La
storia
dirà chi ha ragione
Risposta del Comandante in Capo Fidel Castro Ruz al moderatore
della tavola rotonda informativa, effettuata il 25 aprile 2001,
riguardante dichiarazioni fatte dal primo ministro del Canada,
Jean Chrétien, durante il III Vertice delle Americhe.
Comandante:
- Molto bene, e ora abbiate pazienza. Forse questo materiale potrà
risultare interessante, se tu mi dai la parola.
Mi sembra che valga la pena dedicare alcuni minuti
a questo argomento.
Adesso parlerai della sede?
Randy Alonso:
- Della sede del III Vertice e delle dichiarazioni che ha fatto il
Primo Ministro del Canada... Ci sono state varie dichiarazioni del
Primo Ministro, ci sono state anche dichiarazioni del Ministro
degli Esteri.
Comandante:
- È vero, io ne ho scelto una, perché quello che conosco meglio
tra i due è il Primo Ministro ed è con lui che ho più familiarità.
Ebbene, perché il popolo possa capire di che cosa
si tratta vado a leggere quanto segue:
“Quebec (Canada), addì 19 aprile 2001 (EFE). - Il
Primo Ministro canadese, Jean Chrétien, giustificò oggi
l’esclusione di Cuba dal III Vertice delle Americhe, per la
mancanza di segni del regime cubano in tema di diritti umani,
nonostante ‘avessi passato ore cercando di convincere’ Fidel
Castro a cambiare politica.
“Al suo arrivo al centro di convenzioni del Quebec,
dove si celebrò il Vertice questo fine settimana, a Chrétien venne
chiesto se avesse cambiato la sua posizione nei confronti dell’
inclusione di Cuba nel processo dei Vertici delle Americhe,
giacché nelle precedenti riunioni a Miami e a Santiago aveva
sollecitato la presenza del regime di Castro.
“‘Non ho cambiato opinione’ ha risposto Chrétien.
“Il Primo Ministro canadese si mostrò seccato,
quando gli si chiese se Cuba non era presente a Quebec per la
risposta negativa che aveva dato Washington.
“Allo stesso modo, quando venne incalzato da un
giornalista affinché indicasse quale altro paese del continente si
era opposto alla partecipazione di Castro nel III Vertice delle
Americhe, Chrétien gli rispose cosí: ‘chietetelo a loro’.
“Il Primo Ministro canadese aggiunse che aveva
passato ‘ore e ore cercando di persuadere Castro’ perché firmasse
alcune convenzioni sui diritti umani, senza però ottenere nessun
segno da parte del regime dell’Avana.
“‘Ho passato ore con lui (Fidel Castro) cercando di
convincerlo a firmare alcune risoluzioni delle Nazioni Unite’
insistè Chrétien.”
Ho meditato molto su queste cose dette dal signor
Chrétien. Non aveva alcuna necessità di emettere una valutazione
pubblica precipitosa ed improvvisata di quell’incontro.
Ho lavorato cercando dati e ricostruendo, con la
maggior obiettività possibile, quello di cui abbiamo conversato lì
e l’atmosfera nella quale si portarono a termine i nostri
interscambi.
Vista la necessità di precisare, per la delicatezza
dei temi trattati, ho qui con me una dichiarazione scritta, che
ora vado a leggere:
Appena iniziò la riunione, d’ improvviso, mise
sopra la tavola una piccola lista di nomi che, evidentemente,
aveva appena ricevuto. Indovinai quasi subito di che cosa si
trattava. Era la cosa abituale che, faceva una personalità
politica di qualche paese alleato degli Stati Uniti o qualche
politico nordamericano ogni volta che veniva a visitarci: il
Dipartimento di Stato consegnava loro una lista di persone
processate o condannate per attività controrivoluzionarie. Le
liste iniziavano sempre con le persone che risultavano avere
maggior importanza e interesse per i servizi segreti o per il
governo degli Stati Uniti. Chiedeva l’indulto o la scarcerazione
degli stessi. Era una tattica del governo degli Stati Uniti che
non cambiava mai, utilizzata per fare pressione in favore dei loro
amici, approfittando di qualunque visita di amicizia a Cuba.
Siccome nel nostro paese si suole esercitare la maggior tolleranza
possibile, solamente in casi eccezionali le autorità procedono
all’arresto e all’ ulteriore processo dei colpevoli, quando le
loro azioni provocatorie sono gravi e totalmente inammissibili.
Il Primo Ministro canadese mi ricordò come, in
occasione della visita del Papa, un numero di condannati per cause
controrivoluzionarie avevano avuto l’indulto e egli si era
impegnato a sollecitare lo stesso per coloro che erano inclusi
nella lista.
