Red Ronnie:
a Cuba i Beatles suonavano
Lettera al GIORNALE e a COLOMBATI
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23/1/07
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Sul "GIORNALE" del 18 gennaio 2007 ho letto il
lungo articolo «Cuba senza libre» del 18 gennaio.
Leonardo Colombati ha scritto che ogni volta che
ascolta una canzone dei Beatles pensa a Cuba dove, fino al 1978, i loro dischi
non potevano arrivare. Cito: «Tra le tante limitazioni della libertà
personale, la più assurda e persino la più odiosa mi sembrava il fatto che, ad
esempio, nel 1968, a un ragazzo di Cienfuegos fosse impedito di toccare il
cielo con un dito con le note di Hey Jude». Quindi criticava gli
«intellettuali», tra cui Abbado e me, che avevano firmato petizioni a favore
di Castro (in realtà era Cuba), scrivendo: «Ma non sarebbe inutile
raccontare... al maestro Abbado - e magari anche a Red Ronnie e a Manu Chao -
l’ostracismo nei confronti dei Beatles e dei Rolling Stones».
Abel Prieto, ministro della Cultura a Cuba, ha scritto Il volo del gatto, un
libro autobiografico, pubblicato nel 2001 anche in Italia da Marco Tropea. La
copertina spiega: «Tutti i colori di Cuba, la storia di un’amicizia e, sullo
sfondo, la musica dei Beatles». Abel, nato nel 1950, racconta la sua
adolescenza, dove la musica regnava sovrana. Riporto alcune parti: «La musica
continuava ad essere la grande forza agglutinante che ci manteneva uniti, e ci
faceva ascoltare la sua antologia personale dei Beatles e di Bon Dylan, di
Janis Joplin e dei Rolling Stones».
Quindi, alla fine degli anni ’60 a Cuba si ascoltavano i dischi dei Beatles.
Ma era un fatto di élite o di una sorta di carboneria clandestina? Sembra
rispondere ancora Abel Prieto. scrivendo: «Dovevamo accontentarci della
“massa”, che discuteva della rottura dei Beatles e si divideva tra la fazione
di Lennon e quella di McCartney. Un hippie negro e alto, con i capelli alla
Jimi Hendrix, ogni giorno analizzava una delle canzoni apparse sotto la doppia
firma Lennon-McCartney e spiegava dove aveva predominato il genere o il
temperamento (così lo definiva) di Paul, i suoi lampi di luce, il suo
ottimismo a prova di bomba, e dove il dubbio e il chiaroscuro di John».
Evito di riportare altre pagine del libro dove si parla di musica
anglosassone. Ricordo che rimasi colpito da come l’adolescenza di Abel Prieto
fosse stata simile alla mia, nel percorso musicale. Quando venne nel mio
programma «Help» gli feci notare proprio questi percorsi paralleli e lui mi
raccontò come si discutesse di musica, si analizzassero dischi e ci fosse
contrapposizione tra fan dei Beatles e dei Rolling Stones.
Non è un caso che i vertici della nuova politica
a Cuba, come Abel Prieto o Ricardo Alarcon, fossero tutti fan dei Beatles. Che
succede, allora, a Cuba oggi: hanno potere dissidenti degli anni ’60? Non
credo. Più semplicemente Colombati prende per oro colato dichiarazioni di
persone che, per vari motivi, non sono d’accordo con il governo cubano.
Rimangono i fatti, che vedono al potere a Cuba fan dei Beatles, ragazzi che
nel 1968 toccavano il cielo con un dito ascoltando Hey Jude e che hanno voluto
un Parque Lennon, con una statua di John seduto su una panchina, inaugurata il
2 dicembre 1980 personalmente da Fidel Castro.
Sempre nell’articolo, Colombati racconta la storia della canzone Guantanamera
e conclude: «Guantanamo, dove prima si mostrava la guajira per l’incanto del
poeta, ora è un lager, microcosmo infernale del più vasto inferno di Cuba».
Colombati «omette» di ricordare che Guantanamo è
una base lager degli Stati Uniti, non cubana, e che, proprio in questi giorni,
Amnesty International ha lanciato una campagna per farla chiudere. Questa è
l’unica precisazione extra musicale che mi permetto di fare e non entro nelle
solite polemiche sulla pena di morte a cui io, vegetariano che non uccido
neppure gli animali per mangiarli, sono totalmente contrario. Mi chiedo però
come mai tre giustiziati a Cuba nel 2003 valgano più delle migliaia di persone
giustiziate ogni anno nel mondo.
Per concludere, informo Colombati che il maestro
Abbado sarà a metà febbraio a Cuba per un grande concerto, con i musicisti
dell’Orchestra giovanile Simon Bolìvar del Venezuela, per continuare a fare
cultura con la musica in un Paese dove questo è permesso.
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