23 ottobre 2007 - Martin Obregon* www.prensa-latina.it

 

Von Wernich e la

 

Chiesa che lo partorì

 

Il tribunale che lo giudicò lo ha trovato colpevole di sette assassini, 41 sequestri e 31 casi di tortura, nella cornice del genocidio che ebbe luogo durante l'ultima dittatura militare. Tuttavia, Christian Von Wernich, non è "un'anomalia" dentro la Chiesa argentina, bensì piuttosto una conseguenza logica di una matrice ideologica che fu portata fino alle sue ultime conseguenze.

Dagli anni trenta, tempi di restaurazione conservatrice, la Chiesa e l'Esercito forgiarono un'alleanza indistruttibile. Istituzioni di "ordine" per eccellenza, la loro massima preoccupazione era contenere la protesta sociale e sterminare le ideologie di sinistra. Una maniera comune di concepire la nazionalità, dove la religione cattolica ha acquisito un posto centrale, risultò di gran utilità per delimitare le frontiere tra un presunto "essere nazionale" ed i "nemici della patria."

Quando le forze armate occuparono il potere statale il 24 marzo 1976, le massime autorità della Chiesa cattolica appoggiarono il golpe. I vescovi erano convinti che il nuovo governo militare sarebbe stato una barriera che metterebbe fine all'avanzamento delle ideologie di sinistra. Inoltre, non erano pochi quelli che pensavano che la "disciplina sociale" che i militari promettevano sarebbe stata fondamentale per isolare e disarticolare quei settori ecclesiastici che si erano vincolati attivamente alle organizzazioni popolari e che avevano sperimentato una rapida crescita, come il Movimento dei Sacerdoti per il Terzo Mondo (MSTM).

Alcuni dei massimi rappresentanti della gerarchia cattolica, come i vescovi Tortolo e Bonamin, i capi del Vicariato Castrense, legittimarono con argomenti teologici il piano sistematico di sterminio abbozzato dai militari. Mesi prima del golpe, nel settembre del 1975, il provicario dell'Esercito, monsignore Bonamin, si riferiva all'azione repressiva che si stava svolgendo nella provincia di Tucuman affermando che "quando c'è spargimento di sangue c'è redenzione", e che "Dio sta redimendo, mediante l'Esercito, la nazione argentina". In reiterate occasioni questi vescovi, ed altri, come José Miguel Medina, di Jujuy, si riferirono alla "lotta antisovversiva" come a "una guerra santa in difesa di Dio e contro i nemici della patria."

È importante segnalare che monsignor Tortolo non era un vescovo qualunque: nel momento del golpe era il presidente della Conferenza Episcopale Argentina ed era stato posizionato in quel posto dall'insieme dei vescovi riuniti nell'Assemblea Plenaria dell'Episcopato.

La data nella quale Tortolo arrivò, mediante l'elezione dei suoi pari, alla più importante carica dirigente della Chiesa argentina risulta troppo significativa. Nel 1970 la dittatura militare di Ongania si trovava ferita a morte, la società argentina stava sperimentando un nuovo ciclo di lotte popolari e nel seno della Chiesa crescevano e si moltiplicavano le correnti postconciliari.

È possibile analizzare la figura di Von Wernich, come quella di tanti altri cappellani denunciati dai sopravvissuti dei campi di concentrazione della dittatura, senza tenere in conto, tra altri elementi, le forti affinità ideologiche e di classe che legavano la Chiesa e le forze armate?

I casi di partecipazione di membri della Chiesa nella struttura repressiva sono sufficientemente numerosi perché la teoria delle "pecore smarrite" precipiti come un castello di carte.

Tortolo, Bonamin e Medina, tutti vescovi, erano frequenti visitatori dei campi di concentrazione della dittatura. Come Von Wernich, altri cappellani castrensi parteciparono attivamente alla repressione.

