Ritorno a Miami


 

Marco D'Eramo  22/5/2006


Torniamo a Miami ma, dopo Michael Moore, questa volta con un italiano, Marco D'Eramo scrittore e giornalista del Manifesto che conosce a fondo gli Stati uniti e che, in questa occasione, attraversa attentamente gli States del profondo sud per approdare in Florida. Un altro punto di vista che, e per fortuna, segna una distanza abissale dal punto di vista dei tanti reduci della visione di "Natale a Miami", ultima squallida opera del duo De Sica-Boldi: buona lettura.
R.F.

 

 

MARCO D'ERAMO
VIA DAL VENTO
Viaggio nel profondo sud degli Stati Uniti
Il manifesto-manifesto libri, settembre 2004, Euro 6.90
(si ringrazia la casa Editrice, per l'autorizzazione alla pubblicazione)

Cap.VII. Florida (<< Lo stato al sole>>) da pag. 121 a 131

 

 

2. LA CITTÀ CHE DEVE TUTTO A FIDEL CASTRO

 

MIAMI. A vederlo così bonario, impiegatizio, non diresti mai di essere inciampato nella più losca storia degli anni '80. Siamo seduti al 24-esimo piano di un grattacielo in downtown Miami nella sala delle conferenze del Beacon Council, "la Organización Oficial para el Desarollo Economico del Condado Miami-Dade", dice il biglietto da visita di Mario J. Sacasa, che ne è vicepresidente per lo sviluppo internazionale e che parla un inglese non perfetto. Calvo, a metà dei cinquanta, viso liscio paffuto, sembra il prototipo del bancario di mezz' età. Dal nome, suppongo che sia cubano: "No, sono nicaraguense, mia moglie è cubana-americana". Quando però gli chiedo come era Miami negli anni '70, mi risponde che lui l'ha conosciuta solo a fine anni '70: "I miei mi avevano mandato a studiare a Washington, perché allora l'università a Miami era scadente - oggi invece è ottima, ma allora era così - e poi Miami era considerata una città viziosa, distraente. Dopo aver studiato economia a Washington tornai in Nicaragua a lavorare al finanziamento dell'immobiliare. Poi però nel 1979 in Nicaragua ci fu la rivoluzione e io venni negli Stati uniti: mi trasferii a Miami dove lavoravo in banca.
Volevo fare qualcosa per il mio paese, ma non mi permisero di combattere, mi convinsero che le mie qualifiche professionali mi rendevano indispensabile alla gestione. Così per sette anni ho fatto il chief/financial officier, il responsabile finanziario della resistenza: le assicuro che lì ho dovuto imparare tutto un nuovo mestiere. Nel 1990 c'è stato il cambio di governo e Violeta Chamorro mi ha nominato console generale del Nicaragua qui a Miami. Quando nel 1996 è cambiato il governo, sono entrato nel settore privato, poi mi hanno chiamato qui dove posso mettere a frutto le mie conoscenze in America centrale".
Anche se non usa mai i termini "sandinista" e contra, quello che mi sta dicendo il serafico Mario Sacasa è che lui è stato il cassiere dei contras, della guerriglia antisandinista finanziata negli anni '80 anche con il narcotraffico, che fu al centro dello scandalo cosiddetto "lran-contras", addossato a un solo colonnello, Oliver North, ma che in realtà fu una delle pagine più nere della presidenza Reagan.
Sacasa non è un'eccezione, anzi è un esponente tipico di questa città che già negli anni '90 la studiosa Saskia Sassen portava ad esempio di "nuova città globale", cioè di centro urbano in cui si concentrano, e si accentrano, e i servizi e i posti di comando dell'economia globale delocalizzata. In Le città nell'economia globale Sassen scriveva nel 1993: "Sin dagli anni '80 un numero crescente di imprese statunitensi, europee e asiatiche ha aperto uffici a Miami (...): la Eastman Kodak ha trasferito la sua direzione generale per l'America latina da Rochester (New York) a Miami, imitata da Hewlett-Packard che vi si è trasferita da Città del Messico. Imprese e banche di Germania, Francia, Italia, Corea del Sud, Hong Kong e Giappone, per citarne solo alcune, vi hanno aperto filiali e vi hanno insediato molto personale di alto livello". La lista di Sassen andrebbe completata con altre illustri multinazionali che hanno situato qui la propria direzione per 1'America latina: i costruttori d'auto Volkswagen, Fiat, Porsche; nella telefonia ed elettronica Ericsson e Samsung; le compagnie aeree American Airlines, Lufthansa e United Airlines; le banche Abn Ambro, Crèdit Lyonnais e Bank of Tokyo-Mitsubishi; nell' high tech Ibm, Apple, Oracle, Canon, Polaroid; nei corrieri Federal Express e United Parcel Service; nella moda The Gap, Cartier e Dior; e poi alla rinfusa Airbus, Att, Telefonica International Usa Gm, Caterpillar... Per non parlare della Cia che ha qui il suo quartier generale regionale.
