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16
ottobre 2007 -
V.Montoya
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L'immagine
immortale
del Che
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Rimpianto comandante:
L'8 ottobre 1967, dopo avere liberato il tuo ultimo combattimento nella
Quebrada del Yuro e cadere alla mercé dei tuoi nemici, la gamba ferita da
una pallottola e la gola infiammata dall'asma, il tuo diario di campagna
ed altri documenti scritti con la tua calligrafia, sono caduti nelle mani
delle forze armate. Cioè, passarono dal tuo zaino di cuoio ad una scatola
da scarpe che fu depositata come segreto di Stato nell'Alto Comando
Militare Boliviano; il tuo orologio Rolex, che ti tolse un soldato poco
dopo la tua cattura, passò al polso del colonnello Andres Selich; il tuo
fucile, quel fucile che avrei voluto ereditare per caricarlo sulla spalla
come tu lo avevi portato durante la lotta, cercando di infiammare l'animo
della rivoluzione latinoamericana, passò nelle mani del colonnello Centeno
Anaya, che lo prese senza sentire la stessa emozione di felicità che provò
Inti quando ti conobbe nella Casa di Calamina, a Ñancahuazú, dove tu gli
stringesti la mano da compagno, mentre un altro gli consegnava la sua
carabina M-2; la tua pipa, con la quale degustasti l'ultima boccata di
fumo, come chi è disposto ad aspettare con serenità l'ora della morte, la
regalasti al sergente Bernardino Huanca che si comportò in modo gentile
con te. Ma il capitano Mario Teran si affrettò e gridò: La voglio io! La
voglio io! Allora tu, guardandolo con infinito disprezzo, hai ritirato il
braccio e gli hai detto: No, a te, No.
A La Higuera rimanesti varie ore vivo. Ti rifiutasti di parlare coi tuoi
aguzzini ed hai avuto il coraggio di sputargli in faccia. Ma i mercenari,
disposti a compiere le istruzioni della CIA, decisero di eliminarti
nell'atto, per poi inventare la versione che eri caduto nel combattimento
della Quebrada del Yuro, e non che eri stato catturato vivo e giustiziato
tra le quattro pareti della scuola de La Higuera. Il tuo assassino fu lo
stesso sottufficiale che volle impadronirsi della tua pipa, che, ubriaco
ed assaltato dalla paura, entrò nell'aula ed eseguì l'ordine di
eliminarti. Ma fu tanto grande l'impressione che gli causasti che,
interrogato dalla stampa, confessò: Quello fu il peggiore momento della
mia vita. Quando arrivai, il Che era seduto in un banco. Quando mi vide,
disse: "lei è venuto ad ammazzarmi". Io mi sentii spaventato ed abbassai
la testa senza rispondere. Allora mi domandò: "Che cosa hanno detto gli
altri?" (riferendosi ai guerriglieri Willy e il Chino). Gli risposi che
non avevano detto niente, e lui rispose: "Erano uomini coraggiosi!". Io
non osai sparare, in quel momento vidi il Che grande, molto grande,
enorme. I suoi occhi brillavano intensamente. Sentii come se fosse sopra
di me e quando mi guardò fissamente, provai nausea. Pensai che con un
movimento rapido il Che poteva togliermi l'arma. "Stai tranquillo, mi
disse, e mira bene! Stai per ammazzare un uomo!". Allora feci un passo
indietro, verso la soglia della porta, chiusi gli occhi e sparai la prima
raffica. Il Che, con le gambe sconquassate, cadde a terra, si contorse ed
incominciò a perdere moltissimo sangue. Io recuperai il coraggio e sparai
la seconda raffica che lo raggiunse in un braccio, nella spalla e nel
cuore. Era già morto.
