Dissidenti? No, mercenari!
intervista a Hernando Calvo Ospina
giornalista colombiano collaboratore di Le Monde Diplomatique. Autore del
libro "Dissidenti o mercenari?"
11/01/2006 a cura di Catia Funari e Stefania Russo
(Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, circolo di Roma)
C.F.:
Che tipo di difficoltà ha dovuto affrontare per scrivere il suo libro
“Dissidenti o mercenari”, mi riferisco ai suoi contatti con certi ambienti,
necessari per le sue ricerche e per ottenere informazioni utili al suo libro?
H.C.O.: Io ho sempre dichiarato di essere un uomo di
sinistra, che il mio cuore batte a sinistra, proprio per questo molte persone si
sono chieste come sia potuto andare a Miami e vivere accanto a questa gente.
Comunque non è la prima volta che faccio questo tipo di lavoro, fa parte della
mia coscienza politica e umana, ho voluto farlo e per questo ho dovuto cambiare
il mio linguaggio, dimenticare la parola compagni, alcuni termini politici
tipici delle persone di sinistra. È molto facile entrare in quel tipo di
ambiente a Miami, perché quando queste persone si sentono al centro
dell’attenzione ti accolgono senza problemi. Io andavo in veste di giornalista
della stampa europea, li trattavo amichevolmente e condividevo le loro idee
politiche e i loro punti di vista, tutto questo ha molto facilitato il mio
lavoro.
C.F.: L’idea di frequentare
questi terroristi mi ha molto colpito. Leggendo il libro ho immaginato voi
compagni insieme a quelle persone. Non deve essere stato facile.
H.C.O.: Sì, effettivamente era molto angosciante e
faticoso mantenere quella finzione e far credere che la pensassi come loro, io
che sono per la vita. Stare con loro e frequentare luoghi come per esempio la
sede della FNCA (Fondazione Nazionale Cubano-Americana) o andare nei loro campi
di addestramento è stato molto pesante. Come anche essere consapevole del fatto
che se vieni scoperto sai quello che ti succederebbe… Giornalista o meno sai che
distruggerebbero la tua vita. Era molto stressante perché dovevo stare attento a
non mettere in pericolo le persone che collaboravano con me. Non sono quasi mai
andato in albergo, ero quasi sempre ospite in case e se la gente di Miami mi
avesse scoperto anche i miei collaboratori avrebbero passato dei guai. Per
questo era importante prendere sempre degli appuntamenti in luoghi lontani dai
miei compagni. Per fortuna negli Stati Uniti la tecnologia funziona benino e i
cellulari funzionano molto bene. Insomma la cosa più pesante era usare il loro
linguaggio, affermare che Fidel Castro fosse il peggio del peggio e cercare di
proteggere i miei compagni che hanno collaborato con me e che ancora oggi vivono
a Miami e per fortuna stanno bene.
S.R.: Dopo la pubblicazione del
libro, che sicuramente è una denuncia contro il terrorismo e l’attività
controrivoluzionaria, in ogni caso un libro a favore di Cuba, qual è stata la
reazione nel suo ambiente di lavoro, del mondo del giornalismo.
H.C.O.: Il libro è
uscito in un momento in cui, se oggi esiste un rifiuto per la posizione di Cuba,
alla fine degli anni ’90, questo era molto più forte. Il libro è già stato
tradotto in dieci lingue. La grande stampa francese lo ha accolto come parte
della propaganda castrista, dicevano che il libro era stato finanziato da Fidel
Castro, che io ero un agente di Fidel Castro e in due conferenze, una a Madrid e
l’altra nel sud della Francia, alcune donne mi hanno insultato, aggredito e
picchiato. Naturalmente l’unico modo di difendermi è stato correre. Sono ormai
una persona bollata, non ho alcuna possibilità di lavorare con i mezzi di
informazione francesi. Collaboro con Le Monde Diplomatique che rispetto molto e
credo sia l’unico mezzo d’informazione che mi rispetta, ma non ho alcun rapporto
di lavoro con nessun tipo di mezzo d’informazione, è impossibile. Per fortuna ho
mia moglie che mi aiuta economicamente e comunque il mio libro ha venduto, certo
non come quelli che scrivono contro Cuba, ma sicuramente posso andare a dormire
con la coscienza a posto perché la mia attività è coerente con quello in cui
credo e non mi vendo per un piatto di minestra.