Emilio Mignone segnala che i padri Mackinon ed Astigueta, cappellani dell'Esercito e della Forza Aerea a Cordova, confessavano i prigionieri prima che fossero fucilati, e che il padre Gallardo, che frequentava coloro che erano sequestrati ne "La Perla", arrivò a dichiarare ad un detenuto che "era peccato torturare solo se era per più di 48 ore."

La lista non termina qui: il padre Ruben Ala, dell'ordine dei salesiani, era un confidente dei servizi segreti, dettava corsi "sull'infiltrazione comunista" e sosteneva che il vescovo Angelelli era la punta di lancia della penetrazione marxista dentro la Chiesa,[1] mentre il padre Francisco Priorello veniva denunciato da una sopravvissuta del campo di concentrazione che funzionava a Campo di Maggio, sostenendo che il cappellano condivise gli interrogatori mentre la torturavano. [2]

Il clero castrense, legato organicamente alle forze armate attraverso il Vicariato, svolse un ruolo chiave dentro la struttura repressiva montata dalle forze armate.

In primo luogo, molti cappellani offrirono informazione ai servizi segreti di tutte le armi e le forze di sicurezza. Gli stessi documenti interni delle forze armate facevano riferimento "all'inestimabile collaborazione del clero castrense per scoprire problemi di carattere sovversivo nei quali potevano essere inclusi membri del clero". Ci furono anche sacerdoti che fingevano di collaborare coi parenti delle vittime con l'obiettivo di sottrarre informazioni.

In "La notte delle matite" ed in "Garage Olimpo" ci sono due scene quasi uguali, dove un sacerdote nascosto dietro un confessionale annotava i dati dei parenti dei desaparecidos. Un tanto stereotipate, quelle immagini sorsero da decine di attestazioni di familiari delle vittime che accorrevano in Chiesa alla ricerca di aiuto e consegnavano informazioni di ogni tipo. Il segretario privato di monsignore Tortolo, Emilio Graselli arrivò ad accumulare uno schedario coi dati di più di mille cinquecento persone che denunciavano sequestri e sparizioni.

Un secondo aspetto ebbe a che vedere con la legittimazione dell'azionare repressivo. Nella strutturazione di un enorme dispositivo di annichilimento dell'oppositore politico come quello che ebbe luogo in Argentina, risultò imprescindibile la produzione di certe "immagini del male" che contribuirono a rinforzare la coesione di gruppo delle forze repressive.

I cappellani furono importanti in questo senso, come al momento di riconfortare spiritualmente coloro che partecipavano ai sequestri e alle torture: "quando avevamo dubbi, ci dirigevamo ai nostri assessori spirituali, e questi ci tranquillizzavano", sostenne un alto ufficiale della Marina di Guerra. Numerose attestazioni provano l'impegno dei cappellani al momento di trovare una "spiegazione cristiana" ai metodi utilizzati, poiché "perfino nella Bibbia era prevista la separazione dell'erbaccia dal campo di grano."

I rosari che pendevano dal collo dei torturatori, la presenza di croci ed immagini religiose all'interno dei campi di concentrazione ed il continuo riferimento ai "nemici di Dio e della Patria" negli interrogatori, mettono in rilievo l'importanza del fattore religioso nella legittimazione della metodologia repressiva utilizzata.

Von Wernich non è una pecora smarrita, come pretende la gerarchia della Chiesa cattolica, bensì il sottoprodotto, uno dei più odiosi, di una Chiesa che si costruì per decadi su una matrice reazionaria, integralista e profondamente intollerante.
 


Note :

[1] Mignone, Emilio, Iglesia y dictadura, Buenos Aires, Ediciones del Pensamiento Nacional, 1986, p. 32 y 33.

[2] Se trata de Iris Avellaneda. Cr. Revista La Maga, 29 de enero de 1995.

 



*l'autore è un professore di storia e scrittore argentino-preso da Rebelion

traduzione di Ida Garberi