In realtà il Papa non toccò mai questo tema nella
conversazione fatta con me, e lo aveva fatto attraverso il suo
Segretario di Stato in un’altra riunione con il Ministro degli
Esteri.
Senza aspettare una risposta, il Primo Ministro immediatamente
propose che Cuba sottoscrivesse il Patto delle Nazioni Unite sui
Diritti Economici, Sociali e Culturali, giacché Cuba in questa
materia aveva fatto lo stesso o di più di qualunque altro paese
del mondo. Era senza dubbio una frase adulatrice e una forma più
abile e opportuna di proporre qualcosa.
Ricordo che subito dopo menzionò l’accordo di libero commercio tra
Canada, Messico e Stati Uniti, e i progetti di farlo con il resto
dell’America Latina, dicendo che Cuba poteva dare un importante
contributo.
E per ultimo si riferì al trattato contro le mine
antiuomo, lamentandosi che Cuba non lo avesse firmato e
sollecitando che lo sottoscrivesse. Erano questi i quattro punti
con cui ebbe inizio la conversazione. Tutti sembravano molto
semplici però tutti e quattro erano molto complicati.
Gli chiesi se era un’ abitudine dei politici
canadesi cominciare dal più difficile, e aggiunsi, in tono
scherzoso, che se non riuscivamo a superare tali prove, avremmo
danneggiato la visita.
Mi sembra di ricordare, che la riunione durò
all’incirca due ore, in tono cordiale, rispettoso, però franco.
Debbo confessare che usai la maggior parte del tempo perché era
necessario spiegare con determinata chiarezza la ragione delle
nostre posizioni nei confronti dei quattro punti trattati, in
special modo su tre di essi.
Impossibile ripetere qui ognuno di questi
argomenti. Farò solo una brevissima sintesi, con le risposte
essenziali.
Gli dissi che io non potevo decidere personalmente
e d’ immediato o impegnarmi su qualunque di queste questioni, né
tanto meno creare false speranze sulle decisioni che avremmo
adottato. Gli dissi che la molto pubblicizzata questione dei
supposti prigionieri di coscienza era una vecchia storia dopo
quasi quaranta anni di ogni tipo di nefandezze e crimini da parte
del governo degli Stati Uniti contro Cuba. Li elencai in modo
ampio e dettagliato confrontandoli con l’onesta condotta e l’etica
della nostra Rivoluzione nonostante il diluvio d’ infamie e
calunnie contro Cuba. L’ipocrisia e la doppia morale della
politica condotta contro di essa. Le circostanze che ci avevano
costretto a tenere persone in prigione. Che solo a Girón avevamo
fatto prigionieri 1200 invasori, e che la stessa Rivoluzione, sin
dai primi anni, aveva messo in libertà coloro che, servendo gli
interessi di una potenza straniera durante quattro decenni,
avevano cercato di distruggerla. Che ora il tema di quelli che per
questo motivo stavano in prigione era costantemente utilizzato per
incalzare Cuba, il paese che soffriva l’ostilità e l’aggressione
esterna. Le gravi minacce che ancora stavamo affrontando, come le
azioni terroriste organizzate e pagate dagli Stati Uniti.
In un certo momento, mi disse che il suo desiderio
era superare questa situazione perché potessimo ritornare alla
grande famiglia. Gli dissi che noi eravamo latinoamericani, e gli
chiesi se la questione era che ritornassimo alla grande famiglia o
che la grande famiglia ritornasse a noi. Terminai il punto
rispondendogli che egli aveva con sé una lista di persone che
erano mercenari al servizio degli Stati Uniti e pagati dagli
Stati Uniti, e che in complicità con gli Stati Uniti cercavano di
distruggere la Rivoluzione. Aggiunsi che come amico dovevo dire
che questa lista era umiliante per Cuba. Si sforzò di spiegare
che questa non era la sua intenzione, e che forse aveva presentato
la lista troppo presto.
Non tutto fu drammatico. Ci furono scherzi e
barzellette intercalate. Questa parte, riferita con una certa
estensione, può dare l’idea di quanto intensa fu la prima ora di
conversazione.
In relazione alla sua enfasi sulla famiglia
emisferica, gli dissi che la cosa mi rallegrava molto, però che io
pensavo anche nella famiglia universale: Europa, Asia e Africa.
Rispetto al punto due, riguardante il Patto delle
Nazioni Unite sul tema dei Diritti Economici, Sociali e Culturali,
non vacillai nel dirgli che noi potevamo sottoscrivere tutti gli
articoli eccetto due, l’8 ed il 13. Questo perché il primo sarebbe
potuto andare bene per un paese capitalista come Canada, Stati
Uniti ed altri dell’America Latina, poiché in alcuni governavano
gli imprenditori e gli oligarchi e in altri le grandi
multinazionali. Lì dividevano, frazionavano e, quando era
possibile, corrompevano e alienavano i lavoratori che potevano
fare molto poco di fronte al potere politico dei padroni. Si
trattava di sistemi economici diversi dal nostro.
