Un dibattito a dir poco surreale è in
corso nel mondo politico americano. La sede in cui si svolge è
ovviamente quella delle emittenti televisive e i due corni del dilemma
sono: i suicidi di Guantanamo hanno posto fine alle loro esistenze per
la disperazione di essere lì da anni e di non sapere se e quando quel
calvario avrebbe mai visto la fine, oppure per compiere una «azione di
guerra asimmetrica» contro gli Usa (l'ammiraglio Harry Harris,
comandante della prigione) o per mettere a segno «un colpo di public
relations» (Colleen Graffy, assistente di Condoleezza Rice)? Sul
concetto della disperazione, manco a dirlo, è il resto del mondo,
comprendendo tutte le organizzazioni di difesa dei diritti umani e
praticamente tutti i politici che sono riusciti a raggiungere una
telecamera, compresi deputati e senatori repubblicani. Quei commenti
sull'atto di guerra e le pubbliche relazioni, dice scandalizzato il New
York Times, rivelano una tale «dissociazione dal senso di umanità» in
cui l'America ufficiale è sprofondata che «dicono molto di più sulla
necessità di chiudere al più presto Guantanamo di quanto non abbiano
fatto i vari rapporti e appelli».
Dopo due giorni anche la Casa bianca sembra avere afferrato la gravità
di quelle parole pronunciate dai suoi esponenti e ha cercato di mettere
in piedi una sorta di operazione recupero. George Bush ha preferito non
parlare ma ha fatto sapere attraverso il suo portavoce Tony Snow che è
«seriamente preoccupato» e vari personaggi medio-bassi
dell'amministrazione hanno fatto il giro delle tv per «distanziarsi» dai
quei commenti «perché noi, in quanto americani, crediamo nella vita,
anche nelle vite di violenti terroristi catturati mentre facevano la
guerra contro il nostro Paese», come ha spiegato con involontaria ironia
Cully Simpson, un assistente segretario della Difesa per gli affari
concernenti proprio i detenuti.
Sembrava una scelta dettata dalla vergogna, quella di mandare avanti le
figure secondarie dell'amministrazione, ma Bush e gli altri big avevano
una giustificazione: ieri erano tutti chiusi a Camp David per un
«consiglio di guerra» con all'ordine del giorno il problema di come
«capitalizzare» la morte di Zarqawi. C'erano Dick Cheney, Condoleezza
Rice, Donald Rumsfeld, collegati in videoconferenza con i generali in
Iraq e con alcuni esponenti del governo di Baghdad. Bush, si dice, ha
esortato tutti a non soffermarsi troppo sulla «realtà quotidiana» e a
fornirgli invece «una strategia», perché lui vorrebbe diminuire il
numero di truppe presenti in Iraq prima delle elezioni di novembre. È da
immaginare che i suicidi di Guantanamo siano emersi durante le
discussioni, ma fino al tardo pomeriggio non c'erano indicazioni in tal
senso.
Gli appelli a chiudere Guantanamo ieri hanno praticamente toccato
l'apice: alla perentoria sentenza dell'Onu di alcune settimane fa si
sono aggiunti la Commissione europea, il Consiglio d'Europa, la Croce
Rossa, più varie chiamate «individuali» a Washington da parte di singoli
governi. Non si sa se una chiamata sia partita anche da Roma, ma per
esempio Berlino ha riferito di una conversazione fra Christop Heusgen,
il consigliere di politica estera di Angela Merkel, e Stephen Hadley, il
consigliere di Bush per la sicurezza nazionale, che ha scontatamente
promesso «un chiarimento completo» di ciò che è accaduto.
Intanto il Pentagono ha
annunciato ufficialmente l'identità dei tre morti suicidi, confermando
ciò che le loro famiglie avevano già detto domenica. Si tratta di Mani
Shaman Turki al-habardi al-Utaybi, un saudita il cui avvocato ha fatto
sapere che era stato insertito in una lista di 141 detenuti di cui
sarebbe prossimo il rilascio (ma lui non lo sapeva perché la policy a
Guantanamo è di lasciare sempre nell'incertezza i detenuti); di Yassar
Talal Abdullah al-Zahrani, un altro saudita che quando ha fatto il suo
ingresso a Guantanamo aveva 17 anni, e di Ali Abdullah Ahmed, del quale
rimane ancora misteriosa la nazionalità: era stato indicato come
yemenita ma non è stato confermato. Ci sono anche alcuni particolari sul
loro suicidio. Secondo il racconto fatto al New York Times da un tenente
di nome Robert Durand, si sono nascosti nella lavanderia e hanno usato i
panni lavati per mettere insieme le corde per impiccarsi. Il che,
osserva il giornale, sembra fare a cazzotti con la «regola» che
ufficialmente vige a Guantanamo, e cioè che ogni detenuto deve essere
controllato ogni due minuti. Nessuno dei tre suicidi faceva parte di
quella decina di detenuti (su 480) che nel corso di questi anni sono
stati accusati di qualcosa.