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domenica 15 gennaio 2006
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ANTONIO MOSCATO
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Un guerrigliero che dopo
la vittoria ha voluto tornare nella Sierra e restarci, con il suo caffé e le sue
api, rifiutando tanto l'esercito quanto la politica. Un incontro con Polo Torres
Negli anni
Novanta - i terribili anni del
Periodo especial
- ho passato lunghi periodi a Niquero, una cittadina dell'oriente cubano
passata alla storia per essere stato il luogo dello sbarco del «Granma». C'ero
arrivato per un progetto di solidarietà del circolo Arci Metromondo di Milano,
ma avevo finito per innamorarmi del paese e restare lì anche nei periodi morti
tra l'arrivo delle delegazioni e delle attrezzature mediche spedite. Ero l'unico
delle molte decine di compagni italiani a conoscere bene lo spagnolo (e a saper
gestire i non facili rapporti con le autorità locali), sicché da semplice
interprete ero diventato un personaggio importante. Ogni tanto qualcuno mi
proponeva un incontro con qualche veterano della guerriglia del 1956-1958. Ce
n'erano parecchi, rimasti o tornati presto a fare i contadini, e ogni tanto
scendevano dalla Sierra in paese per comprare qualcosa. Ma non avevano la
loquacità e la voglia di raccontare di certi nostri vecchi partigiani: quel
periodo sembrava loro lontanissimo, e forse i loro ricordi non erano così
interessanti. Preferivano casomai parlare della fede religiosa che li aveva
spinti ad appartarsi dall'esercito e dalla vita politica negli anni in cui era
stata proclamata l'incompatibilità tra l'appartenenza al partito e quella a una
qualsiasi chiesa (nella Sierra i cattolici erano pochi, mentre proliferavano
sette millenaristiche o sincretiste). Un divieto assurdo, perché dimenticava che
i contadini che avevano combattuto in quegli anni erano quasi tutti religiosi
(magari si proteggevano dalle pallottole con un collare di denti di cane, o con
erbe benedette...).
Un «Virgilio» personale
Comunque, dopo alcune esperienze deludenti, avevo cominciato a rifiutare altri
incontri dello stesso genere. Ma a Niquero avevo un mio personale «Virgilio»,
Alberto Coterón, un giornalista della piccola stazione radio locale. Lo chiamavo
così perché mi aveva aiutato a muovermi nella complessa realtà del paese,
spiegandomi le regole non scritte della vita sociale e informandomi con
franchezza sugli scontri sotterranei tra i vari dirigenti locali, che osservava
attentamente senza prendervi parte. Grazie a lui avevo capito che cosa
intendevano i cubani col detto: «pueblo chico, infierno grande»...
Quando il mio «Virgilio» seppe della mia delusione per quel che si poteva
ricavare da quelle modeste testimonianze, mi propose di organizzare un viaggio
all'interno della Sierra Maestra per raggiungere Zoila, la bellissima mulatta
che era stata per un anno la compagna del Che e di cui per molto tempo si era
evitato di parlare, e il leggendario Polo Torres,
el capitán descalzo
di cui Guevara aveva parlato in diverse pagine dei suoi
Passaggi della guerra rivoluzionaria.
In quegli anni non era facile trovare un auto funzionante e soprattutto la
benzina o il gasolio, ma ce la facemmo, approfittando dei viaggi per visitare
con emozione parecchi dei luoghi in cui il Che aveva vissuto in quei due anni e
le due sedi successive del comando della sua colonna guerrigliera. I primi
tentativi di incontrare Zoila fallirono, perché era in montagna a raccogliere
legna o per altro, ma alla fine trovammo Polo.
Fu una sorpresa straordinaria. Si avvicinava già ai settant'anni ma era
vigorosissimo e soprattutto brillante e malizioso. Sorpreso che un italiano
sapesse della sua esistenza dagli scritti del Che e volesse capire perché aveva
lasciato l'esercito ribelle poco dopo la vittoria pur avendo ottenuto la nomina
a capitano (nei primi anni, prima che i consiglieri sovietici reintroducessero
tutta una complessa gerarchia militare tradizionale, c'erano solo due gradi:
capitano e comandante).
Tutti mi avevano detto che aveva rifiutato l'incarico per una sua
incompatibilità con le scarpe; di fatto c'era qualche fondamento: continuava ad
andare scalzo ed anzi quando lo si fotografava si divertiva a mettere in mostra
in primo piano i suoi lunghi piedi nudi. Presto però Polo si era sciolto (anche
per la fiducia riposta nel mio accompagnatore) e aveva spiegato che c'erano
anche altre ragioni.
Certo pesava in primo luogo la nostalgia dei profumi e della limpidezza
dell'aria della Sierra. Quando il Che lo autorizza a tornare per quindici giorni
in permesso per rivedere la famiglia, appena arriva al suo podere dove aveva
ospitato e nutrito tanti guerriglieri, e sua moglie Juana aveva curato i feriti,
tra cui lo stesso Guevara, trova «i campi di caffé fioriti» che gli sembrano «un
gran lenzuolo che copriva le colline». Aveva promesso al Che e a Camilo
Cienfuegos che sarebbe tornato ma dice: «Quel paesaggio mi abbagliò e confermai
la mia decisione di non ritornare».