In relazione a
questo articolo del Patto, dove si dice che ogni persona ha il
diritto di fondare sindacati e affiliarsi a quelli che scelga,
seguendo solo lo statuto della relativa organizzazione, per
promuovere e proteggere i suoi interessi economici e sociali, in
un paese socialista come Cuba, dove i lavoratori manovali e
intellettuali sono tutti organizzati nei loro rispettivi sindacati
e solidamente uniti come classe rivoluzionaria che condivide il
potere con il resto del popolo, i contadini, le donne, gli
studenti, i vicini e la cittadinanza in generale, tale precetto
servirebbe come arma e pretesto all’imperialismo per cercare di
dividere e frammentare i lavoratori, creare sindacati artificiali,
e ridurre la loro forza e influenza politica e sociale. Negli
Stati Uniti e in molti paesi dell’Europa e in altre regioni, la
strategia dell’imperialismo è quella di dividere, indebolire e
corrompere il movimento sindacale per ridurlo in condizioni di non
potersi assolutamente difendere di fronte ai padroni. A Cuba, il
proposito sarebbe fondamentalmente sovversivo e destabilizzatore,
scalzare il potere politico, ridurre la straordinaria forza e
influenza dei nostri lavoratori, e corrodere l’eroica resistenza
dell’unico Stato socialista dell’Occidente di fronte alla
superpotenza egemonica.
Non si potrebbe sottoscrivere nemmeno l’altro
precetto, poiché aprirebbe le porte alla privatizzazione
dell’insegnamento, che nel passato ha dato luogo a dolorose
differenze e a irritanti privilegi e ingiustizie, inclusa la
discriminazione razziale che i nostri bambini non conosceranno
mai. Un paese che riuscì a sradicare in un solo anno
l’analfabetismo, raggiunse livelli di nove classi come media, e
che conta su uno straordinario e massiccio gruppo di professori e
di maestri e su il più sano ed efficiente sistema di educazione
del mondo, non ha bisogno di impegnarsi nei confronti di tale
precetto.
A Chrétien dissi che l’America Latina era da quasi
200 anni che cercava di vincere l’analfabetismo ed ancora non ci
era riuscita.
Chrétien propose che sottoscrivessimo il Patto e
che facessimo la riserva relativa ai due articoli. Gli
rispondemmo che dopo risulta che si parla di inadempimenti del
Patto e nessuno conosce o si ricorda delle riserve con cui si
sottoscrisse. Non si può scherzare con queste cose!
Rispetto al trattato delle mine antiuomo non si
parlò molto in questa riunione. Anticipai che non lo avremmo
firmato. Che avevamo persino una base militare degli Stati Uniti
nel nostro territorio, e che la fascia compresa tra il limite
della stessa ed il resto del territorio era l’unico punto in cui
erano installate; per questa ragione le mine costituivano per noi
un’arma di difesa alla quale non avremmo commesso l’errore di
rinunciare; aggiunsi che noi non avevamo armi nucleari, bombe o
missili intelligenti, né altri mezzi più sofisticati come quelli
che possiedono gli Stati Uniti; terminai dicendo che sopra il
nostro paese pendeva una minaccia reale, e per questa ragione non
pensavamo di firmarlo.
Più tardi abbordò di nuovo il tema da un angolo che
io non avrei potuto sospettare in quel momento. Concludendo questo
primo incontro affermò, con evidente soddisfazione e sincerità,
che questa era stata una discussione eccellente. La sintesi delle
cose essenziali trattate nella nostra prima riunione, può dare
l’impressione che questa sia stata aspra. Niente di più lontano
dalla realtà. Regnò sempre un’atmosfera calda e amichevole.
Mi sembrò di percepire con chiarezza - anche se no
lo disse, però potei percepirlo da quanto disse il signor
Chrétien -, che di fronte ad un vicino così forte con il quale
condivide 8644 km di frontiera, aveva timore per il futuro del suo
paese. Consapevole delle due forti culture e tradizioni differenti
ben radicate, gli preoccupava il rischio che significa per l’unita
dello Stato che qualunque ambizione, un errore, o una scossa del
vicino, possa distruggere il paese. Per questo enorme e ricco
territorio, popolato da solo 32 milioni di abitanti, dove tra le
altre risorse - come disse lo stesso Chrétien - si trova la quarta
parte delle riserve di acqua potabile del mondo, forse anche più
che per la propria Cuba, gli Stati Uniti sono una grande
preoccupazione.