Poi ti trasportarono legato all'elicottero, dalla scuola de La Higuera
fino all'ospedale di Vallegrande. Ti iniettarono formalina nelle vene e ti
presentarono davanti alle macchine fotografiche della stampa su un tavolo
di legno, dove giacevi come Cristo, il Nazareno, con l'aspetto più da vivo
che da morto; avevi il torso nudo, i pantaloni rovinati, i piedi scalzi,
la barba folta fino al petto e la chioma cadendo come una cascata. Benché
il tuo sguardo fosse assente, i tuoi occhi irradiavano una strana
innocenza, accentuata dalle tue labbra socchiuse, quasi sorridenti nel
rigor mortis. Quel giorno coloro che contemplarono il tuo bel viso di
combattente, raccontano che, perfino dopo essere stato crivellato, il tuo
cadavere trasudava un'aureola che ispirava ammirazione e rispetto, forse
perché hai saputo sottomettere i tuoi ideali alle prova del fuoco, perché
facevano quello che dicevi, perché tu vivevi come pensavi e pensavi come
vivevi. In quella ultima fotografia, dove i curiosi si accalcano intorno a
te, lo sguardo fisso ed il respiro trattenuto, sembrano non uscire dal
loro stupore constatando che quell'uomo teso nella barella sia il
guerrigliero che volle creare due, tre... molti Vietnam in America Latina,
mentre i tuoi aguzzini, segnalando le ferite del tuo corpo, ti espongono
come un trofeo di guerra, benché non ti abbiano ucciso in combattimento ma
bensì in un modo vigliacco.
Tuttavia, questa non è la tua fotografia più conosciuta, bensì quell'altra
del 1960, quando il fotografo Alberto Korda, raccogliendo immagini per la
stampa a L'Avana, dopo l'incendio della nave francese che trasportava un
carico di armi ed approvvigionamenti per la difesa della rivoluzione,
fissò il tuo viso nel mirino della macchina fotografica e, attratto dalla
forza e dalla drammaticità del tuo sguardo teso nella baia, ti ha fatto
una fotografia che, una volta sviluppata nella camera oscura, girò il
mondo e si trasformò in un'alluvione di poster, bandiere, magliette,
targhe, cartelli, berretti e quadri; e ancora di più, il tuo viso si
dipinse nelle pareti e si fissò nella mente di chi ti ha mutilato le mani
e ti ha fatto sparire, cercando di zittire la tua voce, sotterrare i tuoi
ideali e distruggere la tua immagine che, oggi come sempre, è presente tra
noi, incitandoci a ripetere quelle frasi della lettera di addio che hai
scritto ai tuoi genitori: Un'altra volta sento sotto i miei talloni il
costato di Ronzinante; ritorno sulla strada con lo scudo al braccio...
Molti mi diranno avventuroso, e lo sono; ma di un tipo differente e di
quelli che mettono a rischio la loro pelle per dimostrare le loro
verità...
Così ti ricordiamo, comandante, con la stella sul basco ed il futuro nello
sguardo.
* l'autore è un
giornalista e scrittore boliviano esiliato in Svezia, dopo la liberazione
dalla prigione del dittatore Hugo Banzer grazie ad una campagna di Amnesty
International
tradotto da Ida Garberi
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16
ottobre 2007 -
R.Zibechi
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Il Che un
morto che
non smette di
nascere
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Lontano dall'opzione ideologica o dal
consumismo borghese, a 40 anni dalla sua morte, per una porzione
significativa dei giovani, il Che sembra rappresentare la resistenza al
conformismo.
Ha solo 20 anni e nessuna maglietta con l'immagine del Che nel suo
guardaroba. Ma quando ha dovuto concorrere al programma di televisione
"Pazzi per Sapere" rappresentando il suo liceo, si decise per la sfida.
Chiese prestato un pullover con l'emblematica immagine ad un amico e si
presentò col suo migliore sorriso davanti alle camere. Fu per
disubbidienza, mi dice Yamandú. Il programma è sponsorizzato dalla setta
Moon.. non è necessario dare più dettagli. Nelle culture giovanili le
parole eccedono e le immagini non hanno bisogno di spiegazioni. La forza
del gesto di Yamandú lo dice tutto.
Tra i giovani l'immagine del Che appare consociata ad una concezione
meticcia di disubbidienza, lontana da qualunque filiazione politica od
opzione a favore. Chissà sia Maradona, col suo Che tatuato sulla spalla
che insegna con provocatorio orgoglio, il migliore esempio di quella
disubbidienza spontanea confinante con la sfida. Per coloro che
normalmente leggono la vita in chiave ideologica, questa mescolanza
risulta incomprensibile; condannabile per eclettica, poco solida,
incoerente. Soprattutto quando l'effigie del guerrigliero sembra
intercambiabile con quella di personaggi come Bob Marley, un'altra icona
abituale di decorazione giovanile, con chi condivide un'aura di
provocazione e rifiuto alla doppia morale.
