Cosa resta dello «spirito di Bandung» 50
anni dopo? Devono essere in tanti a chiederselo al XIV vertice del Movimento dei
non allineati che si è aperto ieri all'Avana. A mezzo secolo dal primo incontro
dei paesi afroasiatici e a 9 lustri dalla sua fondazione come organismo
internazionale nel '61 a Belgrado, il bilancio è quello di una scatola vuota.
Una parte di bei discorsi, una dose di terzomondismo, uno spriz di attacchi a
Stati uniti e Israele, tante buone intenzioni: miscelare tutto e versare in
bicchieri ghiacciati il cocktail del nulla. Ma adesso lo scenario è cambiato.
Non solo non esiste più la Guerra fredda, ma il mondo è diventato unipolare. E
se non è più una «terza via» quella da cercare, questi forum che non hanno il
crisma del salotto buono, possono, chissà, quantomeno indicare strade
alternative a quella ormai un po' consumata dei G-8 e dei suoi corollari
governati da europei e americani.
Per adesso tutta l'attenzione è sul lider maximo. Per sapere se e quando
apparirà. Se effettivamente ci sarà al pranzo in agenda venerdì prossimo, se sta
bene e si farà fotografare in pubblico. Notiziole un po' da gossip per un
vertice che riunisce 116 paesi e una cinquantina di presidenti o capi di
governo. Cosa bolle in pentola bisognerà scoprirlo oltre le buone intenzioni
espresse nella conferenza stampa dal capo della diplomazia cubana Pérez Roque,
che rappresenta il paese ospitante e quello che, per tre anni, avrà la
presidenza del Movimento. Cuba infatti porta già a casa una vittoria e Roque per
ora ha lasciato da parte i toni forti: dice che i principi del movimento sono
più attuali che mai e che il mondo ha bisogno del diritto internazionale, di
autodeterminazione e indipendenza, di un commercio giusto e della pace. Come
dargli torto? E non attacca, come forse tanti si aspettavano, il diavolo
stellestrisce. Dice anzi che l'appuntamento dell'Avana non è contro nessun paese
in particolare anche se, precisa, «alzerà la voce» contro le guerre preventive.
Accanto ai paesi ci sono i forum regionali e gli organismi internazionali, sorti
come funghi nel campo sempre più aperto, benché controllato soprattutto da un
solo paese, dell'arena internazionale. E non solo le attempate Nazioni Unite
(per cui comunque si scomoda Kofi Annan), la Lega Araba o l'Unione Africana ma,
ad esempio, il giovane e potente Gruppo dei 77, quello, per intendersi, che ha
dato battaglia e filo da torcere dentro l'Organizzazione mondiale del commercio,
quella dove si entra solo a pagamento. Con biglietto salato e approvazione del
FMI. Il piatto forte degli attori «secondari», quelli che stan fuori dal G-8,
che devono far la fila al WTO o i cui bilanci pendono dalle decisioni del Fondo,
è tutto qui. India e Cina per cominciare. La prima da socio fondatore, la
seconda da «osservatore» stabile e molto speciale visto che, da Bandung in poi,
gli occhi a mandorla non hanno mai smesso di osservare. Eppoi l'iraniano
Ahmadinejad per il quale ogni palco è una buona scena mediatica o il roboante
Hugo Chavez che, tanto per metterlo in chiaro, il Fidel ammalato ha già ricevuto
tre volte.
Cina e India, i due veri colossi, stanno probabilmente osservando con attenzione
gli sviluppi delle varie grandi e piccole arene in cui possono esercitare la
loro influenza. Facendo buoni affari. Manmohan Singh intanto, il premier di
Nuova Delhi, prima che all'Avana è andato a Brasilia, paese non membro ma di
sicuro rilievo. È la prima visita bilaterale di un premier indiano in Brasile in
38 anni dopo che ci andò nientemeno che il Mahatma nel '68. Un disinteresse che
adesso non paga più. C'è in ballo un accordo sullo sviluppo delle energie
alternative (etanolo) e su quelle tradizionali con Petrobras, mentre
l'interscambio commerciale, che viaggiava sui 200 milioni di dollari alla fine
degli anni '90, è già volato oltre i tre miliardi e conta di superare i dieci
nei prossimi 3-5 anni, dice la stampa indiana.
L'America latina si presenta ancora divisa. L'Argentina è paese membro dal '73
ma, da allora, non ha fatto molto. E il Cile, che pure è della partita, si
limita a una delegazione e a qualche distinguo. Sono i venezuelani e i boliviani
quelli che, con Cuba, ci credono di più. Se son rose fioriranno. L'Africa c'è
ma, come accade quasi sempre, rischia di non vedersi affatto. Forse spera in un
effetto trascinamento da parte di due continenti, l'America e l'Asia, che stanno
tirando la carretta. Locomotiva su cui puntare? Chissà che non temano, gli
africani, di dover fare i conti con un nuovo neo-colonialismo economico che, nel
continente nero, sta avanzando invasivamente a colpi di accordi commerciali con
il sigillo del Celeste Impero.
La Cina guarda sorniona. Ogni passo che compromette l'assetto unipolare del
mondo gioca a suo favore. Come sempre, senza sbilanciarsi troppo, si limita per
ora a sorridere. Il tempo gioca dalla sua parte.
*Lettera22