In quello che fu forse il momento più
interessante della conversazione, e nel quale Chrétien espose la
sua idea più intelligente, capace di provocare perfino in un
interlocutore abbastanza distante dalla sua ideologia un
sentimento di solidarietà, fu quando raccontò che egli si era
opposto all’idea di un accordo di libero commercio unicamente con
gli Stai Uniti. Bisognava trovare per lo meno un terzo paese, e
apparve il Messico, con il quale in molte occasioni ha condiviso
posizioni di fronte alle manipolazioni degli Stati Uniti. nel 2005
sarebbero stati 34 e magari 35 paesi (evidentemente alludendo a
Cuba), perché ci fosse un equilibrio con gli Stati Uniti.
In un’occasione mi disse che il Canada era un paese
molto geloso della propria indipendenza nei confronti degli Stati
Uniti, che era di grande importanza mantenere l’ indipendenza
dagli Stati Uniti, e che la sua politica era quella di mantenere
rapporti stretti e amichevoli con questo paese, però molto
indipendenti. Affermò orgoglioso che ora il Canada era in
concorrenza con Silicon Valley di California, dove si produceva
tutta l’alta tecnologia.
La seconda riunione con Chrétien e la sua
delegazione ebbe luogo la sera. Ci fu una cena e un più ampio
interscambio. In determinate occasioni, menzionando il piano di
attentato contro di me nell’ Isola Margarita, organizzato dalla
famosa Fondazione, indicò che spesso questa era la causa di grandi
difficoltà, perché quando accadde l’incidente degli aerei, fu per
creare quel problema agli Stati Uniti che si dichiarò pronto per
fare un passo positivo nei confronti di Cuba. Gli parlai della
Legge di Aggiustamento Cubano, delle sue assurde e irrazionali
conseguenze.
Parlammo anche della Legge Helms-Burton. Mi disse
che rispetto a questa legge gli Stati Uniti si trovavano isolati.
Che lui, personalmente, fu il primo a fare una dichiarazione
quando venne approvata, e che, trovandosi riunito con i Primi
Ministri dei Caraibi, fecero insieme la prima dichiarazione contro
la Helms-Burton.
Rispetto all’incidente degli aerei nell’anno 1996,
utilizzato come pretesto per approvare la legge Helms-Burton, gli
dissi che nel numero del The New Yorker del 26 gennaio 1998
c’era quasi tutta la storia dell’incidente.
Chiedendomi quale era la nostra posizione riguardo
l’ALCA, gli dissi che bisognava aver pazienza, perché era
necessario sapere che cosa sarebbe successo in America Latina con
questo accordo di libero commercio, quali sarebbero state le
conseguenze non soltanto per i nostri paesi ma anche per il resto
del mondo, e quali sarebbero state le trappole per imporre un
accordo multilaterale di investimenti, questioni che ci
preoccupavano molto. Gli dissi che era necessario studiare a fondo
queste questioni. Gli parlai su aspetti concreti della nostra
economia, delle misure adottate per affrontare il periodo
speciale, sull’ impossibilità di prescindere delle tariffe
doganali per molti paesi dell’America Latina e dei Caraibi, alcuni
dei quali ricevevano per questa via fino all’ 80%delle entrate al
budget. Al domandargli se al Canada pregiudicava in qualche modo
l’integrazione dell’Europa e la nascita dell’Euro, mi rispose di
no, che l’82% del suo commercio era con gli Stati Uniti. Ci disse
che avevano miliardo di dollari giornalieri di commercio con gli
Stati Uniti.
Da parte mia, gli espressi francamente la mia
opinione: ai paesi dell’America Latina converrebbe l’integrazione
dell’Europa e che l’Europa entrasse in concorrenza con gli Stati
Uniti per i mercati e gli investimenti in America Latina. E’
meglio che ci siano due, tre, quattro potenze economiche forti
perché l’economia mondiale non dipenda solo da un potente paese e
da una sola moneta.
Conversammo anche della tecnologia canadese in
materia di energia nucleare e della possibilità che, nel futuro,
il nostro paese possa acquistare reattori canadesi, anche se per
il momento non è la migliore opzione per noi, né la più economica
per la rapida crescita della generazione elettrica di cui abbiamo
bisogno con una certa urgenza.
Gli parlai anche dei messicani che stanno morendo
nella frontiera con gli Stati Uniti, dove ormai muoiono ogni anno
molte più persone di quelle che morirono durante quasi 30 anni di
esistenza del muro di Berlino.
Nel nostro interscambio di opinioni pochi furono
gli argomenti importanti che non vennero trattati.