Dall' aeroporto di Miami partono ogni giorno più voli diretti per 1'America latina che da tutti gli altri aeroporti statunitensi messi insieme. E tutta 1'America latina è connessa a Internet attraverso Miami.
Insomma Miami ha spodestato tutte le altre città latinoamericane nel diventare la capitale de facto dell'America latina, e questa realtà è stata interiorizzata dagli stessi latino-americani:
in un sondaggio pubblicato nel maggio del 2003 dalla rivista América Economía, il 74% dei 1.600 dirigenti intervistati ha scelto Miami come migliore piazza per dirigere affari in America latina. "L'immagine che di Miami divulgano i media è talmente legata all'immigrazione e alla droga che questo fenomeno è passato pressoché inosservato" (Sassen).
D'altronde è proprio per cercare di capire meglio come Miami è diventata una città globale che sono andato a parlare con Sacasa: "Il fenomeno è cominciato negli anni '80 ma il giro di boa si è avuto nel 1994 con il Summit of the Americas".
Secondo Sassen il nuovo ruolo di Miami è dovuto essenzialmente all'accelerarsi della globalizzazione e all'aprirsi dell'America latina all'economia globale. Questi due fattori non vanno trascurati, e però hanno interagito con altre forze nel plasmare questa straordinaria metropoli che - da Miami a Miami Beach a Key Biscane - si specchia nei suoi bracci di mare interni dove le architetture di audaci grattacieli svettano tra villini di vegetazione tropicale: Miami è giusto sopra il tropico, alla stessa latitudine di Luxor in Egitto o di Karachi in Pakistan. (A un italiano, la distinzione tra Miami e Miami Beach, o tra Daytona e Daytona Beach fa pensare al rapporto che corre tra Pietrasanta e Marina di Pietrasanta o tra Silvi e Silvi Marina, Riace e Riace Marina. In realtà, proprio perché la costa della Florida è straordinariamente piatta e memore della sua natura paludosa, spesso il litorale viene replicato da una lunga isola che si snoda al di là di un braccio di mare più o meno stretto. Così un ponte collega Daytona e Daytona Beach; per arrivare da Pensacola a Pensacola Beach bisogna percorrere un ponte di 12 km, arrivare a un'isola che si chiama Gulf Breeze, passare un altro ponte e infine arrivare a Pensacola Beach, lunga lingua di terra che si snoda per decine e decine di chilometri. Lo stesso avviene a Miami, dove si attraversa un braccio di mare di circa tre km prima di arrivare a un gruppo di 15 isolette che bracci di mare più stretti separano da Miami Beach, isola lunga 15 e larga al massimo 3 km).
Non immagineresti mai che 104 anni fa (nel 1890) Miami aveva solo 1.500 abitanti. Solo sei anni dopo, nel 1896, la linea ferroviaria fu prolungata da Palm Beach a Miami e sorse qui il suo primo albergo, il Palm Royal Resort. L'impulso più forte alla crescita venne però dalla guerra con la Spagna (1898) che diede inizio all'occupazione di Cuba (già allora!). E comunque ancora nel 1920 Miami era una striminzita cittadina di 30.000 abitanti. Va detto che il clima afoso e il suolo acquitrinoso avevano da sempre ostacolato lo sfruttamento di questa grande penisola maledetta dalla malaria.
Perciò il primo, decisivo fattore di sviluppo è stato il Ddt che ha sradicato la zanzara anofele (1'altra innovazione è stata l'aria condizionata). La bonifica della malaria ha fatto sì che durante la seconda guerra mondiale l'esercito degli Stati uniti usasse quest'area per installarvi i sanatori per i feriti di guerra: in Italia è inimmaginabile quanto la geografia umana degli Usa sia plasmata dalle guerre e dall'esercito, nonostante questa nazione non sia mai stata invasa. I sanatori militari procurarono alle spiagge bianche e alle palme di Miami un'incredibile pubblicità su scala nazionale. Grazie anche al basso costo della vita e alle bassissime tasse, cominciarono ad affluire nella zona i pensionati del nord. Una delle ragioni per cui la Contea Miami-Dade, che include i 27 comuni della grande Miami, per decenni ha votato democratico, risiedeva nelle falangi di pensionati ebrei newyorkesi.
Ma il principale fattore umano di sviluppo è stato il flusso di rifugiati ed esiliati cubani anticastristi.
