Stati Uniti e Cuba:

un grande successo e un piccolo fallimento
Sovranità e democrazia per un altro mondo possibile
 

08/01/2006 tratto da www.radiocittaperta.it

Se decidi di parlare a favore di Cuba, anche se non vuoi, devi rassegnarti ad una disparità di base. Il fatto che Cuba debba non solo difendersi ma anche giustificarsi continuamente, a gran voce, già la rende un corpo estraneo, un artificio della natura, un’anomalia stravagante o criminale. Pertanto il modello che si contrappone al suo e che la combatte con tutti i suoi procedimenti violenti e illegali fa apparire naturale, legittimo e giustificato pretendere che l’isola debba rendergli conto.


Io non difenderò Cuba. Non richiamerò l’attenzione su quegli aspetti che la rendono manifestamente superiore: la sua capacità di affrontare catastrofi con pochi mezzi, dimostrando che la migliore organizzazione di protezione civile è la preoccupazione per l’uomo; il suo straordinario sistema sanitario elogiato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la rende la massima esportatrice mondiale di cure mediche; il suo sistema d’insegnamento pubblico senza eguali, modello per altri Paesi dell’America latina; o gli straordinari successi nella ricerca e nello sport, riconosciuti da organismi internazionali e ribaditi più volte dagli amici di Cuba. Tutto questo non riesce a penetrare la coscienza dei nostri cittadini e non serve a convalidare la rivoluzione, come le carceri segrete o i bombardamenti al fosforo bianco degli USA non riescono ad invalidare la presunta democrazia di quel Paese. La verità su Cuba suona sempre retorica o propagandistica; la verità sugli Stati Uniti è sempre accidentale, marginale, insignificante, irrilevante.


Parlerò male di Cuba.

 

Parlerò male di Cuba, in primo luogo perché parlare bene non serve a nulla. Parlerò male di Cuba anche perché gli amici della rivoluzione non devono nascondere quelle ombre che nell’isola vengono discusse e denunciate apertamente. Ma soprattutto parlerò male di Cuba perché forse attraverso ciò che va male possiamo individuare la logica che non riusciamo a scorgere in ciò che va bene. Invece di esaminare quegli aspetti che rendono il sistema cubano manifestamente superiore, mi concentrerò su alcuni problemi che l’isola ha in comune con il sistema capitalistico, per cercare così di scoprire se quei problemi dipendono dalle stesse cause o rivelano modelli e strutture differenti.


Per ragioni di tempo, mi limiterò a tre problemi che Cuba ha in comune con gli USA o la Spagna, o con qualsiasi altro rappresentante, centrale o periferico, del capitalismo mondiale.