Nell’atmosfera propizia che si era creata e
prendendo in considerazione la partecipazione del Canada nei fatti
politici di Haiti, ormai in processo di normalizzazione, e per la
sua presenza in quel paese, gli dissi che Haiti era un vicino
prossimo e uno dei paesi più poveri del mondo, con indici
terribili di salute, incluso l’AIDS, che minacciavano con una
catastrofe umana, e gli domandai perché non davamo un esempio di
cooperazione ed elaboravamo un programma di salute per Haiti. Cuba
avrebbe inviato il personale medico e il Canada avrebbe fornito le
medicine e le apparecchiature necessarie.
Mi chiese se io avevo discusso di questo con il
Presidente di Haiti. Gli risposi che non potevo proporglielo se
non coordinava prima con il governo canadese, dicendogli che la
mia convinzione era che avrebbero accettato.
Mi parlò del suo interesse speciale per un paese di
lingua francese, poiché una parte importante della popolazione del
Canada parla questa lingua, e per tanto aveva interesse in
programmi per Haiti. Avrebbe analizzato la proposta. Gli comunicai
che avrei parlato con il governo haitiano.
Sembra che la suddetta idea gli abbia suggerito
d’immediato un’altra. Mi disse che aveva una proposta da fare su
un programma congiunto: un programma congiunto con Angola e
Mozambico per eliminare le mine antiuomo. Aggiunse che noi
potevamo mettere il personale e loro i soldi. Questi paesi avevano
già firmato l’accordo. Gli si indicò che, da parte nostra, questo
lavoro potevano farlo solo i militari. Rispose che noi cubani,
avevamo il personale esperto e loro avrebbero somministrato i
soldi per il programma, poiché avevano già approvato il budget.
Disse che vari paesi avevano investito fondi per la
pulizia dei campi minati, tra cui il Giappone, la Svezia, la
Norvegia, la Danimarca e altri, e siccome noi avevamo esperti in
questo settore pensava che i cubani avrebbero potuto realizzare
questo lavoro.
E’ chiaro che non si accorse di quanto potesse
essere offensivo quello che stava proponendo. Una collaborazione
umanitaria nella quale Canada e altri paesi ricchi mettevano i
soldi e noi i rischi di mutilazioni e perdite di vite dei nostri
soldati. Forse non lo pensò mai, o non era cosciente di quello che
ci stava proponendo, però sentii la forte impressione che ci
volevano assoldare come mercenari.
Per brevi secondi sentii una sensazione di
oltraggio, ricordando il disinteressato spirito di sacrificio, la
storia pulita e nobile del nostro popolo che stava affrontando
un’intensa guerra economica e il periodo speciale disposto a
morire per le proprie idee. Qualcuno pretendeva trarre vantaggio
di questa situazione tentandoci con missioni di questo tipo?
Considerando le caratteristiche del mio
interlocutore, e il tono amabile, franco, fiducioso, e persino l’humor
con cui -ricordo- si svilupparono i nostri scambi, penso che
quello che disse e la forma in cui lo disse non furono un atto
cosciente di quello che obiettivamente si poteva interpretare
dalle sue parole.
Gli spiegai che in Angola era ancora difficile
sminare perché c’erano le bande armate dagli Stati Uniti e dal Sud
Africa; che tutte queste mine erano state consegnate dagli Stati
Uniti e dal Sud Africa dell’apartheid a Savimbi, e che questo
poteva costare mutilazioni e perdite di vite umane. Come
giustificare la partecipazione cubana davanti al nostro popolo?
Con la maggior equanimità gli proposi quello che io
qualificai come soluzione ragionevole: eravamo disposti ad
addestrare tutto il personale necessario di Angola e del Mozambico
o di qualunque altro paese colpito da problemi di questo tipo per
realizzare questo compito nei propri territori.
Questo tema occupò quasi l’ultima parte del secondo
incontro, sebbene continuò per vari minuti nello stesso tono di
amicizia e cortesia.
Il poco gradevole punto era stato toccato dalla
nostra parte in modo sereno e ragionevole, ascoltato e
all’apparenza capito e accettato dalla delegazione canadese.
Le basi dei due programmi importanti di
cooperazione con paesi terzi erano state accordate in principio,
su esse si avrebbe continuato a lavorare.
Ho osservato bene il carattere e la personalità del
Primo Ministro canadese. E’ un uomo con il quale è un piacere
conversare, è dotato di un buon senso dell’umorismo, con il quale
si può avere un interscambio interessante su svariati temi. Si
preoccupa per determinati problemi del mondo attuale e si
entusiasma con i progetti di sua preferenza; conosce molte
personalità politiche, sa usare la sua esperienza e gli piace
contare aneddoti per lo più interessanti e opportuni. Mi sembrò
sinceramente patriottico. E’ molto leale al suo paese e sente
orgoglio per il medesimo. Un credente fanatico del modo
capitalista di produzione, quasi fosse una religione monoteista, e
dell’idea ingenua che questa è l’unica soluzione per tutti i
paesi, in qualunque continente, epoca, clima o regione del mondo.
