25 ottobre 2006 -  Yolanda Monge www.granma.cubaweb.cu

 

 

GUANTANAMO

Visita alla prigione senza legge. Parodia giudiziare.

 

 

Le iguane hanno, in Guantanamo, più diritti dei detenuti nel gulag dei nostri tempi. Come specie protetta, quali sono, per le strade della base statunitense a Cuba si deve guidare a meno di 40 km all'ora per evitare di investirli. Quando la fretta o la crudeltà di qualche soldato non rispettano questo limite e qualcuno di questi sauri viene schiacciato, il trasgressore deve pagare 10000$ di multa. Sulle rive dell'idilliaco Caraibi, si alza un centro di detenzione che ha sequestrato, al mondo, in poco più di quattro anni, l'esistenza di circa 800 persone. "Qualcosa più di 430 o qualcosa meno di questa cifra sono i detenuti che ora stanno qui, il resto è stato liberato" concede, enigmatico, il generale Edward Leacock, secondo nella catena di comando di fronte allo scenario d'incubo che è Guantánamo.

Non foto. Non registratore. Non può utilizzarsi nessuno dei nomi dei presenti. Solo si accede alla sala con carta e penna. Le credenziali devono lasciarsi fuori affinché il detenuto non possa identificarti. La parodia della giustizia che i militari rappresentano in Guantanamo sta per cominciare. La porta di entrata alla sala avvisa ed annuncia: "Giudizio in atto". Dentro tutto è disposto. La poltrona del giudice. Il tavolo per la difesa, il tavolo per l'accusa. Il posto per la stampa. Sedili addizionali per i testimoni. Le pareti sono bianche, non ci sono finestre, all'esterno può essere giorno o notte. Fuori è giorno e fa caldo, questa è Cuba. Dentro fa freddo. L'aria condizionata provoca il battito dei denti e che i fogli volino. La mobilia è volgare. In ogni angolo c'è una telecamera che registrerà il processo e le cui immagini saranno visionate, nella sala contigua, da altri militari o agenti dell'intelligence. Tutto, presieduto dalla bandiera degli Stati Uniti.

"In piede! ", esclama in tono marziale un tenente della Marina. Si alza il carcerato, corpulento (la dieta giornaliera in GITMO, l'abbreviazione con la quale i  nordamericani conoscono la lunga e complicata pronuncia di Guantánamo, consta di 4200 calorie, che a fronte di un esercizio fisico minimo, conduce all'obesità), barba lunga, un afgano di 27 anni e sul cui nome i militari, un'altra volta, esigono totale discrezione ed obbligano a firmare un documento nel quale si accetta non rivelarlo; si alza il traduttore; si alza il militare americano che rappresenta il detenuto; si alzano gli unici due giornalisti ai quali si è concessa la grazia di assistere al circo. "Questa corte inizia la sua sessione", certifica solenne una capitana della Marina che è appena entrata e la cui funzione è fare da giudice. Eccetto imputato, giornalisti e traduttore, il resto delle persone che occupano il recinto esercitano il ruolo di attori, sono militari, rappresentando la parte.

Dalla sala erano usciti poco prima due soldati molto giovani — donna ed uomo — in uniforme dell'Armata con le mani coperte da asettici guanti di plastica verde. Avevano appena consegnato il carcerato e prima di andare lo hanno lasciato legato al pavimento con le catene che gli attanagliano le caviglie. Tutto è progettato al millimetro: il detenuto si siede su una volgare sedia di plastica bianca — "che non é un pericolo né per lui né per gli altri", dice della sedia il capitano Waddingham quando istruisce le due reporter in ciò che vedranno di seguito — e nel pavimento c'è un anello al quale l'ancorano affinché la sua mobilità sia zero. Le mani ammanettate sono bloccate contro il grembo. La sua uniforme è bianca, questo significa che il suo grado di malvagità è il più basso dentro il rango assegnato dai militari statunitensi in Guantánamo. Se il detenuto è considerato di media pericolosità il suo abbigliamento è colore cammello. L'arancio copre i corpi di quelli che, perfino dopo anni di reclusione, non hanno piegato la loro volontà. Quelli con buona condotta hanno spazzolino da denti, rotolo di carta igienica, sapone, shampoo, lenzuola, coperte e biancheria intima. I ribelli si lavano i denti col dito, è concesso loro una striscia di carta per pulirsi e dormono sulla dura branda. Quelli che hanno cercato di togliersi la vita.... A questi si pone, sul loro corpo nudo, una sorta di camicia di forza verde scuro . Tutte le celle, di punizione o no, hanno stampata una croce che segnala la Mecca.

