L'instant-movie britannico, già passato in concorso al festival di Berlino, The road to Guantamano (La strada per Guantamano), diretto da Michael Winterbotton e Mat Whitecross, dettagliatamente racconta, con indignazione ma senza abusare «pornograficamente» delle immagini (forse un po' dei suoni e dei ritmi), utilizzando per metà la forma-intervista e per metà una «messa in scena» piuttosto ben documentata, come in quel luogo si maltrattano, umiliano e torturano (ancora adesso) 500 prigionieri. Ecco un caso di «apartheid giuridico» scandaloso, un «buco nero» per la democrazia, la catastrofe del «pensiero unico». Il supercarcere più intoccabile e impunito del mondo ha infatti - spiega il rapporto Onu - ignorato sprezzantemente, fossero o meno i prigionieri autentici combattenti islamici, la convenzione di Ginevra e la carta dei diritti umani. Come possono, d'altra parte, dei nemici giurati e fanatici della «più bella e libera democrazia del mondo» essere considerati degli esseri umani? E poi, dopo il 9/11 non sarà il caso di mandare in pensione la signora Roosevelt, il suo idealismo demodé e tutti i pavidi traditori dell'occidente cristiano, da pii fedeli della signora Fallaci?
Nel film, altamente «veritiero», perché sceneggiato dai
protagonisti stessi di questa odissea tragica, si decostruisce
infatti proprio la degradazione scientifica del nemico «a
subumano» - un numero, un cappuccio in testa, una gabbia da
gallina dove stare accucciato se no botte da orbi, degno solo
del dileggio danese o dell'urina sul Corano - attraverso la
storia, raccontata dal punto di vista delle vittime innocenti,
di tre ragazzi rappettari di origine pakistana residenti a
Tipton, Birmingham. Recatisi in Pakistan poco prima
dell'invasione dell'Afghanistan, per un matrimonio di confine,
fissato ahimé nella data sbagliata, i «tre di Tipton» si sono
visti piovere addosso micidiali ordigni di guerra (un quarto
ragazzo, il loro amico Munir Alì, risulta tuttora disperso),
poi, in fuga dai bombardieri, sono stati catturati, malmenati e
mitragliati dagli uomini della coalizione del generale Dostrum,
e, quasi in fin di vita, passati ai marine che, in base a
ridicole rassomiglianze video e fotografiche, li hanno scambiati
per alti dirigenti di al Qaeda, visto anche il loro inglese era
fluente e dunque più che sospetto. Infine, trasferiti a
Guantanamo per tre anni, alla mercé di un potere totale e
incontrollabile, solo nel 2004, Rhuel Ahmed, Asif Iqbal e Shafiq
Rasul (fossero pure stati agnostici, una certa gran voglia di
diventare islamici gli sarà pure venuta: non successe lo stesso
a Malcolm X?) sono stati liberati senza incriminazioni (i
servizi segreti inglesi sono stati costretti a intervenire
perché nel 2000 Rasul & C. non potevano essere stati ripresi dal
video nel famigerato campo di addestramento al-Faruqh: lavorava
al Birmigham Currys) e trasferiti nel loro paese, senza che
Blair, il neosocialista, avesse fatto troppo per porre fine
all'ingiustizia. Ma, proprio come avviene nel calcio, e come la
Thatcher spiegò anche ai sassi, ci sono cittadini di serie A e
cittadini della «seconda divisione».
Ora, dopo 18 mesi di lavoro, i 5 (coraggiosi, e speriamo che
sopravvivano) commissari Onu hanno provato gli abusi e le
ripetute violazioni delle leggi internazionali nei confronti dei
prigionieri del carcere «clandestino» americano, situato, per
ironia della sorte, proprio nella baia, tuttora colonizzata, di Cuba, l'isola vetero
socialista. E per arrivare a queste conclusioni i 5 dell'Onu
selvaggio hanno fatto lo stesso lavoraccio dei due cineasti,
intervistando gli altri sopravvissuti (oltre ai «tre di Tipton»
sono 38 le «belve feroci» rilasciate perché innocenti, e 250
quelle liberate perché «non rappresentano alcun pericolo per la
sicurezza degli Stati uniti d'America»), e poi medici, avvocati
e membri della Croce Rossa, focalizzando l'attenzione
soprattutto sulla repressione inumana dei recenti scioperi della
fame.
Intanto il Pentagono e la Casa Bianca smentiscono: piccolo Bush
e il suo fido compagno d'affari Rumsfield, che definirono i
detenuti «i peggiori dei peggiori» nemici della libertà e della
democrazia, fanno rilasciare dichiarazioni nelle quali si
assicura che «tutti i prigionieri sono stati sempre trattati
umanamente e hanno usufruito di eccellenti cure mediche». Già,
quel che si fa nelle carceri di tutto il mondo per coprire i
segni di massacri e torture... Quel che conta è che i crimini di
questo governo Usa non vengano giudicati da nessuna corte al
mondo, e inquisite da nessun arcaico apparato Onu. La giuria del
pubblico, almeno, potrà invece giudicare i crimini che la
democrazia occidentale sta commettendo contro se stessa.