C.F.: Nel mondo esistono molti
comitati a favore della liberazione dei
Cinque cubani,
lei crede che la loro attività aiuterà a far avere un processo più obiettivo,
non di parte?
H.C.O.: Io penso che la decisione del Tribunale di
Atlanta sia una conseguenza del lavoro di formichine di questi comitati. Perché
è un lavoro di formichine? Perché nessun mezzo d’informazione importante lo ha
trattato a parte Le Monde Diplomatique e The New York Times, e quest’ultimo a
pagamento. Ma al di là dell’attività dei comitati questo tema è totalmente
sconosciuto al grande pubblico, credo che il 99% della gente non conosca questa
vicenda. Credo che la perseveranza del popolo cubano nel non perdere nessuno
spazio utile a denunciare la situazione dei Cinque compagni cubani, qualunque
sia il Paese, ha dato come risultato la sentenza di Atlanta e quindi la
possibilità di ottenere una vera revisione del caso. Il punto è che le leggi
nordamericane, con un qualunque altro caso, in virtù della sentenza del
Tribunale di Atlanta, avrebbero già dovuto rivederlo, ma siccome gli accusati
sono cubani, stanno pagando per questo, perché essere cubani e stare con la
rivoluzione cubana è considerato un peccato. In ogni caso penso che il lavoro di
solidarietà con i Cinque che tutti voi state facendo darà dei risultati come è
appena successo con la decisione di Atlanta.
C.F.: Qual è la situazione oggi
in Colombia?
H.C.O.: Della Colombia si ha solo l’immagine di un
territorio di narcotrafficanti, l’origine di tutti i mali. Ma la verità è che i
narcotrafficanti sono solo una parte di una problematica molto più vasta. I
narcotrafficanti fanno ormai parte del sistema. I narcotrafficanti di oggi sono
i contrabbandieri di caffé dei primi anni del XX secolo. Oggi, le persone più
ricche della Colombia sono i grandi contrabbandieri di caffé di una volta. Il
vero problema della Colombia è la lotta di classe, che si scontra con uno Stato
storicamente violento come pochi, discriminatorio come pochi e che è stato molto
bravo nel determinare chi fosse il nemico interno. Già nel 1930, l’oligarchia
colombiana aveva persino anticipato lo stesso Pentagono americano nella messa a
punto di strategie contro i ribelli, per reprimere gli operai che avevano appena
cominciato a formare i primi sindacati e partiti di sinistra. Ed è stato il
primo Paese in America latina ad unirsi alla campagna statunitense contro gli
oppositori degli anni ’60 per arrestare la rivoluzione cubana in America latina.
Questa è una storia che si è voluta coprire con la questione del narcotraffico.
Si dice che la violenza in Colombia provenga soprattutto dal narcotraffico, ma è
falso. La violenza prodotta dal narcotraffico non raggiunge il 10%. Neanche nel
suo periodo più alto, quando ancora era vivo Pablo Escobar, ha mai superato il
15% dei delitti in Colombia. La maggior parte degli omicidi in Colombia oggi
sono dovuti alla politica, alla violenza che esercita lo Stato contro i
sindacati, contro le organizzazioni delle donne, contro qualunque tipo di
organizzazione che si proponga un programma diverso da quello prestabilito. La
questione Colombia è grave perché nella pratica è il principale problema di
sicurezza che hanno gli Stati Uniti. Se la Colombia si destabilizza, si
destabilizza l’intera America latina. Ma questo gli Stati Uniti non lo
capiscono. Come non si preoccupano del fatto che se destabilizzano Chávez e la
rivoluzione bolivariana, automaticamente anche la Colombia salterebbe per aria.