Prendiamo per esempio un problema attuale e inquietante della società cubana: la “sprofessionalizzazione del lavoro”. In effetti succede sempre più spesso che professionisti molto qualificati, professori, ricercatori, medici, svolgano attività molto al di sotto della loro formazione, con la conseguente frustrazione personale e spreco collettivo. Nell’ambito delle difficoltà quotidiane dell’isola e nel quadro delle contraddizioni che la maledizione biblica del turismo ha introdotto in essa, specialisti e universitari rinunciano alla disciplina che liberamente avevano scelto, per guadagnare di più con un lavoro ripetitivo, pesante e non qualificato. Per esempio, per la prima volta dal 1959, il governo cubano deve affrontare un deficit di maestri, oggi insufficienti a soddisfare le esigenze del sistema educativo rivoluzionario, che richiede due professori per aula. Se i tassisti e i camerieri cubani sono i più colti del mondo, si deve non soltanto al fatto che i tassisti e i camerieri cubani (per non parlare dei contadini) studiano e leggono molto nel loro tempo libero, ma anche al fatto che secondo un cliché disgraziatamente fondato, gli ingegneri e gli storici spesso diventano facchini di hotel. L’eliminazione del dollaro statunitense nell’economia, l’aumento del salario minimo e la tanto sperata ripresa dell’economia cubana, senza dubbio aiuteranno ad evitare in futuro questa continua spesa di risorse, ma intanto le cose stanno così.
Come sappiamo, anche in Spagna questo problema è comune. Nel nostro Paese è addirittura un problema endemico, infatti una percentuale sempre crescente di giovani finisce per fare un lavoro diverso da quello per cui si erano preparati. Tutti consociamo personalmente decine di giovani, alcuni dei quali primi all’Università, che stanno lavorando come operatori della Telefonia, o come camerieri del Burger King. Tutti conosciamo personalmente decine di giovani che non possono fare il lavoro per cui hanno studiato e per cui sono portati, e che sono costretti ad accettare, se non vogliono morire di fame, un lavoro ripetitivo, pesante, alienante e senza qualifiche, in cui tra l’altro investono moltissime ore guadagnando molto poco.
Cuba e la Spagna, pur avendo questo problema in comune, posseggono due diverse logiche.
Come ho scritto nel libro “Cuba 2005” (edito da Hiru), al mio ritorno da un viaggio all’Avana incontrai un amico spagnolo, biologo di formazione, ricercatore, che si accorava quando sentiva parlare della situazione a Cuba, cioè che lì un facchino di hotel prende più di uno scienziato. Proprio in quei giorni, questo mio amico stava partecipando ad una protesta di 400 ricercatori spagnoli, che denunciavano la politica di ricerca nel nostro Paese e in generale in Europa, dove i contratti precari e discontinui, dopo alcuni anni, tagliano fuori dal mondo della ricerca molti dei nostri giovani scienziati, che a quel punto si trovano costretti a lavorare come operatori di Telefonia o camerieri del Burger King. Il mio amico che compativa i cubani, non si rendeva conto fino a che punto la sua situazione fosse peggiore di quella dei suoi colleghi isolani. A Cuba gli scienziati non cercano lavoro: possono esercitare la professione per cui hanno studiato, gratificando il loro spirito e l’umanità, e solo se ne hanno voglia, per ragioni precise – condivisibili o meno – abbandonano il loro campo per svolgere un’attività più degradante ma meglio remunerata. Un cubano è libero – anche secondo il nostro limitato e subdolo concetto di libertà – di scegliere il suo lavoro a seconda della sua formazione o delle sue ambizioni spirituali, o di mettere da parte le sue inquietudini intellettuali e i suoi sforzi umanistici, optando per un lavoro che gli faccia guadagnare di più.
Il caso di uno scienziato spagnolo è esattamente opposto: non gli si permette di servire la sua anima, il suo Paese e l’umanità svolgendo il lavoro per cui si è preparato. Anzi, lo si costringe ad accettare uno stipendio molto basso con un impiego avvilente. Il problema a Cuba sta fondamentalmente nelle risorse economiche. Senza dubbio sarebbe bello che i suoi scienziati, come il resto dei suoi cittadini, raggiungessero un maggiore livello di benessere materiale, ma a Cuba non si costringe nessuno a lavorare come facchino se ci si è formati per diventare neuro-biologi e ci si accontenta di guadagnare molto poco (in cambio di rispetto, riconoscimento e prestigio che da noi vanno sempre associati al denaro; cosicché un calciatore gode di maggiore prestigio di un premio Nobel, o un facchino – a condizione che sia più ricco – di un neuro-biologo). In Spagna invece, il problema è l’enorme sequestro di risorse umane da parte di un sistema di accumulo indifferente – perché non differenzia un vaccino da una bomba – che seleziona i programmi di ricerche e costringe gli scienziati in esubero a lavorare come facchini di hotel. Si potrebbe dire che a Cuba le cose funzionino come se i facchini di hotel venissero risarciti per il fatto di aver rinunciato a un lavoro prestigioso e di svolgerne uno penoso e insoddisfacente. Ma non è così. In ogni caso questa strana pecca, a mio giudizio, propone per il futuro un buon modello di compensazioni. Si potrebbe dire che la Spagna, al contrario, impedisca ai suoi cittadini di fare il lavoro per cui sono stati formati e in più li punisce diminuendogli lo stipendio. E ancora più terribile, è il dimostrare che questa differenza di modello è accompagnata da una corrispondente differenza mentale. Non è curioso che il mio amico spagnolo biologo, che protestava perché non poteva dedicarsi alla biologia, invece di invidiare i suoi colleghi cubani perché loro possono davvero fare ricerca, li compatisse perché guadagnavano meno di un facchino? Come se uno dovesse diventare biologo per guadagnare di più. A questo si riduce - sotto la pressa del capitalismo - il modello della scienza universale e disinteressata invocato nella nostra tradizione: i giovani spagnoli che finiscono per fare i facchini di hotel hanno provato a fare i biologi per la stessa ragione per cui alcuni biologi cubani hanno scelto di fare i facchini, cioè per avere più soldi. Nel nostro Paese, condannati a questo orizzonte mentale, non ci si può meravigliare che molti di loro, per evitare la Telefonia o il Burger King, accettino le tangenti delle industrie petrolifere per manipolare dossier sul cambiamento climatico o quelli delle industrie farmaceutiche per occultare l’inutilità o addirittura il pericolsità di alcuni farmaci.


