A prima vista nulla di nuovo, anzi la
solita litania che non nasconde l'incessante volontà di interfenza. L'assistente
segretario di Stato americano, Thomas Shannon, parlando a Washington con i
giornalisti, ha rinnovato «l'offerta» già fatta 4 anni fa dall'amministrazione
Usa di togliere il blocco economico che dura da 44 anni, «se» il governo cubano
«cominciasse un'apertura politica» ed avviasse «certe riforme». Le solite:
liberare i detenuti politici (che Amnesty indica più o meno in 300), garantire i
diritti umani (che secondo Washington non sono certo quelli sociali ma solo
quelli di andare ogni 4 anni a votare), consentire i partititi politici e aprire
«una strada verso le elezioni».
In questo caso, ha detto Shannon che è l'uomo del dipartimento di Stato che si
occupa dell'America latina, l'amministrazione Bush consulterebbe il Congresso
per vedere se è possibile revocare l'embargo. Perché, fra le altre oscenità del
blocco, il presidente, ammesso che lo volesse, non ha il potere di farlo
autonomamente e solo il Congresso può prendere la decisione.
La generosa «offerta» americana non ha nulla di nuovo rispetto a quella fatta
nel 2002 ed è identica nella sostanza a quella di ognuna della dieci
amministrazioni che si sono succedute alla Casa bianca dal '59.
Tuttavia se quella di Shannon è la solita minestra riscaldata, ovviamente
respinta come in tutte le altre occasioni dall'Avana, il suo interesse sta nel
«timing», ossia nel momento in cui è stata ripresentata. Sembra quasi voler
rispondere alla lunga intervista di Raul Castro al Granma di qualche giorno fa
in cui a sua volta ribadiva la disponibilità di Cuba a distendere i rapporti con
Washington «se» Bush e i suoi cesseranno di interferire nella politica interna
cubana.
Shannon ha voluto rispondere al Raul che a volte viene dipinto come più
«pragmatico» rispetto Fidel... e allo stesso Raul in altre occasioni descritto
come rigidamente «ortodosso»? Quasi a smentire la sua temeraria «offerta»,
l'uomo messo da Bush e dalla signora Rice a vigilare sull'America latina e su
quell'autentica ossessione americana che da quasi mezzo secolo è Cuba, ha poi
precisato che Raul è solo «l'erede apparente», senza il carisma del fratello, e
che dalla successione, più della «transizione» auspicata a Washington (e Miami),
si attende solo «una sorta di arrangiamento per la divisione del potere», ora
concentrato sulla personalità prorompente e irripetibile di Fidel.
La lettura dell'«offerta» di Shannon non sta tanto - o niente - nella sua
«offerta» ma tutta nel «timing». Tre settimane dopo l'intervento chirurgico a
Fidel e della delega dei poteri al fratello e altri esponenti della
nomenclatura. Dopo aver constatato con mano che le speranze di un'uscita di
scena definitiva e immediata del lider maximo - celebrata ancora una volta con
troppo anticipo e troppa euforia dai poveracci di Miami - erano fatue. Che non
c'è stato il panico ma la «normalità». E dopo aver insieme auspicato e temuto
chissà quale collasso del regime - stile est-europeo - o chissà quale esodo di
massa verso Miami. Shannon forse ha solo voluto inviare il messaggio che
Washington non cercherà di fomentare in modo troppo grossolano la crisi di Cuba.
Anche se poi la fomenta ogni giorno da 44 anni e ancor di più la fomenta da
quando, in luglio, Bush ha stanziato il suo «piano per la transizione alla
democrazia» di Cuba dotato di 80 milioni di dollari per gli oppositori e «la
società civile».