13 aprile 2007 - F.Betto www.granma.cu

 

 

Brasile: da paese del carnevale

a immensa piantagione

 

 


Il Brasile è il paese del carnevale. Qui non si vive senza le cinque « f » : fede, festa, farina, fagiolo e football. Tutta questa allegria minaccia di trasformarsi in una grande tristezza nazionale nel caso che il governo federale non adotti al più presto severe misure per impedire che il paese diventi un’immensa piantagione di canna in mani straniere.

 

Stiamo tornando ai cicli di monocolture che, secondo i libri scolastici della mia infanzia, distinguevano i periodi della storia nazionale: albero brasile, canna da zucchero, oro, caucciù, caffé. E’ questa la ragione della recente visita di Bush in Brasile: abbiamo la materia prima e la tecnologia alternative al petrolio, energia fossile prossima all’esaurimento. Oggi l’80% delle riserve petrolifere si trovano nel conflittuale Medio Oriente. Costruire centrali nucleari, bersagli potenziali dei terroristi, è molto costoso e rischioso. La soluzione più sicura, economica ed ecologicamente corretta è costituita dalla canna da zucchero e dagli olii vegetali. Il petrolio era un buon affare quando un barile costaba 2 dollari. Oggi ne costa non meno di 50. E non bastano due raccolti di canna da zucchero. La canna e la yucca, oltre a rifornire veicoli e industrie, danno raccolti in base a quel che si pianta. Basta disporre della terra adeguata e di quello che, contrariamente che negli Stati Uniti, abbonda nei tropici: acqua e sole.

 

Con lo sguardo fisso su quella fonte alternativa d’energia, Bush è venuto a vedere con i propri occhi. L’etanolo della nostra canna costa la metà di quello prodotto con il granturco made in Usa, un terzo del prezzo dell’etanolo europeo ottenuto dalla barbabietola e per il momento il suo prezzo è del 30% inferiore a quello della benzina, oltre a non inquinare l’atmosfera e ad essere inesauribile.

 

Allora il Brasile diventerà un paese ricco? Sì, se il governo agisce con fermezza e toglie i guadagni alle transnazionali. Bill Gates e il suo Ethanol Pacific hanno già messo l’occhio sulle terre di Goiás e del Mato Grosso. Giapponesi, francesi, olandesi e inglesi vogliono investire nelle fabbriche di alcool. Se Planalto non assume la difesa della sovranità nazionale, l’immensa piantagione di canna Brasile produrrà combustibile per i paesi industrializzati che, difendendo i loro interessi, vigileranno sulla sicurezza dei loro affari qui e cioè torneremo all’epoca colonialista della Repubblica non più delle banane, ma coltivatrice di canna da zucchero. E le prossime generazioni rischieranno di provare sulla propria pelle quello che oggi stanno subendo gli iracheni.

 

Dobbiamo seguire l’esempio di Montero Lobato che, nel 1940, si schierò in difesa di Biocombras, la Compagnia Brasiliana dei Biocombustibili. In caso contrario il nostro territorio coltivabile verrà lottizzato dal latifondo associato alle imprese multinazionali; la canna impererà nel sud-est; la soia e i pascoli provocheranno nuovi disboscamenti in Amazzonia, con i conseguenti grandi scompensi ambientali. Ed è illusorio immaginare che la tecnologia per lo sfruttamento della biomassa vegetale assorbirà manodopera. La disoccupazione e i lavori stagionali saranno proporzionali alle estensioni di canna piantata.

 

Bush non è venuto qui preoccupato per la miseria in cui vivono milioni di brasiliani, soprattutto emigranti espulsi dalla campagna e ammucchiati nelle favelas attorno alle grandi città. Non era interessato nemmeno alla piccola proprietà rurale o all’agricoltura familiare. È venuto a dire nell’orecchio del presidente Lula che il Brasile deve voltare le spalle al Venezuela petrolifero di Chávez e deve orgogliosamente offrire quanta energia vegetale abbiamo, che deve sentirsi felice di veder piovere alcool-dollari nell’agricoltura nazionale. Il Brasile collabora con la terra, l’acqua e il sole e un po’ di manodopera a buon mercato, loro raccolgono, esportano e vendono il prodotto attraverso Monsanto, Cargill e simili, lasciando i profitti fuori dal paese.

 

Si terranno il verde della canna e dei dollari e noi il giallo della fame, come descrisse Carolina María in Quarto de despejo*.

 

Il minimo che ci aspettiamo dal presidente Lula è che segua l’esempio di Chávez e difenda gli interessi nazionali. L’impresa venezuelana equivalente alla nostra Petrobras era la socia minoritaria nello sfruttamento del petrolio del paese vicino. Adesso Chávez ha cambiato la situazione: a partire dal 1º maggio il Venezuela sarà il possessore del 60% delle azioni e le imprese straniere del 40%.

 

È stato il clamore popolare a costringere in passato il governo a tener presente che "il petrolio è nostro". È ora di gridare per l’etanolo e impedire che l’immensa piantagione chiamata Brasile moltiplichi il lavoro schiavistico, aumenti il numero di lavoratori stagionali e devasti quel che resta delle selve e riserve indigene.

 

(Tratto da ALAI)

 

"Oggi non abbiamo nulla da mangiare. Volevo invitare i miei figli a suicidarci", racconta Carolina María, negra brasiliana discendente da schiavi rapiti a Cabinda e Angola, nel suo libro Quarto de despejo, dove descrive le condizioni di vita in una favela.