Costretti a vivere senza diritti, in
condizioni disumane nel carcere Usa, in molti hanno trovato nei versi
un riscatto. Prima bloccati dalla censura sono stati pubblicati
recentemente dalla rivista statunitense “Bookforum” e da “El Pais”
«A furia di rimpiangerti, madre, il mio cuore si è consumato. / Giuro
sull’intero creato che non so come parlarti. / La notte, nei miei
sogni sonnambuli, sento il tuo amore / che mi chiama: dov’è Imad?».
Questi versi di lontananza e di dolore sono stati scritti da Imad
Abdullah Hassan, prigioniero a Guantanamo. Imad non è l’unico ad aver
scritto poesie durante il suo periodo di detenzione. Come lui, in
tanti hanno cercato nella scrittura una via di fuga contro la pazzia,
l’abbandono, lo smarrimento di sé. Sono voci che invocano giustizia, o
che rincorrono una speranza, quella di ritornare a casa, come nelle
parole di Daddiq Turkestani: «Seppure il dolore della ferita aumenta /
ci sarà un rimedio per curarla. / Seppure i giorni in prigione si
allungano / ci sarà un giorno per lasciarla».
La rivista “Bookforum” di New York, trimestrale d’arte, letteratura e
cultura, ha pubblicato nel numero estivo di giugno-settembre una
raccolta di poesie dei prigionieri di Guantanamo. Mark D. Falkoff, un
avvocato di New York, che rappresenta 17 yemeniti detenuti nella
prigione cubana, è riuscito a far annullare il divieto di diffusione
per alcune, poche a dire il vero, di queste poesie. Fino a questo
momento il Dipartimento di Stato americano aveva infatti confiscato
tutti gli scritti dei prigionieri, qualificandoli come comunicazioni
proibite. Ai detenuti non era concesso di scrivere a nessun altro che
ai propri avvocati, perciò, se una poesia riportava dei versi rivolti
ad una terza persona, come ad esempio “perdonami, cara sposa”,
immediatamente scattava il divieto di diffusione e pubblicazione.
E’ stato lo stesso Falkoff, che tra le altre sue attività tiene corsi
sui diritti dei prigionieri alla Brooklyn Law School, a promuovere una
traduzione dall’arabo e dal pashtu, segnando il secondo passo per la
circolazione di questi versi. In questi giorni è stato quindi
possibile leggere alcune delle poesie pubblicate da “Bookforum”.
Sabato 8 luglio ne dava notizia “Babelia”, il settimanale culturale
del quotidiano spagnolo El Pais, che dedicava la consueta rubrica,
“Antologia di Babele”, proprio ai poeti di Guantanamo. I versi dei
detenuti, soffocati dalle assurdità dei protocolli di sicurezza,
prendono così a farsi conoscere, restituendo umanità a delle vite
tenute in questi anni al di fuori di un riconoscimento, sospese
nell’anonimato delle tute arancioni d’ordinanza.
Emblematico è diventato il caso di Abdul Rahim Muslim Dost, un poeta
afghano di 44 anni, che ha sopportato, come suo fratello, tre anni di
detenzione, prima di essere liberato per fare ritorno a Peshawar, in
Pakistan, dove vive abitualmente. Accusato di essere un terrorista di
al-Qaida, Dost era stato prelevato dalla sua casa, nel novembre del
2001. Dopo una prima detenzione in Pakistan e poi a Kadahar, cinque
mesi più tardi è stato trasportato, bendato, nella prigione di Cuba.
Nell’isolamento della sua cella scrivere è stato l’unico mezzo per
fuggire da quell’incubo. Inizialmente, privo di carta e penna, aveva
trovato nelle tazze di polistirolo l’unico materiale a sua
disposizione. Ma inevitabilmente queste tazze incise finivano tra i
rifiuti. Poi, finalmente, ottenuto il permesso di scrivere, Dost ha
raccontato di aver composto più di 25.000 versi, che gli venivano
regolarmente confiscati. Al momento della sua liberazione, avvenuta
all’inizio del 2005, perché, recita la sentenza, non si trattava più
di “un nemico combattente”, Dost ha chiesto indietro il resto delle
sue poesie, avendo egli con sé soltanto i versi scritti negli ultimi
giorni di prigionia. Ancora aspetta che questi versi ritornino
indietro, sebbene non nutra molte illusioni in proposito. Ma non è
sorpreso, poiché molti dei suoi versi erano componimenti satirici sui
suoi carcerieri, un modo per distanziarsi dall’assurdità di quella
prigionia. Molti detenuti conoscono questi versi, dal momento che
circolavano, sussurrati da uno all’altro, per alleviare con un po’ di
comicità il peso delle monotone giornate.
La vicenda, sollevata da numerosi media internazionali, ha spinto un
portavoce di Guantanamo a rilasciare delle dichiarazioni in merito.
Pare che le poesie di Dost siano ancora soggette alle “analisi
dell’intelligence”. Queste dichiarazioni sugellano il lato grottesco
di tutta questa vicenda, che, se non avessero a che fare con l’assurda
detenzione di un uomo nella prigione simbolo ormai della vergogna,
farebbero persino sorridere, immaginando questi esperti di terrorismo
internazionale alle prese con i ritmi di 14 sillabe dei versi di Dost.
Come giustificazione per questa e numerose altre detenzioni, le
autorità statunitensi hanno fatto sapere che nel 2001 in Pakistan
c’erano molti rifugiati afghani, coinvolti in episodi di terrorismo.
Fino ad ora altri 234 sospettati come Dost sono stati liberati, mentre
circa 500 di loro sono ancora a Guantanamo.
Il rapporto tra la famigerata prigione nella baia cubana e la poesia
sembra essere uno di quegli incontri che si ripetono, seppure in
condizioni così diverse e tanto lontane. Coincidenze che a posteriori
fanno di questo luogo un punto in cui si ricollegano fatti lontani. Il
precedente è la celeberrima “Guantanamera”, la canzone patriottica
cubana che affonda le sue radici fin nel XIX secolo. La canzone è
basata sulla poesia Versos sencillos, composta dal leader del
movimento per l’indipendenza cubana José Martí nel 1891, i cui versi
sono divenuti un simbolo dell’indipendenza dell’isola. Durante tutto
il corso della sua vita, Martí si oppose al coinvolgimento degli Stati
Uniti nella guerra per l’indipendenza di Cuba, riferendosi allo stato
americano come al “Golia delle Americhe”. Il personaggio della
“guajira guantanamera” altro non è che una contadina di Guantanamo,
alla quale il poeta/cantante si rivolge. E i versi di José Marti si
intrecciano oggi in modo inestricabile con le voci dei detenuti di
Guantanamo: «Yo sé de un pesar profundo / Entre las penas sin nombres:
/ La esclavitud de los hombres / Es la gran pena del mundo» («Conosco
un dispiacere profondo / Tra le pene senza nome: / La schiavitù degli
uomini / » la grande pena del mondo»).