Passiamo adesso ad un altro problema: la casa. Cuba attualmente si trova di fronte ad una grave crisi degli alloggi. È vero che al contrario della Spagna, nessuno dorme per strada, ma molto spesso succede che i giovani non possono lasciare la casa dei loro genitori e che fino a tre generazioni devono dividere uno spazio che diventa sempre più angusto e asfissiante, con il conseguente peggioramento della convivenza e del benessere psicologico. La causa di questo problema è così terribile quanto semplice: mancano case e mancano risorse per costruirle. In questo contesto, la soluzione della ridistribuzione degli spazi in funzione dei cambiamenti demografici e familiari, inevitabilmente crea conflitti personali e difficoltà amministrative.
Ma in Spagna questo problema non ci è familiare?

I giovani spagnoli vanno via di casa sempre più tardi; sempre più spesso in una stessa casa si ritrovano tre generazioni – nonno, padre, figlio – dividendo lo stesso spazio, in un ambiente di contrasto e mancanza di ossigeno per tutti. Ma in questo caso, a parità di sintomi, la causa del problema è più difficile da capire. A Cuba mancano le case e non ci sono risorse per costruirne di altre. Invece i giovani spagnoli non possono accedere ad una casa proprio perché le case abbondano. Dal 1991, il parco case in Spagna è cresciuto del 21%, mentre la popolazione è cresciuta appena del 5%. Il nostro Paese possiede la più grande percentuale di case inabitate d’Europa: il numero di case vuote in tutto lo Stato è del 14% e solo nella comunità di Madrid ci sono 300 000 case completamente vuote, ed oltre 300 000 seconde case. Il problema della Spagna, così incomprensibile per il senso comune, è che ci sono troppe case. Si può spiegare solo se inseriamo – contro la stessa Costituzione spagnola – una peculiare domanda economica che converte le case, non in un valore di uso inalienabile, provvisto di quattro pareti e qualche finestra, ma in una collezione di figurine private che devono scambiarsi alcune persone e che devono essere accumulate il più velocemente possibile nelle mani di pochi; una domanda economica che fa diventare le case, apparentemente così solide, titoli, azioni e biglietti di carta.
 