La Florida ha (dati del 2002) 16,3 milioni di abitanti, di cui 3 milioni erano ispanici, e tra loro 916.000 cubani. La grande area metropolitana di Miami-Fort Lauderdale ha 4 milioni di abitanti, di cui 1,705 ispanici e 758.000 cubani. L'area metropolitana della Grande Miami ha 2,3 milioni di abitanti di cui 1.4 ispanici e 655.000 cubani. E la città di Miami in senso stretto ha 362.000 abitanti di cui 238.000 ispanici. Cioè, gli ispanici rappresentano il 18,2% della popolazione della Florida, il43,1 % di quella dell'area metropolitana Miami-Fort Lauderdale, il 60,1 % della Grande Miami e il 65,8% della città di Miami. E più dei tre quarti dei cubani di tutta la Florida sono concentrati nell'area metropolitana di Miami.
A differenza dell'emigrazione messicana in California (altra area a forte presenza ispanica), la diaspora cubana, composta essenzialmente di borghesi, era caratterizzata da alti livelli professionali. Il risultato è che, nel corso degli anni, si è costituita a Miami una classe dirigente perfettamente bilingue che ha potuto mettere le sue qualifiche al servizio dei centri dell'economia globale che venivano a insediarsi qui. Un esempio è l'industria sanitaria: la presenza di un gran numero di bravi medici cubani ha fatto sì che Miami divenisse la meta privilegiata del turismo medico latino-americano: è qui che la ricca borghesia di lì viene a farsi curare (quella meno ricca va all'Avana per cui la medicina costituisce una delle fonti principali di valuta estera pregiata).
Per Miami è stato possibile divenire una città globale solo grazie alla presenza di un ceto medio-alto perfettamente bilingue e culturalmente omogeneo con la regione che le multinazionali venivano a dirigere da qui. Questo processo si è intensificato a ogni nuova tappa della politica imperiale americana: negli anni '80 è stata la volta dei nicaraguensi, poi dei colombiani per la guerra civile a Bogotà, e ora dei venezuelani per Chavez a Caracas: è incredibile come questa città incorpori la politica imperiale americana che è per così dire embedded nella metropoli e che trasuda fuori quando meno te lo aspetti, proprio come con Mario Sacasa. Con il succedersi delle rivoluzioni popolari, delle repressioni e dei golpe filoamericani, la composizione etnica di Miami si è stratificata: oltre a Little Havana e Little Haiti, a nord, nell'area di Aventura trovi gli ebrei, i nicaraguensi si concentrano a Sweetwater e i venezuelani a Eldorado.
Ma vi è un ultimo fattore che ha contribuito alla crescita di Miami, anche se la sua classe dirigente non ama farselo ricordare, ed è il narcotraffico. In un celebre articolo Eric Hobsbawm sostenne la tesi che l'unico commercio contemporaneo paragonabile a quello delle spezie (delle droghe) nel Medio Evo e nell'Età Moderna è il traffico della droga, perché è l'unico che mette in campo una quantità comparabile di capitali e che produce tassi di profitto così abnormi (del 10.000 o 100.000 per cento) che rendono accettabili i rischi - allora di naufragio, oggi di arresto. Corollario: oggi il traffico di droga sta costruendo imperi, visto che su quello della spezie si basò il potere della Repubblica veneziana e della Compagnia delle Indie Olandesi.
Non sono disponibili cifre, e quando mi rivolgo alla Florida International Bankers Association, la sua presidentessa Patricia (Pat) Roth mi spergiura che i controlli sul riciclaggio sono così drastici che è quasi impossibile che i narcodollari siano presenti a Miami. Sia consentito però dubitarne: per il porto di Miami transitano non solo 4 milioni di croceristi 1'anno, ma anche 1'80% della cocaina che entra negli Stati Uniti. Nel 1998 il professore francese Pierre Salema valutava a 32 miliardi di dollari il mercato Usa della cocaina (queste stime vanno prese con le pinze). Se tanto mi dà tanto, un qualche miliardino di dollari deve restare incollato nelle tasche di Miami. D'altronde è leggendaria la corruzione dei funzionari pubblici della contea Miami-Dade.
L'esito delle multinazionali, del turismo, del narcotraffico e dei centroamericani è che Miami è la più internazionale delle città americane, forse anche più di New York. La presenza europea è cresciuta esponenzialmente. Key Biscane è diventata un'isola a forte densità di spagnoli (di Spagna). Trovi così una risposta alla domanda che ti assillava fin da quando fu ucciso davanti alla porta della sua villa, di fronte alla spiaggia: "Ma che diavolo ci faceva Gianni Versace qui, invece di stare a New York, Parigi o Londra?". La risposta mi viene da un tavolo vicino a quello a cui mangio un sushi a Miami Beach. Due signore sulla ventina avanzata parlano in inglese bevendo vino bianco, e una delle due ha 1'accento francese: "... allora ho deciso di mollare tutto a Parigi e di venire qui a Miami..." A dirlo 30 anni fa saresti stato preso per matto.