Ma c'era dell'altro. Vedeva gli altri guerriglieri entrati nell'esercito che
passavano «tutto il tempo marciando» e non capiva le ragioni di quelle
esercitazioni («sembra che non si rendano conto che c'è del lavoro da fare»). Il
Che aveva manifestato comprensione per il suo atteggiamento e gli aveva
proposto, se proprio non poteva accettare di restare nell'esercito, di fermarsi
all'Avana per studiare, o per dirigere un'azienda agricola vicino alla capitale.
Ma perché studiare ancora, si era domandato, visto che quello che sapeva «era
sufficiente per mantenere la famiglia»?
All'Avana, che non gli piace perché «è un posto tanto affollato», in realtà
ritorna quando è necessario. Ad esempio già per il 26 luglio del 1959 (la prima
commemorazione dell'assalto alla Caserma Moncada dopo la vittoria) organizza una
«colonna» di 300 contadini della sua zona per andare nella capitale a premere
sul governo (che aveva ancora al suo interno molti esponenti moderati) per
accelerare la riforma agraria.
Quelle prime interviste a Polo, dopo anni in cui era rimasto un po' al margine,
hanno innescato un processo molto interessante. Prima di tutto egli si è messo a
disposizione delle delegazioni di solidarietà che giungevano a Niquero
dall'Italia, guidandoli nella Sierra e organizzando per loro pranzi frugali con
lo stesso «menù» con cui oltre trenta anni prima sua moglie Juana aveva sfamato
il Che. Poi, a mano a mano, ha messo in piedi un «Club por los caminos del Che»
che ha portato sulla Sierra visitatori stranieri e giovani cubani (lo stesso
Polo ha scalato per 140 volte la cima più alta della Sierra, il
Pico Turquino, uno dei luoghi storici della rivoluzione).
Successivamente, con l'aiuto della figlia Nieves e di un giornalista
appassionato di storia locale, René Hernández, le sue interviste e quelle a
Juana (una vera forza della natura, vivace e spesso molto critica verso il
marito) sono state montate mettendole a confronto con le testimonianze dei libri
del Che o di Almeida. Ne è venuto fuori un insolito libro, apparso presso Lampi
di stampa, sia in spagnolo che in italiano: «Il Che, la rivoluzione,
l'amore nel racconto di Polo e Juana», che ora Polo, accompagnato dalla
figlia e da René Hernández, è venuto a presentare in Italia. Un libro
straordinario, senza nulla di retorico o stancamente celebrativo. In primo luogo
ricostruisce i lunghi mesi in cui la guerriglia era stata in difficoltà,
assediata, braccata. Come lo stesso Guevara, Polo non nasconde di aver avuto
paura e di essersi dimenticato una volta di custodire i suoi prigionieri durante
i mitragliamenti dagli aerei.
Si direbbe che a non aver mai paura sia solo Juana, che quando vede il marito in
difficoltà tira fuori la grinta e ... la pistola. Accade durante i due anni
successivi alla vittoria, quando sulla Sierra si formano diverse sacche di
resistenza armata. Polo e Juana descrivono efficacemente l'operato e la
composizione di quelle formazioni: spesso i
bandidos
non erano controrivoluzionari mandati da Miami, ma compaesani che avevano
combattuto contro Batista, a volte perfino col grado di capitano.
Visite sgradite
Polo quando riceveva sgradite visite da costoro, che volevano arruolarlo o
confiscargli le armi, cercava di dialogare pazientemente, tenendo conto dei
rapporti di forza: i due vivevano con i figli piccoli in una zona poco abitata,
e d'altra parte perfino i loro fratelli non li sostenevano; al contrario Juana
compariva all'improvviso puntando la pistola sui
bandidos, che insultava pesantemente chiamandoli vili, perché
durante la lotta contro Batista erano rimasti nella riserva e ora si facevano
forti con loro. Un atteggiamento coraggiosissimo ma anche molto pericoloso.
Il libro non si riduce a questo, che pure sarebbe già importante, ma fornisce un
quadro esauriente della vita di due
guajiros
cubani nel corso di vari decenni. Polo infatti ricostruisce con orgoglio
il suo lavoro di contadino, che riusciva a fornire allo stato ortaggi e latte e
che, nonostante l'obbligo di lavorare - come tutti i piccoli agricoltori
indipendenti - due o tre giorni a settimana sulle terre statali, aveva trovato
il tempo per catturare alcuni sciami di api selvatiche, avviando un'apicoltura
razionale che gli consentiva di consegnare allo stato grandi quantità di miele
in un anno. Con amarezza tuttavia ricorda che i furti e i sabotaggi (insieme a
incaute fumigazioni di insetticidi con gli aerei) distrussero in poco tempo gran
parte dei 200 alveari.
Altri accenni fa spesso Juana alla scarsa coscienza di molti compaesani, nella
prima fase, ma anche in diversi momenti successivi. Anche per questo il libro
può essere davvero utile: infatti è molto pericolosa la visione apologetica e
acritica di certi «innamorati» dell'isola che la rappresentano come
«monolitica», unanime, tutta cosciente, mentre ogni voce di dissenso o di
critica viene liquidata attribuendola al «tradimento prezzolato» di mercenari
«al soldo delle mafie di Miami». Per amare Cuba, bisogna conoscerla com'è, non
immaginarla in base ai nostri desideri.