Passiamo ora al terzo problema particolarmente delicato: la corruzione. Come lo stesso Fidel Castro ha appena denunciato in uno straordinario discorso, una certa corruzione è riuscita ad entrare nel tessuto della rivoluzione. Da un lato esiste questo fenomeno che potremmo definire “corruzione di bassa intensità”, cioè suggerito dalla necessità di arrotondare il budget familiare fuori dal contesto lavorativo ufficiale. Tutti conosciamo esempi di questo tipo di corruzione molto diffusa: l’impiegato pubblico che fuori dall’orario di lavoro utilizza l’automobile statale come taxi; il pensionato che sottrae i sigari dalla fabbrica di produzione. E purtroppo esiste anche una corruzione di media intensità; è proprio questa che Fidel Castro ha denunciato e che ancora una volta è legata alla maledizione biblica del turismo e alle contraddizioni economiche che ha introdotto nell’isola, soprattutto dopo la parziale decentralizzazione dell’economia come misura di sopravvivenza durante il “periodo speciale” negli anni ’90. Se definiamo il termine corruzione come “l’utilizzo dei poteri e delle risorse pubbliche al servizio degli interessi privati”, credo che possiamo definire corruzione sia la prima che la seconda e bisogna ammettere, anche se ci fa male, che anche a Cuba c’è corruzione.
Ma se accettiamo questa definizione di corruzione (“porre i poteri e le risorse pubbliche al servizio degli interessi privati”) allora bisogna dire che nel capitalismo non è che ci sia corruzione, ma che corruzione e capitalismo sono la medesima cosa e che la corruzione è il normale comportamento, costante e di prassi dei governi capitalisti. Il capitalismo è corruzione, e di una tale intensità che i suoi effetti non si commisurano con la moneta, ma con i morti; e non centinaia, ma migliaia né centinaia di migliaia, ma milioni di morti. Ad eccezione di Cuba e del Venezuela, tutti i governi del mondo hanno accettato di sottomettere la loro indipendenza politica e la loro dignità morale al dettato degli interessi privati e hanno legittimato questa sottomissione firmando gli accordi internazionali (TLC, ALCA, GATT) o obbedendo ad organismi internazionali (OMC, FMI, BM) che subordinano tutti i poteri e le risorse pubbliche (acqua, energia, petrolio, minerali) alle velleità degli interessi privati. Il registro della corruzione del capitalismo, per esempio, sta nella pagina economica de El País, in cui si leggono le debolezze dei governi e i vantaggi delle multinazionali, le quali, nelle altre pagine del giornale, si vantano delle loro bassezze: ciò che (una terribile corruzione anche linguistica) chiamiamo “pubblicità”. Il capitalismo è un sistema di produzione e di consumo corrotto e questa corruzione si estende a macchia d’olio a tutti i livelli, dalle riunioni di Davos fino alle riunioni dei condomini. Questa corruzione non è mai stata così evidente e mai come adesso è stata posta così poca attenzione nel rispettare, almeno formalmente, l’indipendenza della politica. Basti pensare all’intimità organica tra la famiglia Bush e l’industria del petrolio, o tra il vicepresidente Cheney e Halliburton, o tra Donald Rumsfeld e Gilead Sciences Inc.; basti pensare al fatto che l’imprenditore più ricco d’Europa, Silvio Berlusconi, è al tempo stesso padrone dell’Italia. L’immagine più viva, più spettacolare, più tangibile, di questa corruzione strutturale del capitalismo la offre, una per tutti, la città di Madrid, replica di Baghdad, in cui la speculazione immobiliare e l’industria automobilistica, stanno distruggendo e ricostruendo le sue strade, le sue case – perforano il suo suolo, abbattono i suoi muri, fanno saltare le sue piazze – cospirando contro il benessere dei suoi abitanti.
La corruzione a Cuba è grave ma costituisce comunque, un’eccezione individuale alla regola. Il pericolo si basa sul fatto che la somma delle eccezioni, la generalizzazione dell’eccezione, che non invaliderà mai la regola, può rendere irrealizzabile la sua applicazione. Per questo Fidel Castro fa benissimo a prenderla molto sul serio. In ogni caso, la corruzione a Cuba, danneggia la rivoluzione e distrugge le sue indubbie conquiste. Invece la corruzione del capitalismo è letteralmente mortale. Basta sfogliare i giornali per contare le sue vittime; è normale che – mi vengono in mente al volo alcuni esempi – Arnold Schwarzeneger, governatore della California, copra 6,7 milioni di dollari nelle riviste di culturismo e boicotti una legge che voleva regolare il settore delle diete, responsabile della morte di migliaia di persone ogni anno; è normale che la casa farmaceutica Merck si limiti a ritirare dal mercato l’antinfiammatorio Viexx, dopo aver provocato 27000 morti, è normale che Nestlè avveleni per mesi i suoi clienti o che la Bayer denunci il governo del Sudafrica perché vuole curare centinaia di migliaia di malati di AIDS del suo Paese; è normale che se la multinazionale SMAK licenzia 22000 dipendenti, subito dopo le quotazioni delle sue azioni vadano alle stelle. E’ normale insomma, che muoiano 3 milioni di congolesi in cinque anni perché dieci imprese occidentali, denunciate dall’ONU, possano continuare a vendere computer portatili e cellulari. In questo senso possiamo senz’altro definire con una certa severità corruzione di bassa intensità tutto ciò che a Cuba si identifica con il verbo “resolver”; ma nello stesso modo possiamo definire molto più letteralmente ciò che da noi chiamiamo “comprare”. In ogni caso tutti noi consumatori occidentali ci dedichiamo alla corruzione di bassa intensità tutte le volte che andiamo al supermercato.
Ma la corruzione non è solo il normale funzionamento di un’economia di distruzione generalizzata che mette ancora una volta – senza rimedio – i poteri e le risorse pubbliche al servizio degli interessi privati. E’ una mentalità, un’estetica, un modello psicologico e culturale. In Spagna, come nel resto dell’occidente capitalista, si adora, si riverisce, si emula, si invidia, si applaude la corruzione. Tutti gli anni viene pubblicata la lista degli uomini più corrotti del pianeta, con Bill Gates in testa, e perfino la Spagna è contenta perché quest’anno per la prima volta vi erano dieci connazionali. Non solo siamo incorsi nella corruzione di bassa intensità del consumo irresponsabile, ma più di ogni altra cosa al mondo ammiriamo la corruzione d’alta intensità.
La corruzione a Cuba è grave, ma è umana e rivela l’umanità di un modello che può essere influenzato, nel bene e nel male, dalle decisioni individuali, e proprio per questo è fragile ma anche un vero modello politico. La società cubana è così umana, nel bene e nel male, che la sua sopravvivenza dipende dagli uomini che la compongono e da come gestiscono le istituzioni e le leggi. E se la solidarietà e la resistenza possono salvarla, la corruzione e l’indifferenza possono distruggerla. Cuba è umana fino a questo punto. È dominata dalle decisioni politiche a tal punto che la corruzione individuale può danneggiarla.
Invece il capitalismo è così essenzialmente corrotto, impersonale e inumano che nessuna bontà individuale può correggerlo. La vasta zona capitalista del mondo si divide in due parti; in una di queste, quella che corrisponde al cosiddetto Terzo Mondo, tutte le soluzioni individuali – il piccolo furto, il piccolo traffico di droga, la piccola prostituzione - costituiscono reato; nell’altra parte – quella che identifichiamo come Primo Mondo – si può distruggere il mondo senza mai violare le leggi. In effetti, in Spagna possiamo rispettare le leggi, ma il loro mero rispetto non riuscirà mai a sanare il capitalismo, né a salvare i morti che farà domani. E’ vero che il capitalismo necessita – scusate – di una manciata di figli di puttana e che noi che lo combattiamo abbiamo bisogno di una buona armatura morale. Tuttavia il capitalismo non si esaurisce in una manciata di figli di puttana, né lo si potrà sconfiggere solo allargando la bontà. Questa è un’altra delle meravigliose vulnerabilità di Cuba che la differenzia dal suo rivale. Infatti, mentre la generalizzazione della corruzione nell’isola può distruggere la rivoluzione, la generalizzazione della bontà negli USA non può distruggere il capitalismo. La rivoluzione è una questione di uomini; il Mercato è una questione di fame; e la fame impone le sue leggi a tutti i suoi vassalli, indistintamente.