 

3. MIAMI, CHE PROVA TANTA SIMPATIA PER IL DENARO

 

MIAMI. La traiettoria di vita del sindaco della città di Miami, Manuel A. Diaz, è esemplare della nuova classe dirigente cubana a Miami. Nato nel 1954 all'Avana da una famiglia anticastrista, emigrò nel 1961 a Miami dove visse in un appartamentino di Little Havana, ammassato con cugini e zii. "A quell'epoca Miami non aveva il dinamismo che c'è ora. Stava appena cominciando a gareggiare per il ruolo di città globale con città come Houston, New Orleans o Atlanta, ma adesso chiaramente Miami le ha distanziate tutte. E ora Miami è assurta a rango di città mondiale a livello di altre più conosciute, come Tokyo, Londra, New York o Parigi" mi dice in un'intervista telefonica che sono riuscito a ottenere dopo un lungo pressing con il suo addetto stampa Alejandro Miyar.
A scuola Manny Diaz imparò il baseball e nel 1967 la sua squadra, Cuba Libre, vinse il campionato. Poi studiò al liceo dei gesuiti pagandosi gli studi lavorando da portiere e bidello, e con lo sport: fu infatti capitano delle squadre di baseball, basketball e football e fu votato atleta dell'anno nell'ultima classe liceale.
Già allora presiedeva varie associazioni studentesche. All'università studiò legge e divenne dirigente del caucus democratico di lingua spagnola. Ora è socio di due studi legali: Diaz & O'Naghten e Berkowitz & Diaz,; è stato vicepresidente di una ditta immobiliare che gestiva 250.000 metri quadri di uffici e immobili per 300 milioni di dollari. Sposato, ha quattro figli (il maggiore di 27 anni) e un nipote.
La coalizione che lo ha eletto sindaco includeva l'Urban League, la League of Women Voters, la Naacp (National association for the advancement of colored people), il partito democratico, il partito repubblicano "e altri. .".
Diaz ammette senza problemi che il Fiorire di Miami è un'involontaria conseguenza del castrismo: "Penso che la forte presenza di cubani è servita da catalizzatore per creare la città che esiste oggi e per attuare la presenza internazionale che ora abbiamo. A me piace chiamare Miami la 'città neutrale', perché così tanta gente da tanti posti diversi può venire a Miami e trovarsi a proprio agio, sentirsi a casa".
C'è da chiedersi però quanto cubani siano questi cubani-americani, e quanti di loro tornerebbero a stabilirsi all'Avana il giorno in cui il regime di Fidel Castro dovesse finire: "Penso che la nostra comunità abbia radici profonde in Miami. I nostri figli e i nostri nipoti stanno crescendo qui. Non prevedo un esodo massiccio. Certo molti tornerebbero a visitare Cuba, molti aprirebbero imprese, o comprerebbero casa, e qualcuno forse tornerebbe a stabilircisi, ma a mio parere qui la presenza cubana sarà sempre estremamente forte".
Nel descrivere il proprio lavoro Diaz ostenta quell'entusiasmo così frequente negli Usa che non sai mai se è sincero o di facciata: "Essere sindaco di una città come Miami è davvero eccitante, perché Miami è così piena di diversità, così viva. Oltre il 60% dei suoi cittadini sono nati all'estero. Se ti piace la diversità, questo è il posto in cui vivere. A me piacciono gli altri popoli, le altre culture e a Miami ce n'è un sacco. Ed è per questo che sta diventando una città davvero globale". Altrettanto idilliaco è il sindaco sui rapporti tra i diversi gruppi ispanici (venezuelani, messicani, nicaraguensi...) che notoriamente non si amano affatto: "I rapporti sono ottimi, migliori di ovunque altrove. È per questo che parlo di 'città neutrale'. Argentini, colombiani, cubani, ci facciamo affidamento reciprocamente".