Il capello pettinato in una crocchia fa che le si tiri la pelle del viso, l'uniforme impeccabilmente stiratura, alcuni giganteschi occhiali le coprono quasi la metà del viso. È la capitana della Marina alla quale le hanno dato il libretto del giudice. Dentro uno cartella di plastica bianca possiede, scritte, tutte ed ognuna delle parole che pronuncerà da questo momento. Come le ha scritte, in pastún, l'interprete del detenuto. Per gli attori-militari nulla è spontaneo. Per l'imputato tutto è un incubo tanto che neanche gli sembra reale.

"Giura che quello che dirà è la verità, tutta la verità e nient'altro che la verità?", chiede in inglese la capitana al detenuto. Atto seguente, l'interprete, un afgano con passaporto statunitense, designato, per il lavoro, dal Governo USA domanda la stessa cosa in lingua pastún. A voce molto bassa, l'accusato risponde con pazienza: "L'ho giurato già due volte, lo giuro un'altra volta". Due volte. Da quando fu catturato dall'Esercito nordamericano nella sua lotta contro il terrorismo, a metà dell'anno 2002 in Afghanistan, l'uomo con nome irrivelabile si è seduto già altre due volte davanti a chi decide la sua reclusione o la sua libertà. Nelle occasioni anteriori i suoi carcerieri dovettero credere che non si era redento, perché qui segue, qui è di nuovo, seduto di fronte alla farsa di tribunale che lo giudica.

"Si o no?" chiede impaziente l'altro militare di alto rango, questo dell'Armata. Il traduttore, con risata nervosa,
fa la domanda con amabilità e raccomanda che risponda solo un sì o  un no. Finalmente arriva il sì, lo giura, "per Allah". Domanda: "Apparteneva lei ad Al Qaeda, la banda terroristica di Osama Bin Laden?" Risposta: "Quando arrivarono i talebani fuggimmo in Pakistan...". "Sì o no?", di nuovo il militare da affermazione o le negazione. Di nuovo l'interprete, inquieto, quasi spaventato, col viso arrossato, tenta di consigliare il suo "cliente". Arriva il risultato della sua mediazione: "No". Domanda: "Perché lei pensa, che ora, non é più un pericolo per gli Stati Uniti?" Risposta: "Lo ripeto per la terza volta, non ho detto mai una sola parola contro l'America, sono amico dell'America e degli americani", dichiara meccanicamente.

Durante mezzo minuto, l'accusato che non sa di che cosa lo si accusa perché non gli sono stati mostrati mai prove a suo carico, perché, contro di lui, non si sono mai presentate davanti ad un giudice imputazioni legali  — solo 10 dei detenuti in Guantánamo hanno un giudizio in corso —, perché non ha avuto mai un avvocato che lo rappresenti, sostiene lo sguardo con la giornalista. Il detenuto sa che se oggi non convince, dovrà aspettare un altro anno fino a che il suo caso torni ad essere rivisto. Guarda da entrambi i lati e sa che è solo. Niente e nessuno sta a suo lato. Con il reporter e l'interprete, egli è l'unico civile della sala. Di fronte a sette militari, uno dei quali fa veri sforzi per non addormentarsi nel soporifero pomeriggio cubano. Non ci sono testimoni. Non ci sono avvocati. Il suo sguardo dice che è cosciente che può essere imprigionato, nel buco nero che è Guantánamo, per tutta la vita o fino a che, il nuovo ordine che ha instaurato il presidente George W. Bush, scompaia. "Sono innocente", continua a dire. "Sono innocente". E torna a cercare un sguardo che racconti la sua tragedia fuori da quelle quattro pareti.

