Può
un uomo di 27 anni tornare ad una «vita normale» dopo aver trascorso 30 mesi in
una gabbia nel campo di prigionia di Guantánamo? Nizar Sassi, passaporto
francese, origini tunisine, dice di sì, ma nei suoi ricordi vi sono le violenze
e la sopraffazione nel più segreto carcere del mondo. Nel suo racconto
(Prigioniero 325, Delta Camp, Einaudi Stile libero, pp. 175, euro 13,50)
ripercorre gli anni della gioventù in Francia, la scelta di partire «per
passione dell'avventura» per un campo di addestramento alle armi in Pakistan, e
i lunghi mesi della prigionia.
Lei è nato in Francia, si sente francese? Come ha vissuto
negli anni precedenti alla sua «avventura»?
«Come
tutti, in Francia non mi sentivo un "diverso". I miei sono immigrati, ma sono
nato in Francia, ho frequentato le scuole. Quando si è giovani non ci si sente
rifiutati, le difficoltà emergono diventando adulti. Alcuni, coloro che non si
sentono del tutto francesi, vivono questo disagio, io mi sono sempre sentito un
europeo. Da alcuni anni tutto è diventato più difficile. Ogni giorno sento
parlare dell´Islam, della religione, degli arabi. Lo scorso anno sono scoppiati
drammaticamente i problemi sociali in Francia ed il governo non si è rivelato
all'altezza, non ha trovato le risposte adeguate».
Perché è andato in un campo di addestramento alle armi in
Pakistan, per un caso?
«No,
non è stato il caso, ma c'era una possibilità su un milione che io finissi lì.
Un mio vicino c'era stato e conosceva alcune persone. Questo incontro è stato
determinato dal caso. Non sono comunque partito per ragioni religiose, ma per
passione, animato da un desiderio di avventura, per viaggiare».
Nel suo libro ricorda di aver incontrato in Pakistan
algerini, kuwaitiani, militanti dei gruppi armati...
«Loro
non si definivano in questo modo, c'era gente che voleva andare a combattere in
Cecenia o in Kashmir, altri ancora erano lì solamente per addestrarsi, non si
definivano membri di gruppi armati, ma persone che volevano aiutare i musulmani
nel mondo o andare in Cecenia a battersi contro i russi».
Quando è stato catturato?
«Sono
riuscito a fuggire dall'Afghanistan e a raggiungere il Pakistan anche se le
frontiere erano state sigillate. Siamo arrivati in un villaggio e abbiamo
parlato con i capi, abbiamo detto che era nostra intenzione raggiungere
l'ambasciata, poiché eravamo senza documenti. Ci hanno detto che avrebbero
parlato con le autorità, abbiamo aspettato un giorno e poi è arrivata la polizia
pakistana. Ci hanno portati in prigione, all'indomani sono arrivate alcune
persone che si sono presentate come personale dell'ONU e che ci hanno
interrogato. Poi sono giunti gli americani che ci hanno riportato in
Afghanistan».
E poi a Guantánamo?
«Un
mese dopo ci hanno trasportati in aereo a Guantánamo. Il volo è durato 23 ore.
Ci hanno imposto una sorta di "scafandro", come quello che si usa per le
immersioni in mare, ci hanno drogati e non potevamo fare alcun movimento,
venivamo sbattutti contro la parete dell'aereo».
Come vi hanno drogato?
«Ci hanno fatto ingoiare pastiglie e ci hanno punto. Dopo 23 ore di "tortura
aerea" siamo arrivati a Guantánamo».
Può descrivere una
giornata a Guantánamo?
«Sono
stato rinchiuso in una gabbia grande un metro e ottanta per due, c'erano una
specie di bagno, un piccolo lavabo, e una lastra di ferro per dormire. Uscivamo
dalla gabbia due volte alla settimana, per 15 minuti. Su un lato del container
erano allineate 24 gabbie, con un detenuto ciascuna, altrettante sull'altro.
Vestivamo una tuta arancione. Il problema è che non c'è nulla da fare ed il
rischio di impazzire è molto concreto. Abbiamo chiesto qualcosa da leggere, ma
ci lasciavano solo il Corano. Cercavo di fare alcuni esercizi fisici, cercavo di
fare qualcosa, e, soprattutto di evitare di pensare perché si finisce per uscire
di senno».
Non le hanno mai detto quali erano le accuse contro di
lei?
«Mai».
Lei scrive di aver
incontrato a Guantánamo persone che conosceva...
«Ho
incontrato persone che avevo conosciuto in Afghanistan durante la fuga, ma parlo
solo francese e non era facile comunicare. Ho dovuto imparare l'arabo. Ciò è
essenziale, perché se non si comunica con nessuno si diventa pazzi. La
sopravvivenza passa per la comunicazione. A Guantámano si dice che «un secondo
trascorso è un secondo guadagnato». E se passa una giornata si ripete: meno male
che oggi non sono impazzito».
È stato torturato?
«Come
tutti: mi hanno insultato e maltrattato. Vi sono due livelli di tortura. Quando
gli americani sospettano che un detenuto possegga informazioni, che qualcuno sia
reticente, viene studiato "un programma". Entrano in scena psicologi,
psichiatri, medici e persone che fanno gli interrogatori e che possono usare
qualsiasi mezzo. Anche se un detenuto non sa nulla, ma è sospettato di
nascondere qualcosa, viene torturato e, alla fine, la vittima finisce per dire
che sa qualcosa, oppure impazzisce. Conosco un detenuto che è stato sottoposto a
questo "programma" per sei mesi; in questo periodo non ha potuto dormire ed è
stato torturato. Quando l'ho rivisto era diventato praticamente sordo e cieco.
Io non ho subito questo trattamento perché gli americani si sono convinti che
non avevo alcuna informazione e poi sono francese».
Perché è stato liberato?
«In
Francia la mia famiglia ed i miei amici hanno dato vita ad un forte movimento di
protesta; le autorità francesi ed europee hanno agito nei confronti di quelle
americane, si sono mobilitati alcuni deputati e, quando a Parigi hanno visto che
venivano liberati alcuni inglesi, hanno deciso di fare qualcosa per noi».
In Europa è forte il timore di attentati, sono scoppiate
le bombe a Madrid e Londra. Che cosa vorrebbe dire alle persone che hanno paura
quando salgono su un autobus o vanno in metropolitana?
«Che
la gente deve mobilitarsi ed indirizzare la propria azione contro i veri nemici,
non contro tutti i musulmani. Spesso sento dire "l'Islam, è colpa dei
musulmani..", ma non è questo il problema. Per affrontare i problemi sociali
contemporanei non si deve sbagliare obiettivo».
Oggi come vive?
«Lavoro, ho ripreso il normale ritmo di vita di un normale cittadino».
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