Diaz non si scompone neanche quando gli chiedo se corrisponde a verità lo stereotipo - diffuso nel mondo - che descrive la Florida come una terra di palme, aranci, pensionati e narcotrafficanti: "Certo, le palme ci sono. Ma il punto è che Miami è un centro economico vitalissimo che sta diventando l'Hong Kong dell'emisfero occidentale. Gli altri sono problemi del passato, che ci sono stati ma che abbiamo superato". .
Manny Diaz si vede come il profeta di un nuovo modello di convivenza interetnica, "anche se la geografia conta. E questo modello non è facile da esportare perché devono essere presenti insieme tutti i fattori che vi hanno contribuito. Anche se penso che Miami sia il nuovo volto dell'America e penso che altre città diventeranno più simili a Miami e adatteranno il modello di Miami in termini di diversità e di popoli diversi che vivono insieme".
Dopo questo ritratto paradisiaco di Miami, sembra di sentir descrivere tutta un'altra città quando parla Jim Mullin, direttore del settimanale alternativo NewsTimes: "Questa è la metropoli più povera, oltre che più latina, degli Stati Uniti". La sua è una visione davvero "alternativa". Dietro il luccichio della città globale sede di tante multinazionali, snodo delle crociere di lusso, meta di tanto turismo, si staglia il fantasma della miseria, degli indigenti che vagano senza nulla sperare nell'entroterra, lontani dalle spiagge e dagli alberghi, in vie dalle case diroccate, scandite da banchi di pegni e negozi di liquori blindati come Fort Knox. Le ispaniche dai tratti maya, che si riparano con un ombrello dal sole cocente, in chilometrica attesa di autobus che non arrivano mai.
La città è poverissima perché la classe media va via, emigra lontano a Fort Lauderdale, a Palm Beach, perché qui non trova buona istruzione per i figli: i ricchi mandano i loro rampolli nelle scuole private e quelle pubbliche sono degradate: "Questa è una città dicotomica, in cui è duro vivere se sei povero, è amichevole solo con i ricchi". La povertà però, sostiene Mullin, dipende soprattutto dall'ondata di nuovi immigrati, "molto diversi dalla prima ondata di oligarchi cubani fuggiti dal Castrismo: la loro immigrazione era stata una storia di tremendo successo", sono loro che hanno dato alla città quel personale altamente qualificato e ispanofono che l'ha resa la capitale nordamericana dell'America Latina: qui vivono molti dei latino-americani più ricchi di tutto il continente. Ma la maggioranza è fatta di nuovi immigrati senza qualifiche né specializzazioni, mera mano d'opera che vende a prezzo stracciato il proprio lavoro precario. Tra i nuovi immigrati, quelli che stanno più in fondo alla scala sociale, o in testa alla gerarchia del disprezzo, sono gli haitiani seguiti dai dominicani, e le loro sono le enclaves di povertà paragonabili a quelle nella loro isola da cui sono fuggiti. .
"1 problemi di Miami sono dolori di giovinezza", dice Mullin: "un secolo fa questa metropoli era un paesetto minuscolo e ancora nel 1960 fa era una sonnacchiosa cittadina del vecchio sud, rurale, povero e razzista. Non assomigliava in niente alla Miami di oggi che è una realtà a parte e non ha più nulla a che vedere con il Sud degli stati confinanti, Georgia o Alabama". Il vicepresidente della camera di commercio della Grande Miami, Mario Sacasa, mi diceva addirittura che solo dieci anni fa Miami Beach era un centro di vecchi pensionati, mentre oggi ha una vita notturna incredibile e una popolazione giovane e cosmopolita.