Maxi, 22 anni, studente di sociologia, ha al contrario una visione
differente del personaggio che brilla nella sua "matera" (recipiente per
bere il mate) in forma di adesivo. È il simbolo della rivoluzione, della
dedizione, del sacrificio per una causa, spiega in un linguaggio che non
risparmia i concetti. Questo caso rappresenta un'inequivocabile
costruzione che fa della coerenza la sua ragione di essere. Ancora così,
Maxi combina l'ideologia con gli affetti, una combinazione che si è
mostrata imbattibile nell'immaginario giovanile.
Tra tutti e due gli estremi, per dirlo così, vivono molti Che: dalla
ragazza che enfatizza nel santino, fino al "perché sì" incredulo, che non
capisce perché sarebbe necessaria una logica che spieghi un gusto,
un'opzione estetica o un'affinità politica. Lì radica, chissà, la forza
dell'immagine che Ernesto Guevara trasmette a generazioni che non vissero
il clima di confronto degli anni sessanta e degli anni settanta, ma che
neanche conoscono i dettagli della vita del guerrigliero, a parte del
tipico "morì lottando" o "ha dato la vita per le sue idee" che ripetono
alcuni ed alcune. Si può sospettare, benché sia difficile trovare chi lo
formuli in questo modo, che il Che è avvertito come un eroe, più culturale
che politico, nel senso buono del termine. Col risultato che in tanti
luoghi appaia insieme ad altri eroi vincolati alla musica e allo sport, in
generale uomini che hanno vissuto contro l'ordine prestabilito.
In ogni caso, chiedere ai giovani quali sono le ragioni nel momento in cui
si vuole conoscere i motivi di una scelta -come ha fatto questo cronista -
è quasi eresia che si paga con l'indifferenza. Lo storiografo peruviano
Alberto Flores Galindo osserva nel suo paese come l'immagine del Che
accompagna i santini del Cristo dei Miracoli o della Vergine del Carmen.
Conclude che si tratta della rielaborazione di un personaggio storico da
parte della cultura popolare, cosa che spiega il perché venga imparentato
con vergini e santi, e non con un'eredità degli anni sessanta, come in
certe occasioni si vorrebbe. Chissà che questa rielaborazione popolare
spieghi perché a Rio de La Plata, il Che appare nelle tribune dove i
tifosi agguerriti agitano le bandiere "manyas" o tricolori. Che cosa
potrebbe essere il Che, in questi luoghi se non un'icona associata al
calcio.
Se fosse certo che siamo davanti ad una rielaborazione popolare-giovanile
di un mito, collocato in un personaggio storico che in sole quattro decadi
sorvola invincibile dalla crisi del socialismo reale fino alla difficoltà
delle sinistre nel momento di cambiare il mondo, sarebbe solo
comprensibile dall'interno di questa cultura, dai suoi codici, modi e
forme di vivere il presente. È in questo senso che l'espansione
dell'iconografia del Che non può sorprendere nessuno. Per caso i giovani
potrebbero mitizzare qualche calciatore quando assistiamo allo strepitoso
fallimento del principale sport nazionale? Detto altrimenti, c'è qualcosa
di eroico nella nostra società, nei suoi governanti, nei suoi
intellettuali, nei suoi artisti, che meriti di trasformarsi in icona,
nella rappresentazione dei sogni degli adolescenti? Mentre questo continua
ad essere così, e chissà anche quando cambierà, l'immagine del Che
continuerà a sorridere nell'immaginario giovanile.
* l'autore è un
giornalista uruguayano, analista internazionale, è attivo collaboratore di
organizzazioni sociali e mezzi di comunicazione alternativi
traduzione di Ida Garberi
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16
ottobre 2007 - G.Carotenuto
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Il Che, la
testa dura
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Mi rompono gli anniversari e non trovo
parole per parlare di lui. Chi sono io perché giornali, radio, mi chiamino
per parlare di lui? E poi mi esigono che prenda posizione, mi pretendono,
tanta merda[1]... continuamente e questo mi rompe ancora di più.
