3 luglio 2006 - L. Vilei, www.liberazione.it

 

 

GUANTANAMO

la poesia una via di fuga dalla pazzia
 

 

Costretti a vivere senza diritti, in condizioni disumane nel carcere Usa, in molti hanno trovato nei versi un riscatto. Prima bloccati dalla censura sono stati pubblicati recentemente dalla rivista statunitense “Bookforum” e da “El Pais”

«A furia di rimpiangerti, madre, il mio cuore si è consumato. / Giuro sull’intero creato che non so come parlarti. / La notte, nei miei sogni sonnambuli, sento il tuo amore / che mi chiama: dov’è Imad?». Questi versi di lontananza e di dolore sono stati scritti da Imad Abdullah Hassan, prigioniero a Guantanamo. Imad non è l’unico ad aver scritto poesie durante il suo periodo di detenzione. Come lui, in tanti hanno cercato nella scrittura una via di fuga contro la pazzia, l’abbandono, lo smarrimento di sé. Sono voci che invocano giustizia, o che rincorrono una speranza, quella di ritornare a casa, come nelle parole di Daddiq Turkestani: «Seppure il dolore della ferita aumenta / ci sarà un rimedio per curarla. / Seppure i giorni in prigione si allungano / ci sarà un giorno per lasciarla».

La rivista “Bookforum” di New York, trimestrale d’arte, letteratura e cultura, ha pubblicato nel numero estivo di giugno-settembre una raccolta di poesie dei prigionieri di Guantanamo. Mark D. Falkoff, un avvocato di New York, che rappresenta 17 yemeniti detenuti nella prigione cubana, è riuscito a far annullare il divieto di diffusione per alcune, poche a dire il vero, di queste poesie. Fino a questo momento il Dipartimento di Stato americano aveva infatti confiscato tutti gli scritti dei prigionieri, qualificandoli come comunicazioni proibite. Ai detenuti non era concesso di scrivere a nessun altro che ai propri avvocati, perciò, se una poesia riportava dei versi rivolti ad una terza persona, come ad esempio “perdonami, cara sposa”, immediatamente scattava il divieto di diffusione e pubblicazione.

E’ stato lo stesso Falkoff, che tra le altre sue attività tiene corsi sui diritti dei prigionieri alla Brooklyn Law School, a promuovere una traduzione dall’arabo e dal pashtu, segnando il secondo passo per la circolazione di questi versi. In questi giorni è stato quindi possibile leggere alcune delle poesie pubblicate da “Bookforum”. Sabato 8 luglio ne dava notizia “Babelia”, il settimanale culturale del quotidiano spagnolo El Pais, che dedicava la consueta rubrica, “Antologia di Babele”, proprio ai poeti di Guantanamo. I versi dei detenuti, soffocati dalle assurdità dei protocolli di sicurezza, prendono così a farsi conoscere, restituendo umanità a delle vite tenute in questi anni al di fuori di un riconoscimento, sospese nell’anonimato delle tute arancioni d’ordinanza.

Emblematico è diventato il caso di Abdul Rahim Muslim Dost, un poeta afghano di 44 anni, che ha sopportato, come suo fratello, tre anni di detenzione, prima di essere liberato per fare ritorno a Peshawar, in Pakistan, dove vive abitualmente. Accusato di essere un terrorista di al-Qaida, Dost era stato prelevato dalla sua casa, nel novembre del 2001. Dopo una prima detenzione in Pakistan e poi a Kadahar, cinque mesi più tardi è stato trasportato, bendato, nella prigione di Cuba. Nell’isolamento della sua cella scrivere è stato l’unico mezzo per fuggire da quell’incubo. Inizialmente, privo di carta e penna, aveva trovato nelle tazze di polistirolo l’unico materiale a sua disposizione. Ma inevitabilmente queste tazze incise finivano tra i rifiuti. Poi, finalmente, ottenuto il permesso di scrivere, Dost ha raccontato di aver composto più di 25.000 versi, che gli venivano regolarmente confiscati. Al momento della sua liberazione, avvenuta all’inizio del 2005, perché, recita la sentenza, non si trattava più di “un nemico combattente”, Dost ha chiesto indietro il resto delle sue poesie, avendo egli con sé soltanto i versi scritti negli ultimi giorni di prigionia. Ancora aspetta che questi versi ritornino indietro, sebbene non nutra molte illusioni in proposito. Ma non è sorpreso, poiché molti dei suoi versi erano componimenti satirici sui suoi carcerieri, un modo per distanziarsi dall’assurdità di quella prigionia. Molti detenuti conoscono questi versi, dal momento che circolavano, sussurrati da uno all’altro, per alleviare con un po’ di comicità il peso delle monotone giornate.

La vicenda, sollevata da numerosi media internazionali, ha spinto un portavoce di Guantanamo a rilasciare delle dichiarazioni in merito. Pare che le poesie di Dost siano ancora soggette alle “analisi dell’intelligence”. Queste dichiarazioni sugellano il lato grottesco di tutta questa vicenda, che, se non avessero a che fare con l’assurda detenzione di un uomo nella prigione simbolo ormai della vergogna, farebbero persino sorridere, immaginando questi esperti di terrorismo internazionale alle prese con i ritmi di 14 sillabe dei versi di Dost. Come giustificazione per questa e numerose altre detenzioni, le autorità statunitensi hanno fatto sapere che nel 2001 in Pakistan c’erano molti rifugiati afghani, coinvolti in episodi di terrorismo. Fino ad ora altri 234 sospettati come Dost sono stati liberati, mentre circa 500 di loro sono ancora a Guantanamo.

Il rapporto tra la famigerata prigione nella baia cubana e la poesia sembra essere uno di quegli incontri che si ripetono, seppure in condizioni così diverse e tanto lontane. Coincidenze che a posteriori fanno di questo luogo un punto in cui si ricollegano fatti lontani. Il precedente è la celeberrima “Guantanamera”, la canzone patriottica cubana che affonda le sue radici fin nel XIX secolo. La canzone è basata sulla poesia Versos sencillos, composta dal leader del movimento per l’indipendenza cubana José Martí nel 1891, i cui versi sono divenuti un simbolo dell’indipendenza dell’isola. Durante tutto il corso della sua vita, Martí si oppose al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra per l’indipendenza di Cuba, riferendosi allo stato americano come al “Golia delle Americhe”. Il personaggio della “guajira guantanamera” altro non è che una contadina di Guantanamo, alla quale il poeta/cantante si rivolge. E i versi di José Marti si intrecciano oggi in modo inestricabile con le voci dei detenuti di Guantanamo: «Yo sé de un pesar profundo / Entre las penas sin nombres: / La esclavitud de los hombres / Es la gran pena del mundo» («Conosco un dispiacere profondo / Tra le pene senza nome: / La schiavitù degli uomini / » la grande pena del mondo»).