Si educò in questa filosofia. Non sono sicuro che con questa
filosofia possa capire perfettamente le realtà del mondo d’oggi.
Conobbi Trudeau, un eccezionale statista, di grande
modestia e di grande umiltà, di pensiero profondo e uomo di pace;
sono sicuro che comprese molto bene il mondo e comprese molto bene
anche Cuba.
Poi ci furono altre attività. Partecipai ad un
ricevimento di Chrétien nel giardino dell’ambasciata del Canada.
Era allegro, conversatore, di buon animo. Presto si sarebbe
riunito con Clinton. Lo accompagnai fino all’aeroporto. Quando
eravamo quasi arrivati a Boyeros, gli chiesi di trasmettere a
Clinton un saluto e che non esistevano, da parte nostra,
sentimenti di ostilità nei suoi confronti. Parole ben misurate.
Più che altro, una cortesia con chi ci visitava. Pagai caro
questo. Tempo dopo ricevetti da Chrétien una lettera di propria
mano raccontandomi che aveva trasmesso a Clinton il mio desiderio
di avere migliori la relazioni con lui. Non era esattamente ciò
che gli dissi. Non è nel mio stile; non si concilia con il mio
atteggiamento di tutta la vita. Poteva sembrare una ridicola
preghiera al potente Presidente degli Stati Uniti. Mi misi a
scrivere una lettera, anch’ io di propria mano, a Chrétien
dicendogli che questo non era stato il mio messaggio. L’ affare
risultava imbarazzante. Non era facile conciliare il disgusto con
i termini precisi con i quali io dovevo redigere questa lettera, e
in certo qual modo il chiarimento diventava, al tempo stesso, una
specie di critica al nostro amico. Quasi avevo raggiunto lo scopo,
però alla fine abbandonai l’idea, conservai la bozza della
lettera, che forse è possibile trovare in qualche vecchio
quaderno, e mi dimenticai del fatto fino ad oggi. Non potei
nemmeno rispondere al suo delicato gesto di scrivermi di propria
mano. Può darsi che abbia creduto che io ero un maleducato
incorreggibile.
Passarono i mesi e non avevo alcuna notizia del
progetto haitiano, che da parte nostra attendeva solo una breve
risposta. Venne l’uragano Georges. Distrusse Santo Domingo e colpì
la vicina Haiti, protetta solo dalle montagne dominicane di 3000
metri di altezza, vicine alle frontiere di questo paese, che
servirono quali barriere rompivento, e proseguì poi verso Cuba.
Quando ancora soffiavano le ultime raffiche
dell’uragano Georges a nord dell’occidente del paese, la notte
piovosa del 28 settembre, in un discorso che pronunciai durante la
chiusura del V Congresso dei Comitati di Difesa della Rivoluzione,
dissi:
“Domando alla comunità internazionale: Volete
aiutare questo paese, che ha sofferto invasioni ed interventi
militari fino a poco tempo fa? Volete salvare vite umane? Volete
dare una prova di spirito umanitario? Adesso parliamo dello
spirito umanitario e parliamo dei diritti dell’essere umano.
“ (...) Sappiamo come si possono salvare 25000
persone ad Haiti tutti gli anni. Si sa che ogni anno muoiono 135
bambini da 0 a 5 anni ogni 1000 nati vivi”.
(...)
“ Partendo dalla premessa che il governo e il
popolo di Haiti accetteranno con gratitudine un’importante e
vitale aiuto in questo campo, proponiamo che paesi come il Canada,
che ha strette relazioni con Haiti, o un paese come la Francia,
che ha strette relazioni storiche e culturali con Haiti, o i paesi
dell’Unione Europea che si stanno integrando e che ormai hanno
l’euro, o il Giappone, fornissero le medicine, noi siamo disposti
a inviare i medici per questo programma, tutti i medici di cui
hanno bisogno, persino se fosse necessario inviare tutti i
laureati di un anno, un intero corso. (...)
“Haiti non ha bisogno di soldati, non ha bisogno di
invasioni di soldati; quello di cui ha bisogno sono invasioni di
medici per cominciare, quello di cui ha bisogno, inoltre, sono
invasioni di milioni di dollari per il suo sviluppo.”
Novembre del 1998. Sono trascorsi sette mesi e non
ci sono notizie di Chrétien sui temi trattati. Visita Cuba il
ministro della Sanità del Canada, Alan Rock. Ci incontriamo.