Io mi ricordo l'emozione del Pepe che mi portava al Caffé La Habana, lì in
Messico, dove Ernesto conobbe i cubani. E proprio lì dietro l'angolo, a
vedere il punto esatto dove gli sbirri di Machado rubarono a Tina[2], e a
tutti noi, Julio Antonio[3]. E mi ricordo del Marcelo Ricardi[4], a
Bellavista. Quando entravo nel "4 y 10[5]" immediatamente mi salutava e mi
dedicava "El necio", lì a Santiago. Mi inorgogliva, accresceva il mio ego,
nonostante fosse totalmente immeritato. Ma mi ci dovevo confrontare e
confrontarmici rispetto al mio quotidiano qualsiasi. E mi animava, anche
se mi causava vergogna (sana) ascoltare Marcelo suonare Silvio, e io
bevendo birra, oppure "tirando fuori una bottiglia dal frigorifero, avere
fame e mangiare, questa cosa così semplice, digitare le tre lettere
mondiali del tuo nome...[6]"
E ancora di più mi rompe da morire quando parlano di lui. Lo raccontano
come un tipo assurdo, inarrivabile, un gigante, un mito, un dio, lì
nell'empireo. É la miglior maniera di assassinare il Che piccolino che
tutti abbiamo dentro. Lui non era altro che un uomo. Con "un fucile e un
mandato[7]", lo stesso mandato di Don Salvador, di Fidel, del prete Mujíca[8],
di Sendic, di Julio Antonio, Emiliano[9], di Ivonne[10] quando era piccola
e ancora adesso, di Roque Dalton, di Juan e Maria, di Pedro e José[11] e
milioni di donne e uomini che hanno il coraggio di abbattere tutte le
recinzioni che dividono un continente. Quelli di ieri e quelli di
oggi[12], con Evo, con Hugo, i Sem Terra, gli indigeni, questa generazione
nuova che non ne sa molta eppure sa nel proprio intimo cosa vuol dire
"ribellione". Il normale, quotidiano, comune diritto-dovere ad essere
"ribelli" contro la disuguaglianza e l'ingiustizia.
Ha detto Evo[13], ieri a la Higuera, che fino a che ci sarà capitalismo il
Che sarà vigente, fino a che non ci sarà l'unità latinoamericana il
pensiero del Che sarà necessario. E poi, aggiungo io, poi il Che sarà
ancora più vigente e necessario, perché l'uomo nuovo dovrà essere ancora
più ribelle, e la ribellione sarà ancora più necessaria, "il giorno che
finalmente bruceremo le navi[14]"...
...la testa dura del riconoscere chi è il nemico...
la testa dura di vivere senza avere prezzo[15]...
[1] Silvio Rodriguez, El necio.
El necio è una canzone dedicata da Silvio ad Ernesto, possiamo tradurlo...
la testa dura.
[2] Tina Modotti.
[3] Julio Antonio Mella, dirigente rivoluzionario cubano e compagno di
Tina Modotti, assassinato nel 1929 a Città del Messico dai sicari del
dittatore Machado.
[4] Trovatore cileno.
[5] Luís Eduardo Aute.
[6] Mario Benedetti, frammenti di Costernados, rabiosos, in A ras de sueño,
1967, «Inventario», cit. p. 434.
[7] Mario Benedetti, frammenti di Allende, in Nombres proprios - Viento
del exilio, 1980-1981, «Inventario», cit. p. 59.
[8] Carlos Mujíca, sacerdote per il terzo mondo assassinato dalla AAA in
Argentina.
[9] Emiliano Zapata.
[10] Ivonne Trías.
[11] Daniel Viglietti, A desalambrar.
[12] Jaime Roos.
[13] Evo Morales, Presidente della Repubblica boliviana.
[14] Mario Benedetti, frammento di Quemar las naves.
[15] Silvio Rodriguez, El necio.
*l'autore è professore italiano di Storia del
Giornalismo e di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze della
Comunicazione dell'Università di Macerata. Studioso di politica
internazionale, dei regimi dittatoriali e di storia contemporanea
dell'America Latina.
