Se un tema grave e serio come l'assetto
costituzionale degli Stati Uniti d'America potesse essere riassunto
in una sola battuta, si potrebbe dire che ieri la Corte Suprema ha
detto all'amministrazione Bush: «Ci hai stufato». Il caso in
discussione (Hamdan contro Rumsfeld) riguardava addirittura
l'autista yemenita di Bin Laden e quindi la Corte avrebbe facilmente
potuto cercare scappatoie tecniche per giustificare la detenzione
del prigioniero a Guantanamo; la
maggioranza, invece, ha deciso che il problema non riguardava né la
prigione in territorio cubano, né la sorte di Hamdan, bensì i limiti
costituzionali dell'azione di governo, tema di ben altra importanza,
com'è ovvio. Così impostata la questione, la Corte ha respinto le
tesi della Casa Bianca con una chiarezza ancora maggiore di quanto
avesse fatto nel 2004, in occasione di un'altra sentenza sulla
«guerra al terrorismo». Già allora, la corte aveva ribadito che «il
sistema di checks and balances sarebbe rovesciato se un
cittadino non potesse contestare in tribunale le ragioni fattuali
della sua detenzione semplicemente perché il governo rifiuta di
discuterne».
La Corte ha mostrato una forte irritazione verso l'amministrazione
per il goffo tentativo di toglierle il caso dalle mani: l'anno
scorso Bush aveva fatto approvare una leggina ad hoc, il Detainee
Treatment Act, che stabiliva che nessuna corte federale dovesse
avere giurisdizione sugli eventuali ricorsi di detenuti a Guantanamo. Con la sentenza di
ieri, i giudici si sono limitati a ribadire un principio in vigore
negli Stati Uniti fin dall'inizio dell'Ottocento: è la Corte suprema
a decidere i limiti delle proprie competenze, e non gli altri due
rami del governo (come si sa fin dalla sentenza Marbury vs.
Madison, del 1803).
Il problema al centro della sentenza Hamdan vs. Rumsfeld era
se le corti militari designate dal Pentagono per giudicare i
prigionieri a Guantanamo fossero
costituzionali. L'amministrazione Bush aveva invocato una sentenza
della Corte Suprema del 1942 per giustificare le detenzioni: Ex
parte Quirin, che riguardava il caso di otto sabotatori tedeschi
infiltrati sul territorio degli Stati Uniti e condannati a morte per
spionaggio da un tribunale militare. In quel caso la condanna per
impiccagione fu eseguita.
La Corte ha trovato questo precedente legale troppo fragile per
giustificare la detenzione a tempo indeterminato e il processo al di
fuori del normale sistema giudiziario, sottolineando che «nessun
atto del Congresso ha autorizzato le corti militari» che l'esecutivo
voleva mettere in piedi. La sentenza redatta dal giudice Stevens
riconosce che corti militari sono esistite in varie occasioni nella
lunga storia dei conflitti in cui gli Stati Uniti sono stati
impegnati, ma queste corti hanno sempre operato secondo regole
certe, che si ispiravano ai principi costituzionali sempre validi,
mentre «le regole previste per la corte incaricata del processo ad
Hamdan» sono palesemente «illegali».
Si sa che ai detenuti di Guantanamo
il governo americano rifiuta di concedere lo status di prigionieri
di guerra e il trattamento previsto dalla convenzione di Ginevra. È
quindi particolarmente importante che la Corte abbia esplicitamente
fatto riferimento alla «convenzione di Ginevra firmata nel 1949»
dagli Stati Uniti come a un testo che l'amministrazione
semplicemente «non può» rifiutarsi di applicare perché questo eccede
i suoi poteri costituzionali, tanto più in assenza di un voto del
Congresso.
La sentenza di ieri, quindi, più che difendere i diritti di un
detenuto di origine araba, mette fine alla pretesa di sopprimere le
garanzie costituzionali e aumentare a dismisura il potere della
Presidenza perseguito dall'amministrazione Bush-Cheney in nome della
«guerra al terrorismo». La sua importanza sta nel ripristinare la
normalità dei controlli costituzionali che l'11 settembre 2001 aveva
fatto dimenticare per quasi cinque anni. Più che di Guantanamo, si è discusso nel
massimo organo costituzionale della democrazia americana di
divisione dei poteri. L'assalto alla magistratura, condito con una
retorica particolarmente bellicosa, è stato fermato proprio dalla
Corte Suprema più conservatrice degli ultimi due secoli.
Si noti che le due nomine recenti compiute da Bush junior alla corte
suprema, due giudici vicini alla sua filosofia come Samuel Alito e
il nuovo presidente John Roberts, non hanno ribaltato l'equilibrio
che la Corte aveva trovato negli ultimi cinque anni, con tre giudici
nominati da amministrazioni repubblicane (Stevens, Souter e Kennedy)
che ormai votano regolarmente assieme ai progressisti. La
maggioranza di cinque voti, almeno fino a che resterà in salute John
Paul Stevens che ha 86 anni, continuerà dunque a difendere le
libertà civili, dall'Alaska fino a Guantanamo.