Aveva appena ricevuto in Canada la dottoressa Nkosazana
Dlamini-Zuma, ministro della Sanità di Sudafrica. Era molto
impressionato da quello che ella gli raccontò sul lavoro dei
medici cubani nei villaggi del Sud Africa.
Gli spiego in dettaglio il programma di
cooperazione congiunta che avevamo proposto. Percepii in lui un
uomo sensibile e capace che comprendeva le possibilità e
l’importanza di tale programma. Gli chiesi di accelerare le
gestioni riferite al programma di cooperazione congiunta in Haiti,
e una risposta del Canada a quello che avevo proposto al suo paese
non solo personalmente al Primo Ministro ma anche pubblicamente.
Si impegnò a presentare un progetto al Primo Ministro e al
Gabinetto.
Il 4 dicembre Cuba invia per conto proprio la prima
brigata di emergenza per assistere le vittime dell’uragano Geroges.
Le brigate mediche continuarono a susseguirsi nelle settimane
seguenti fino a raggiungere la cifra di 12 ed un totale di 388
cooperanti cubani, ed ancora i nostri amici canadesi non avevano
dato segno di vita. Il programma medico che avevamo proposto da
realizzare congiuntamente con il Canada era in corso con lo sforzo
di Cuba, del governo di Haiti e con l’appoggio delle
Organizzazioni Non Governative.
A fine di febbraio, il ministro degli Esteri di
Cuba informò di aver saputo per via extraufficiale che il governo
del Canada avrebbe donato 300 000 dollari per il programma medico
di Haiti, notizia che, com’ è logico, ci causò grande
soddisfazione. Il 4 marzo erano trascorsi ormai più di dieci mesi
senza una risposta ufficiale del Canada. Lo stesso giorno,
tuttavia, arrivò una notizia veramente sorprendente. Il ministro
degli Esteri del Canada, il signor Lloyd Axworthy, inviò una
lettera al ministro degli Esteri di Cuba, Roberto Robaina, che tra
le altre cose comunica:
“ (...) sono stato informato di una legge
recentemente approvata dall’Assemblea Nazionale cubana, il 16
febbraio del 1999, intitolata “Legge per la Protezione
dell’Indipendenza Nazionale e dell’Economia di Cuba”, che è
diretta a frenare l’aumento della delinquenza e delle attività
sovversive.”
(...)
“Ho chiesto ai miei funzionari di fare un’analisi
delle recenti misure adottate da Cuba, inclusa la prossima
condanna dei membri del Gruppo di Lavoro della Dissidenza Interna,
allo scopo di determinare il suo impatto nella gamma di attività
che abbiamo intrapreso in virtù della Dichiarazione Congiunta
bilaterale. Fintanto non sarà conclusa questa valutazione, ho
sollecitato ai miei funzionari di astenersi di realizzare nuove
iniziative congiunte. Scriverò ai miei colleghi del Gabinetto per
metterli al corrente di questa situazione perché possano
riflettere sui loro programmi di cooperazione bilaterale con Cuba.
Nel periodo immediato, ho sospeso l’analisi congiunta da parte
del mio dipartimento, del CIDA (Agenzia dello Sviluppo
Internazionale del Canada) e del Health Canada riguardo la
richiesta di Cuba per portare a vie di fatto la cooperazione
medica di un terzo paese in Haiti.”
(...)
“I giorni futuri saranno importanti per analizzare
se Cuba sceglierà la politica dell’avvicinamento e integrazione
alla comunità globale, o se continuerà la direzione incerta dei
giorni recenti. Spero che Lei sia capace di offrire un segnale che
possa contribuire a chiarire le intenzioni di Cuba. In
particolare, tale segnale sarebbe di grande utilità per garantire
che i recenti fatti non si trasformino in una preoccupazione senza
fondamenti nella Commissione dei Diritti Umani a Ginevra.”
Casualità? Pretesto per giustificare forti
pressioni dei suoi vicini del sud? Totale insensibilità di fronte
alla tragedia haitiana? Non voglio fare affermazione alcuna. Però,
come si può spiegare che trascorrano dieci mesi e durante questo
tempo, quando non erano ancora successi i fatti che motivarono una
decisione così drastica e una lettera così insolente, non ci sia
stata una risposta ufficiale?
Anche se non desidero offendere nessuno, neanche
l’illustre autore della lettera, è impossibile non indicare il
tono arrogante, prepotente, d’ingerenza e vendicativo con cui è
stata redatta questa lettera.
