Gli Stati Uniti non erano mai stati tanto tranquilli, con la situazione
dell'America Latina, come agli inizi di questo secolo. La regione vide il nuovo
secolo con dati macroeconomici per i quali il neoliberalismo faceva più ricco i
più ricchi mentre incrementava l'esercito di poveri.
Il nuovo secolo faceva presagire per Washington la stessa cosa, cioè, la
ripetizione di governi coloniali, senza accorgersi dei sentimenti sotterranei
propiziatori di profondi cambiamenti.
SORPRESA NELLE URNE
La stabilità del voto — mentre la democrazia era ridotta all'esercizio del
suffragio universale — era logica, perché gli Stati Uniti ed i paesi capitalisti
sviluppati, coi loro meccanismi finanziari e commerciali internazionali, avevano
lanciato nel mondo l'ideologia di mercato, un regime nel quale il capitale si
trasformava nel dominatore universale: la globalizzazione neoliberale.
Come dice l'accademico Emir Sader in uno studio edito nel sito ufficiale
internet del Consiglio Latinoamericano di Scienze Sociali (CLACSO), il processo
fu "In modo tale che il neoliberalismo, come politica economica e come
ideologia, si trasformò in un'espressione apparentemente indissociabile di tali
regimi democratico-liberali".
Ma ciò implicò una crisi sociale davvero spaventosa per tutta l'America Latina;
creò le condizioni affinché le masse non lo sopportassero più e si accrescesse
il movimento per scuotersi da tale giogo.
Le vittorie di Chávez si dovettero al disgusto popolare per l'interminabile
notte neoliberale; l'insurrezione argentina, al termine del 2002, mostrò
nitidamente l'animo ribelle del subcontinente affamato; a ciò si unirono la
vittoria di Luiz Inácio Lula dà Silva nel 2002 e di Néstor Kirchner nel 2003,
completata dal successo del Fronte Ampio dell'Uruguay nel 2004.
LA CONVULSIONE DEL 2006
È molto difficile figurare nelle statistiche mondiali come la regione di
maggiore disuguaglianza sociale del pianeta e che ciò non implichi nulla. Il
secolo nacque inquieto. L'illuminazione portava tremori nelle viscere.
L'asprezza della situazione è evidente ancora oggi, quando la Commissione
Economica per America Latina e Caraibi (CEPAL), un organismo dell'ONU, ritrae il
panorama dicendo che nel 2005 il 39,8% della popolazione viveva in condizioni di
povertà (209 milioni di persone) ed un 15,4% della popolazione (81 milioni)
viveva nella povertà estrema o nell'indigenza.
Dall'anno anteriore, gli analisti politici prestavano attenzione al fenomeno
elettorale che aspettavano le società latinoamericane.
Così, prima che finisse il 2005, i boliviani davano una lezione di coscienza,
scegliendo al primo turno l'indigene Evo Morales, affinché prendesse il potere a
partire dal gennaio 2006, con tutte le sue idee di Costituente,
nazionalizzazioni, educazione, salute, ripartizioni delle terre ed altri aneliti
sempre trattati a fucilate dalle oligarchie, ora scosse insieme a Washington.
UN CAMBIO DI EPOCA
Un significato della vittoria boliviana può trovarsi nella pagina 578 del
libro "Cento ore con Fidel", dell'intellettuale francese Ignacio Ramonet, dove
il leader della Rivoluzione cubana esprime: Evo Morales si proietta verso il
futuro come una speranza per la maggioranza del suo popolo. Incarna la conferma
del fallimento del sistema politico applicato tradizionalmente nella regione e
la determinazione delle grandi massi di conquistare la verità. La sua elezione è
l'espressione che la mappa politica dell'America Latina sta cambiando. Nuove
arie soffiano in questo emisfero.
Le rielezioni di Lula e Chávez ebbero più tardi i risultati attesi. Ma mancava
ancora il colpo di knock out del Nicaragua e la scossa tellurica dell'Ecuador,
dove un milionario sembrava già col potere nelle mani, ma, al secondo turno,
Rafael Correa lo sconfisse con una schiacciante maggioranza, nonostante le
enormi spese in propaganda di Gustavo Noboa, delle sue apparizioni mistiche e
dei suoi acquisti di voti nei quartieri poveri.
In Nicaragua, il governo di Bush ricorse a tutto per impedire il ritorno del
FSLN al potere. Il suo ambasciatore si intromise costantemente nella campagna
elettorale; a Managua arrivarono delegazioni di congressisti e perfino lo stesso
Oliver North, che tanto danno fece ai nicaraguensi organizzando e fomentando la
guerra sporco controrivoluzionaria finanziata dal traffico di droga, viaggiò a
Managua per cercare di trafugare la vittoria di Daniel Ortega. Tutto questo
spiegamento di forza risalta ancora più il trionfo sandinista, col quale i nicas
si riscossero dai danni sociali di tre amministrazioni neoliberali.
È indubbio che l'imposizione del neoliberalismo ha spinto le masse all'azione
politica. Angelo Guerra Cabrera, il conosciuto analista politico del quotidiano
messicano La Jornada, segnalava poco tempo fa che "questa mutazione non sarebbe
stata possibile senza l'agire degli innovativi, diversi e vigorosi movimenti
sociali latinoamericani. Non c'è una sola nazione in America Latina dove questi
movimenti non combattano il neoliberalismo". La cosa peggiore per gli Stati
Uniti è che questa tendenza cresce. La lotta di oggi è profondamente
antimperialista, poiché nessuno è disposto ad accettare tranquillamente la
regola neoliberale d'impoverimento né i trattati di libero commercio come il
CAFTA centroamericano, dove praticamente, con la ratifica dell'atroce accordo,
questi paesi perdono la loro sovranità e, giuridicamente, neppure possono
uscirne.
La contesa è aperta e, in questo momento del secolo XXI, può concordarsi col
Presidente eletto dell'Ecuador che non stiamo in un'epoca di cambiamenti, bensì
in un cambiamento di epoca.
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