenuto nascosto all’opinione pubblica. Addirittura, quando qualche membro del Congresso va in visita a Guantanamo, può vedere solo quello che i militari intendono mostrargli: una realtà edulcorata.

sueddeutsche.de: negli Stati Uniti il maltrattamento dei detenuti non è un problema sconosciuto. Si sente parlare spesso di maltrattamenti nelle carceri americane, e non solo in quelle di massima sicurezza. Il caso Guantanamo è differente?
Yee: una delle differenze più significative sta nel fatto che la detenzione di questi prigionieri avviene a tempo indeterminato, senza un’accusa formale, in aperta violazione ai principi fondamentali di una società civile. È ovvio che negli Stati Uniti c’è gente che va in prigione. Però dietro c’è un’accusa, vanno in tribunale, hanno degli avvocati. A Guantanamo tutto questo non esiste. Lì ti sbattono in una cella, buttano via la chiave, non ti accusano formalmente e non hai un accesso vero e proprio ad un avvocato difensore.

sueddeutsche.de: com’e era il suo rapporto personale con i reclusi?
Yee: mi trovavo nella posizione unica di poter parlare con i prigionieri su un piano personale, visto che il mio lavoro consisteva nel valutare le loro condizioni spirituali. Avevo l’accesso autorizzato ai prigionieri, senza scorta, ed avevo il diritto di parlare con loro apertamente.
Così ho potuto conoscerli come individui e apprendere che anche loro sono esseri umani e dovrebbero essere trattati come tali.

sueddeutsche.de: i prigionieri sono ritenuti combattenti talebani e presunti terroristi.
Yee: mi risulta molto difficile credere che i circa 660 prigionieri di Guantanamo abbiano potuto partecipare agli attentati dell’11 settembre. Semplicemente non ha senso.
Se questi uomini fossero davvero dei terroristi irriducibili,non si troverebbero a Guantanamo. Sarebbero detenuti in altre località, ad esempio in qualche “Black Site”, come chiamano le prigioni segrete della CIA all’estero delle quali si è avuta notizia.
Ricordo che, una volta, una guardia aveva dimenticato di chiudere a chiave una cella. Il prigioniero usci dalla cella, mi vide e disse: ”cappellano, chiami la guardia e gli dica di chiudere a chiave la cella sennò si mette nei guai”. Se quell’uomo fosse stato un terrorista irriducibile penso che, forse, la situazione avrebbe preso una piega completamente diversa.
In un altro caso di una cella lasciata aperta, un prigioniero tentò di rinchiudere alcune guardie in una cella adiacente. Venne sopraffatto, picchiato violentemente e messo in isolamento. In generale mi risultava molto difficile credere che queste persone abbiano potuto organizzare l’11 settembre.

sueddeutsche.de: allora ritiene che siano innocenti?
Yee: partiamo dalle prove. Tra i prigionieri di Guantanamo, ad esempio, ce ne sono anche alcuni provenienti dalla Cina occidentale, gli uiguri. Più di un anno fa le commissioni di indagine nominate dall’esercito USA hanno stabilito che questi prigionieri non sono “nemici combattenti” e tuttavia non sono stati ancora liberati. È evidente, quindi, che ci sono persone arrestate per errore che sono ancora detenute a Guantanamo.

sueddeutsche.de: la „guerra al terrore“ è in realtà una „guerra all’Islam“?
Yee: nell’amministrazione Bush, qualcuno ha certamente un atteggiamento negativo nei confronti dell’Islam, mi riferisco a gente come il generale Boykin o l’ex ministro della giustizia John Ashcroft. Io direi che dall’11 settembre noi musulmani negli Stati Uniti, in Europa e nel resto del mondo, abbiamo certamente subito delle pressioni in quanto seguaci di una determinata religione. La popolazione musulmana degli Stati Uniti rappresenta, attualmente, il settore più a rischio della società. Se si considera il numero di episodi di violenza ai danni dei musulmani, è chiaro che c’è una ostilità contro l’Islam e che si è incrementata dopo l’11 settembre.

sueddeutsche.de: il 10 settembre 2003 Lei è stato arrestato durante un congedo per ferie al momento di rientrare negli Stati Uniti ed ha trascorso 76 giorni in una cella d’isolamento. Perché?
Yee: già alcuni mesi prima del mio arresto vero e proprio erano in corso delle indagini segrete sulla mia persona. Durante il congedo per ferie, al mio rimpatrio, fui fermato alla dogana, all’aeroporto militare di Jacksonville, in Florida, perché volevano perquisire i miei bagagli. In un secondo momento ho appreso che l’FBI aveva ordinato alle autorità doganali di separarmi dagli altri passeggeri e di perquisire i miei bagagli.
Non avevo con me niente di particolare, tuttavia in seguito hanno affermato di aver trovato documenti “sospetti” che, successivamente, sarebbero diventati “segreti”. Per questo motivo mi hanno messo in carcere, in cella di isolamento.

sueddeutsche.de: in carcere come è stato trattato?
Yee: dopo avermi incarcerato mi hanno sottoposto ad un trattamento chiamato “deprivazione sensoriale”: ti mettono degli occhiali neri e dei paraorecchie, così non vedi e non senti nulla. Ogni volta che uscivo dalla cella venivo sottoposto ad una perquisizione corporale e mi incatenavano mani, piedi e fianchi.
Ironia della sorte: a Guantanamo Bay, a Cuba, ero riuscito a tutelare i diritti religiosi dei detenuti. Avevo fatto in modo che potessero ascoltare la chiamata alla preghiera 5 volte al giorno, che il loro cibo corrispondesse ai precetti dell’Islam, che ogni cella contenesse una freccia rivolta verso la Mecca per indicargli la direzione della preghiera.
Invece, quando sono stato incarcerato io, cittadino statunitense nel mio Paese, mi è stato negato il diritto fondamentale di libertà religiosa garantito dalla costituzione. Avevo chiesto al cappellano di indicarmi l’orario della preghiera. Avevo chiesto di conoscere la direzione della Mecca. Non mi era permesso nemmeno di guardare l’orologio.

sueddeutsche.de: cosa è accaduto dopo che l’hanno sbattuta in prigione? Ritiene di aver avuto un processo equo?
Yee: credo che si sia trattato di un grave errore giudiziario. Per quanto concerne il mio caso, l’Intelligence militare, i nostri servizi segreti e gli alti gradi dell’esercito hanno sbagliato tutto. Quei 76 giorni di prigione, le accuse di essere una spia, un terrorista e di aver fornito “aiuto al nemico” dimostrano la debolezza di chi oggi occupa i posti di comando nelle forze armate degli Stati Uniti.
Io attribuisco tutta questa brutta storia all’ignoranza, all’inesperienza ed all’ottusità. Si è trattato senza dubbio di un errore dei servizi segreti. Dopo essere stato completamente riabilitato e dopo il ritiro di tutte le accuse contro di me, sono stato pienamente reintegrato in servizio come cappellano musulmano dell’esercito statunitense. Tuttavia, continuavano a mettermi i bastoni tra le ruote e ho avvertito un’ostilità che avrebbe ostacolato la mia carriera nelle forze armate.

sueddeutsche.de: cosa spera dal futuro?
Yee: spero che la gente venga a conoscenza del mio caso e dei problemi dei musulmani dopo l’11 settembre. Spero che ci siano delle persone che trovino l’ispirazione per impegnarsi a tutelare l’uguaglianza, la tolleranza e la libertà di religione. Io continuerò a lottare per questi principi.