La guerra contro i ribelli in Colombia è poca cosa, non è una “narcoguerriglia”
come racconta la stampa internazionale. C’è da dire che sulle coltivazioni di
coca dei narcotrafficanti lo Stato applica imposte altissime. Certo la
guerriglia potrebbe anche dire al contadino di non coltivare più la terra con la
coca e di piantare patate o banane, ma il contadino prima di tutto deve poter
mangiare per sopravvivere. Al contadino non gliene importa un bel niente se gli
Stati Uniti o l’Europa fanno usa di coca. Loro sanno solo che agli americani
piace molto la cocaina. La guerriglia dunque non può proporre loro
un’alternativa perché non è in grado di offrirgliela. Se questa esiste e la
guerriglia la proponesse agli Stati Uniti e allo stato colombiano, come ha già
fatto, dovrebbero cambiare moltissime cose all’interno del Paese; gli Stati
Uniti dovrebbero smetterla di essere così protezionisti con il loro commercio,
insomma bisognerebbe creare le condizioni per un commercio più giusto, più equo,
ma tutto questo non conviene. Tra l’altro è impossibile che il narcotraffico si
esaurisca, primo perché negli USA ci sono milioni di persone tossicodipendenti,
che hanno bisogno della cocaina e secondo perché se in questo preciso momento il
mercato della cocaina si fermasse la borsa di New York e quella di Miami
crollerebbero, soprattutto quella di Miami. Solo il 5% della vendita della droga
rientra in Colombia, l’altro 95% rimane negli Stati Uniti e una piccolissima
parte in Europa. Ogni volta che si organizza un’operazione repressiva sulla coca
in Colombia, negli Stati Uniti il suo prezzo sale alle stelle e questo vuol dire
maggiori entrate per le banche. Tra l’altro storicamente gli Stati Uniti hanno
utilizzato la droga per scatenare molte guerre. La guerra in Vietnam è stata
finanziata con il traffico d’oppio, la guerra contro i sandinisti con il
traffico di cocaina, è così che i cartelli di droga in Colombia hanno acquistato
grandezza. Pablo Escobar non è mai stato ricercato perché era un
narcotrafficante, ma perché un giorno disse alla CIA: “Non sono più disposto a
darvi cocaina perché facciate la guerra ai sandinisti”, e perché cominciò ad
attaccare l’oligarchia colombiana. E l’oligarchia in Colombia è sacra, non si
tocca. Dunque in Colombia è in atto uno scontro tra due poteri, quello dello
Stato tremendamente corrotto - di una oligarchia estremamente rigida, che non
lascia alcuna possibilità ad altre forze di esistere in alternativa ai partiti
tradizionali - e le forze guerrigliere che hanno un potere reale e che offrono
un’alternativa a un certo numero di persone. L’oligarchia colombiana e gli Stati
Uniti possono porre fine a questa guerra. Se il governo colombiano desse ai
contadini e ai ceti più poveri quello che Cuba possedeva nel momento peggiore
del “periodo speciale”, quando non aveva quasi nulla da mangiare, la guerriglia
colombiana avrebbe seri problemi nel continuare ad esistere. Perché anche se a
Cuba vi erano difficoltà per mangiare, esisteva comunque l’educazione, la salute
e un bicchiere di latte per i bambini. Ed è proprio per ottenere queste cose che
il popolo in Colombia si scontra come anche nella maggior parte delle regioni
dell’America latina. Se gli Stati Uniti non lo capiscono e non si decidono ad
assegnare anche solo il 5% del prodotto interno lordo alla spesa sociale, in
modo che tutti possano vivere decentemente, la Colombia si destabilizzerà e se
la Colombia si destabilizza anche quasi tutto il resto dell’America latina lo
farà. Ma purtroppo gli Stati Uniti sono ciechi, non credo che la situazione
migliorerà.
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