"Da questa estrema giovinezza, dice Mullin, discendono varie conseguenze. Per esempio Miami non ha 'grandi famiglie', come ne hanno Boston, New York Chicago, famiglie che vivono nella città da 6 o anche 8 generazioni e che quindi hanno un atteggiamento protettivo verso di essa. Per risolvere i suoi problemi la città avrà bisogno ancora di un secolo e di un altro paio di rivoluzioni".
In una metropoli in cui tutti si riempiono la bocca di multiculturalismo post-moderno e in inni alla diversità, Mullin mi mostra l'altra faccia della diversità: "Miami è la balcanizzazione dell'America latina. Non è solo che vivono in quartieri separati come Little Haiti, è proprio la struttura che è addirittura tribale: ogni gruppo etnico sta per conto suo, fa affidamento solo ai propri rappresentanti. Da qui un senso di isolamento, la mancanza di una visione globale della metropoli: non c'è un'idea unificante. Tante piccole tattiche col paraocchi solo in vista del proprio ristretto interesse tribale".
Mullin attribuisce alla giovinezza anche un'altra caratteristica: Miami sarà sì un gigante economico, ma è di sicuro un nano culturale. È quasi impossibile trovare una libreria decente:
la produzione di film o di libri è bassissima e di bassa qualità.
L'offerta culturale nel suo insieme è penosa, la varietà di cinema, teatri, concerti è quella di una città provinciale. Se Miami pensa a sé stessa come a una Parigi e una Londra (così dice il suo sindaco), certo che ha da trottare parecchio. "Ma anche questo semi deserto culturale è dovuto alla giovinezza, all'immigrazione, alla povertà. Qui la stragrande maggioranza ha un solo obiettivo: sopravvivere. Non ha il tempo di pensare ad altro. E probabilmente ci sono librerie più ricche in spagnolo che in inglese." .
Per tutti gli anni '90 sono usciti articoli pesantissimi sulla corruzione politica di Miami: nel 1998 circa 300 funzionari della contea e del comune risultavano incriminati per malversazioni, bustarelle, appropri azioni indebite... Ma, secondo Mullin, Miami non è più corrotta di Philadelphia o di Chicago: il narcotraffico non rappresenta più un vero problema. "Certo c'è ancora tanto riciclaggio di denaro sporco, ma questa è una forma di crimine astratta, che non tocca la vita di tutti i giorni.
La forma più diffusa è quella del dirottamento di fondi pubblici verso i propri amici privati. Qui hanno capito che il modo più rapido per ascendere è fare politica, entrare in posti di comando e rendere ricchi i propri amici. Che restituiranno il favore".
Ma alla fine neanche Mullin può esimersi dall'inno alla diversità: "Non credere però che io odi Miami. lo la amo. Per chi fa il mio mestiere - se il giornalismo è capire e descrivere una realtà -, allora questo è il luogo più eccitante d'America in cui fare il nostro lavoro, dove tutto cambia più velocemente con le contraddizioni più lancinanti".