La capitana con la crocchia tesa lo contempla. E risolve: "Questa corte deciderà. Si toglie la seduta". Esce con passo marziale. Che seduta, se non è un processo? Che corte, se non ci sono magistrati? Che condanna, se non ci sono imputazioni? "Nessuno gli ha creduto", commenta al suo sergente il soldato in guanti verdi che libererà dal pavimento l'imputato e lo trasporterà a passo lento, con tutta la rapidità che gli permettono le corte catene che attanagliano le caviglie, fino alla sua cella. Quello che nessuno crederebbe anche se lo vedesse è ciò che é successo giovedì 18 ottobre tra le 13:00 e le 14:27 in una sala bianca nella base navale di Guantánamo, Cuba, all'entrata della quale avrebbe dovuto leggersi: "Farsa di giudizio in atto".

Il generale Leacock dice: "Le do il titolo del giorno di oggi: Non esiste, nel mondo, un campo di detenzione più trasparente di Guantánamo". Questa trasparenza è quella che fa che il tagico Zen Ulabedin Merozhev, dica al suo interprete, che è da cinque anni che non vede il suo viso. S'immagini per un momento: cinque anni senza potersi vedere in uno specchio. Cinque anni condotto in un campo di detenzione a migliaia di chilometri di distanza da casa sua. Cinque anni senza diritti.

Bisogna ricordare che più di 800 persone, compresi minori, sono passati per le celle di Guantánamo dalla sua creazione, nel 2002, come armamentario nella guerra contro il terrorismo. Che un numero intorno ai 430 rimangono confinati. Che solo 10 hanno imputazioni formali. Che le denunce di torture fisiche e psicologiche sono state costanti. Che la Convenzione di Ginevra è stata violata e distorta, perché i militari l'usano come scusa per proibire le fotografie. Bisogna ricordare, perché se no, dopo il tour che offre l'Esercito USA, con clinica dentale e libri di Harry Potter in arabo per i carcerati, uno crederebbe di stare in un campo di ricreazione sulle rive dei Caraibi.

"Stanno mentendole" grida un detenuto

Camp V. L'ultimo centro di reclusione costruito dai militari USA. Freddo come l'acciaio, asettico come un obitorio, inespugnabile come una fortezza. Il marine declina le sue bellezze. "Capacità per 100 reclusi. Tecnologia di punta. Telecamere in ogni cella. Costruito ad immagine di una prigione di massima sicurezza dell'Indiana". Non può essere più azzeccato. Non appena la porta automatica, che separa la strada dalla prigione, si chiude si è sepolti vivi e si vuole fuggire. E si è solo da cinque minuti. I fantasmi che sopravvivono in celle di quattro per tre metri sono qui da quattro anni.

"Sig.ra, non può stare dietro me", avverte il soldato. "Non può
fotografare né i miei soldati né il centro di controllo della mia prigione". L'uso del possessivo fa sentire i brividi. "Può fotografare la poltrona per gli interrogatori, tanto comoda come qualunque di quelle che ci sono nelle case", dice mentre introduce la stampa nella sala. Ai piedi della poltrona di velluto ci sono alcune manette che escono dal pavimento, alle quali si sottometterà il futuro interrogato. È la prima stanza del corridoio. Di seguito, stanno le celle. Quando si chiude la porta della cella, la gabbia rimane sigillata. Questo evita gli scomodi "cocktail" che i detenuti preparano per i guardiani. A Camp Delta, dove solo un reticolato li separa dai loro carcerieri, i carcerati lanciano "fluidi corporali" — urina ed escrementi —. Ma ancora non si è costruito in Guantánamo il muro che possa contenere le grida della disperazione. È Ramadan. È l'ora della preghiera. Tra le preghiere in arabo un detenuto, quando nota la presenza della giornalista, riesce a gridare in un precario inglese: "Stanno mentendole!".

(Tratto da El Pais)