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8 ottobre 2007 -
J.Saramango
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Breve meditazione
su un
ritratto del Che
Guevara
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Non importa quale ritratto. Uno qualunque: serio,
sorridendo, con l'arma in mano, con Fidel o senza Fidel, proclamando un discorso
nelle Nazioni Unite, o morto, col petto nudo e gli occhi socchiusi, come se
dell'altro lato della vita volesse ancora accompagnare la traccia del mondo che
ha dovuto lasciare, come se non si rassegnasse ad ignorare per sempre i cammini
delle infinite creature che stavano per nascere. Su ognuna di queste immagini si
potrebbe riflettere profusamente, in un modo lirico o in un modo drammatico, con
l'obiettività prosaica dello storiografo o semplicemente come chi si dispone a
parlare dell'amico che scopre di avere perso perché non è mai riuscito a
conoscerlo...
In un Portogallo infelice ed imbavagliato da Salazar e da Caetano arrivò un
giorno il ritratto clandestino di Ernesto Che Guevara, il più celebre di tutti,
quello fatto con macchie forti di nero e rosso, che si convertì nell'immagine
universale dei sogni rivoluzionari del mondo, promessa di vittorie così fertili
che non dovrebbero degenerare mai nella routine né in scetticismi, ma prima dare
luogo ad altri molti trionfi, quello del bene sul male, quello della giustizia
sull'iniquità, quello della libertà sulla necessità. Incorniciato o fissato alla
parete con mezzi precari, quel ritratto fu presente in dibattiti politici
appassionati in terra portoghese, esaltò le argomentazioni, attenuò gli
scoraggiamenti, cullò le speranze. Fu visto come un Cristo che sarebbe disceso
dalla croce per togliere dalla stessa croce l'umanità, come un essere dotato di
poteri assoluti che fosse capace di estrarre da una pietra l'acqua con cui si
avrebbe ammazzato tutta la sete, e di trasformare quella stessa acqua nel vino
con cui si berrebbe lo splendore della vita. E tutto questo era certo perché il
ritratto del Che Guevara fu, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della
dignità suprema dell'essere umano.
Ma fu anche usato come decorazione incongruente in molte case della piccola e
della media borghesia intellettuale portoghese, i cui integranti consideravano
le ideologie politiche di affermazione socialista come un mero capriccio
congiunturale, forma suppostamente rischiosa di occupare ozi mentali, frivolezza
mondana che non ha potuto resistere al primo scontro con la realtà, quando i
fatti vennero ad esigere il compimento delle parole. Allora, il ritratto del Che
Guevara, attestazione, in primo luogo, di tanti infiammati annunci di
compromesso e di azione futura, giudice, ora, della paura coperta, della
rinuncia vigliacca o del tradimento aperto, fu tolto dalle pareti, nascosto,
nella migliore ipotesi, in fondo ad un armadio, o radicalmente distrutto, come
si vuole fare con qualcosa che fosse stato un motivo di vergogna.
Una delle lezioni politiche più istruttive, nei tempi di oggi, sarebbe sapere
quello che pensano di se stessi quelle migliaia e migliaia di uomini e donne che
ebbero un giorno il ritratto del Che Guevara sulla testata del letto, in tutto
il mondo, o di fronte al tavolo da lavoro, o nella sala dove ricevevano gli
amici, e che ora sorridono per avere creduto o aver finto di credere. Alcuni
direbbero che la vita cambiò, che Che Guevara, perdendo la sua guerra, ci fece
perdere la nostra, e pertanto era inutile mettersi a piangere, come un bambino a
cui è stato rovesciato il latte. Altri confesserebbero che si sono lasciati
avvolgere da una moda del tempo, la stessa che ha fatto crescere le barbe ed
allungare le chiome, come se la rivoluzione fosse una questione tra
parrucchieri. I più onesti riconoscerebbero che il cuore gli fa male, che
sentono in lui il movimento perpetuo di un rimorso, come se la loro vera vita
avesse sospeso il suo corso ed ora chiedesse a loro, ossessivamente, dove
pensano di andare senza ideali né speranze, senza un'idea di futuro che dia
qualche senso al presente.
Che Guevara, se così si può dire, esisteva già prima di essere nato, Che Guevara,
se così si può affermare, continuò esistendo dopo essere morto. Perché Che
Guevara è solo l'altro nome di quello che c'è di più giusto e degno nello
spirito umano. Quello che tante volte vive assopito dentro di noi. Quello che
dobbiamo svegliare per conoscere e conosciamo, per aggregare il passo umile di
uno solo a quello di tutti.
*l'autore è un famoso scrittore portoghese,
Premio Nobel per la Letteratura nel 1998
traduzione di Ida Garberi
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