Quello che più mi dispiacque non furono le misure
punitive e le minacce contro Cuba - a questi castighi siamo
abituati da più di 42 anni - , ma il fatto che dei 300 000
dollari, che non so nemmeno se si trattava di dollari statunitensi
o canadesi- 0,64 centesimo di dollaro nordamericano al cambio
di ieri 24 aprile 2001, giacché non ho avuto tempo per controllare
quale era il cambio il 15 marzo di quell’anno - non arriveranno
mai ai malati haitiani. Non avrei mai immaginato che ci avrebbero
castigato al costo di migliaia di vite di bambini haitiani che
avrebbero potuto salvarsi, giacché in questo paese, in quello
stesso momento, stavano morendo non meno di 25 000 per anno, la
maggior parte di queste morti avrebbero potuto evitarsi con
semplici vaccini che si sarebbero potuti comperare con quei
dollari, fossero nordamericani o canadesi. Senza dubbio, qualcuno
commise un grande errore.
Come qualcosa di elementarmente logico, io avevo
creduto all’informazione extraufficiale che mi comunicarono dal
Ministero degli Esteri. Non potrei nemmeno affermare, in questo
istante, se fu o non fu certo.
Ormai non c’è niente da lamentare. Ad Haiti
lavorano oggi 469 medici e lavoratori della Sanità cubani. In due
anni e cinque mesi, fino al mese di aprile, sono passati per Haiti
861 collaboratori senza ricevere dal popolo haitiano un solo
centesimo per il loro servizio. Attendono 5072000 dei 7803230
abitanti che ha il paese; il 62% della popolazione haitiana. Hanno
salvato molte migliaia di vite umane e hanno alleviato il dolore o
ristabilito la salute ad altre centinaia di migliaia..
Quest’anno si è iniziata, con la consegna di tutti
i vaccini da parte del Giappone con la partecipazione dell’UNICEF,
la prima fase della campagna massiccia di vaccinazione contro otto
malattie immuno prevenibili, dove Cuba assume l’esecuzione del
programma con il personale di sanità che si trova in questo paese,
i quali saliranno a 600 nel corso di quest’anno. Inoltre, sappiamo
che nel futuro, e con lo sforzo combinato di Francia, Giappone,
Cuba e Haiti, si svolgerà una nuova campagna di vaccinazione,
attualmente in preparazione, che in cinque anni darà a questo
paese estremamente povero del Terzo Mondo un livello immunitario
del 95 %.
Con la vittoria ottenuta da Brasile e Sud Africa
sui prezzi inaccessibili delle medicine contro l’AIDS, penso che
non è lontano il giorno in cui gli haitiani potranno proteggersi
anche contro questo terribile flagello mediante l’appoggio di
governi disposti a cooperare con risorse finanziarie , con le
istituzioni delle Nazioni Unite e con le Organizzazioni Non
Governative.
Haiti non è l’unico paese con il quale il popolo
cubano sta cooperando in programmi di salute sotto lo stesso
principio. Sono ormai 15. In questi programmi collaborano 61
Organizzazioni Non Governative con la partecipazione di più di
2272 lavoratori cubani della sanità, tra cui 1775 medici.
Ormai nessuno potrà sabotare la cooperazione di
Cuba con altri paesi del Terzo Mondo. Fatti e non parole. Azione
rapida e non aspettare le calende greche quando ci sono esseri
umani di paesi poveri che stanno morendo tutti i giorni ad ogni
ora. Alla formazione dei medici con spirito di sacrificio,
solidali e abnegati, il nostro piccolo paese presta ugualmente uno
speciale appoggio. Avanzare è possibile, sconfiggere calamità e
alleviare la tragedia umana che si abbatte su centinaia di
migliaia di persone, non sono mete irraggiungibili.
Oggi ringrazio le conversazioni che ho avuto con
Chrétien. Sono servite per provare che le iniziative sono
possibili ed anche le cooperazioni congiunte con la partecipazione
di due, tre, molti paesi. Dimostra anche che le ore che spendemmo
sia lui che io non furono inutili, e io ho seguito i suoi consigli
lavorando con maggior ardore per i diritti umani, per salvare vite
cercando di disattivare gigantesche mine antiuomo che stanno
portando il nostro mondo al limite di gigantesche esplosioni.
Piccoli esempi di quello che qualunque piccolo
paese può offrire, sono oggi più importanti che grandi patti che i
potenti trasformano in lettera morta e in grandi atti di demagogia
e in pose pubblicitarie per soddisfare vanità e ambizioni
personali.
Sono sicuro che Trudeau non avrebbe mai detto che
spese 4 ore dando consigli a qualcuno che non li aveva chiesti,
né avrebbe cercato giustificazioni per escludere da una riunione
vertice un paese degno, che non ha nemmeno mai sollecitato la sua
inclusione, per firmare un accordo che non avrebbe mai firmato.
La storia dirà chi ha ragione
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