Sembra che dopo aver provato per più di 4
decenni ad ammazzarlo o farlo cadere con tutti i mezzi, adesso che si appresta -
in agosto - a compiere gli 80 anni di età e si avvicina ai 50 di potere, si
siano rassegnati ad aspettare che il tempo faccia il suo corso e concentrarsi al
«dopo-Fidel». Ma senza stare con le mani in mano (quando mai?). Il presidente
Bush ha dato l'altro ieri sera il suo visto al piano messo della Comision para
la asistencia a una Cuba libre. Si tratta di un programma di clamorosa
interferenza negli affari interni di un altro paese: basterebbe pensare a quali
sarebbero le reazioni se una intromissione così sfacciata fosse il venezuelano
Hugo Chavez a osarla. Ma in nome della «democrazia» tutto è permesso.
Il piano, oltre allo scontato «rafforzamento delle sanzioni» in atto, prevede 80
milioni di dollari nei prossimi due anni e poi 20 milioni l'anno a seguire.
L'obiettivo è di aiutare «il popolo cubano» nella sua «transizione dal controllo
repressivo del regime di Castro alla libertà e a una democrazia genuina». Ma
dopo la morte di Fidel e per impedire la successione annunciata del fratello
Raul.
80 milioni di dollari che dovrebbero servire a garantire l'appoggio «ai cubani
che vogliono il cambio» e l' «assistenza prioritaria a un governo che organizzi
elezioni multipartitiche libere e imparziali». Garanzie a pioggia: irrobustire
la società civile e i «movimenti democratici», rompere il blocco informativo,
impedire l'uso della repressione, rafforzare «un'informazione non censurata»,
contare «sull'amicizia e l'aiuto concreto del governo degli Stati uniti», fino
ad «acqua, cibo, combustibile, equipaggiamento medico, recupero economico,
miglioramento della rete elettrica» e via aiutando. Il tutto condito
dall'appoggio Usa alla partecipazione di altri «paesi amici», che ora devono
fare i conti con la legge Helmes-Burton che prevede sanzioni a chi vuole fare
affari con Cuba. Il finale è da antologia: l'elaborazione di «liste di sbirri»
con i nomi dei «violatori dei diritti umani». Per George Bush e Caleb McCarry,
il responsabile per Cuba al dipartimento di Stato, questo programma è anche la
prova che l'amministrazione di Washington, rispetto a Cuba, «è attivamente
impegnata nel cambio e non sta solo aspettando il cambio».
La Rice, presentando il rapporto, ha detto che gli impegni contenuti nel
programma sono diretti ad aiutare «i coraggiosi leader dell'opposizione a Cuba».
In realtà ancora una volta sembra che gli americani siano più interessati ai
propri interessi che ai destini dell'isola e dei cubani. Una interferenza così
grossolana può andare forse bene ai settori più fanaticamente filo-Usa
dell'opposizione, come Marta Beatriz Roque. Ma gli altri, più raziocinanti,
capiscono e temono che il nuovo show cubano di Washington serva da «pretesto»
(pretesto?) per un giro di vite contro il dissenso. «Credo che questo piano sia
controproducente e che noi cubani dobbiamo risolvere i nostri problemi da soli e
senza interferenze», ha detto Oscar Espinosa Chepe, oppositore di tendenza
socialdemocratica. Idem Oswaldo Payà, democristiano. Una intromissione così
grossolanamente neo-colonialista rischia di riattizzare il tradizionale (e
motivato) nazionalismo anti-yankee cubano anche fra chi magari non ama Fidel.
Gli americani hanno motivo di essere ansiosi. Il blocco economico che dura da
più di 40 anni, oltre che osceno, è anche stupido e si scontra sempre più con
gli interessi del business Usa che si sente tagliato fuori rispetto alla
concorrenza del resto del mondo (ad esempio il petrolio, che è pressoché certo
stia per essere trovato nel golfo del Messico).
L'aspetto più preoccupante è l'appello «agli alleati e amici a unirsi
nell'appoggio alla libertà per il popolo cubano». Circolano voci di riunioni
fatte o da fare a Washington o Praga soprattutto con i paesi dell'est europeo,
divenuti i più fervorosi alleati della «democrazia d'esportazione»
all'americana. Paesi come la Repubblica ceca, l'Ungheria, la Polonia, la
Slovenia, la Lituania sono sulle barricate a fianco (e per conto) degli Usa e
dei loro piani su Cuba. Si è parlato anche di una propensione del nuovo governo
italiano in questo senso. Ma il sottosegretario agli esteri per l'America
latina, Donato di Santo, smentisce ogni partecipazione agli incontri di
Washington e Praga, «noi non siamo vicini alla linea ceca-polacca ma a quella
franco-spagnola», più ragionevole e meno ottusa, dice.