E finisco. Credo che da questi esempi possiamo farci un’idea, lì dove la società cubana e la società capitalista condividono gli stessi problemi, delle differenze che immediatamente emergono e non solo in termini di costi umani, degrado morale e distruzione delle risorse, ma – e da lì tutte le altre differenze – in termini di modello.


La differenza tra il modello cubano e quello capitalista è come quella tra il piccolo fallimento e il grande successo. La rivoluzione cubana vuole risolvere i problemi degli alloggi dei suoi cittadini e non può farlo per mancanza di risorse; la rivoluzione cubana vuole giovarsi al massimo e a favore di tutti, della formazione dei suoi cittadini e non può farlo per mancanza di risorse; la rivoluzione cubana, consapevole della posta in gioco, vuole debellare la corruzione e non può farlo per una combinazione di decisione umana e mancanza di risorse.
Il capitalismo non vuole che i giovani abbiano una casa, ma al tempo stesso vuole che se ne costruiscano ancora e ancora, e ci riesce. Vuole che i suoi universitari lavorino nella Telefonia o nel Burger King per una miseria, e ci riesce. Vuole che Enron lasci senza luce l’India e gli Stati Uniti, e ci riesce. Vuole che la malaria non venga curata, che si sciolgano i poli, che si estinguano 1 200 specie di uccelli, e ci riesce. Vuole che gli africani muoiano di fame, e ci riesce. Vuole che gli iracheni soccombano, che i boliviani non bevano, che le senegalesi si prostituiscano, e ci riesce. Il capitalismo, al contrario della rivoluzione cubana, ha trionfato e continua a trionfare completamente.
Ma tra il piccolo fallimento correggibile della rivoluzione cubana e il grande successo incorreggibile del capitalismo, la politica, la morale, la poesia - tutto ciò che Martí riassumeva con la parola “decoro” - non indugiano ad indicarci da che parte deve stare la nostra scelta.
 


Traduzione perlumanita.it di Stefania Russo

Intervento di Santiago Alba Rico alle giornate su Cuba Silviglia 25 novembre 2005