New York 14 giugno 2006, F.Pantarelli www.ilmanifesto.it

 

 

GUANTANAMO

Dopo i suicidi, appelli da tutto il mondo per chiudere il centro. Per i generali la mossa dei tre è un atto di guerra. Bush si chiude in un silenzio imbarazzato

 

 

 

Un dibattito a dir poco surreale è in corso nel mondo politico americano. La sede in cui si svolge è ovviamente quella delle emittenti televisive e i due corni del dilemma sono: i suicidi di Guantanamo hanno posto fine alle loro esistenze per la disperazione di essere lì da anni e di non sapere se e quando quel calvario avrebbe mai visto la fine, oppure per compiere una «azione di guerra asimmetrica» contro gli Usa (l'ammiraglio Harry Harris, comandante della prigione) o per mettere a segno «un colpo di public relations» (Colleen Graffy, assistente di Condoleezza Rice)? Sul concetto della disperazione, manco a dirlo, è il resto del mondo, comprendendo tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani e praticamente tutti i politici che sono riusciti a raggiungere una telecamera, compresi deputati e senatori repubblicani. Quei commenti sull'atto di guerra e le pubbliche relazioni, dice scandalizzato il New York Times, rivelano una tale «dissociazione dal senso di umanità» in cui l'America ufficiale è sprofondata che «dicono molto di più sulla necessità di chiudere al più presto Guantanamo di quanto non abbiano fatto i vari rapporti e appelli».
Dopo due giorni anche la Casa bianca sembra avere afferrato la gravità di quelle parole pronunciate dai suoi esponenti e ha cercato di mettere in piedi una sorta di operazione recupero. George Bush ha preferito non parlare ma ha fatto sapere attraverso il suo portavoce Tony Snow che è «seriamente preoccupato» e vari personaggi medio-bassi dell'amministrazione hanno fatto il giro delle tv per «distanziarsi» dai quei commenti «perché noi, in quanto americani, crediamo nella vita, anche nelle vite di violenti terroristi catturati mentre facevano la guerra contro il nostro Paese», come ha spiegato con involontaria ironia Cully Simpson, un assistente segretario della Difesa per gli affari concernenti proprio i detenuti.
Sembrava una scelta dettata dalla vergogna, quella di mandare avanti le figure secondarie dell'amministrazione, ma Bush e gli altri big avevano una giustificazione: ieri erano tutti chiusi a Camp David per un «consiglio di guerra» con all'ordine del giorno il problema di come «capitalizzare» la morte di Zarqawi. C'erano Dick Cheney, Condoleezza Rice, Donald Rumsfeld, collegati in videoconferenza con i generali in Iraq e con alcuni esponenti del governo di Baghdad. Bush, si dice, ha esortato tutti a non soffermarsi troppo sulla «realtà quotidiana» e a fornirgli invece «una strategia», perché lui vorrebbe diminuire il numero di truppe presenti in Iraq prima delle elezioni di novembre. È da immaginare che i suicidi di Guantanamo siano emersi durante le discussioni, ma fino al tardo pomeriggio non c'erano indicazioni in tal senso.
Gli appelli a chiudere Guantanamo ieri hanno praticamente toccato l'apice: alla perentoria sentenza dell'Onu di alcune settimane fa si sono aggiunti la Commissione europea, il Consiglio d'Europa, la Croce Rossa, più varie chiamate «individuali» a Washington da parte di singoli governi. Non si sa se una chiamata sia partita anche da Roma, ma per esempio Berlino ha riferito di una conversazione fra Christop Heusgen, il consigliere di politica estera di Angela Merkel, e Stephen Hadley, il consigliere di Bush per la sicurezza nazionale, che ha scontatamente promesso «un chiarimento completo» di ciò che è accaduto.

Intanto il Pentagono ha annunciato ufficialmente l'identità dei tre morti suicidi, confermando ciò che le loro famiglie avevano già detto domenica. Si tratta di Mani Shaman Turki al-habardi al-Utaybi, un saudita il cui avvocato ha fatto sapere che era stato insertito in una lista di 141 detenuti di cui sarebbe prossimo il rilascio (ma lui non lo sapeva perché la policy a Guantanamo è di lasciare sempre nell'incertezza i detenuti); di Yassar Talal Abdullah al-Zahrani, un altro saudita che quando ha fatto il suo ingresso a Guantanamo aveva 17 anni, e di Ali Abdullah Ahmed, del quale rimane ancora misteriosa la nazionalità: era stato indicato come yemenita ma non è stato confermato. Ci sono anche alcuni particolari sul loro suicidio. Secondo il racconto fatto al New York Times da un tenente di nome Robert Durand, si sono nascosti nella lavanderia e hanno usato i panni lavati per mettere insieme le corde per impiccarsi. Il che, osserva il giornale, sembra fare a cazzotti con la «regola» che ufficialmente vige a Guantanamo, e cioè che ogni detenuto deve essere controllato ogni due minuti. Nessuno dei tre suicidi faceva parte di quella decina di detenuti (su 480) che nel corso di questi anni sono stati accusati di qualcosa.