Quest’anno, alla
rivista Time, è capitato un curioso incidente. Ha pensato di affidare ai suoi
lettori on line la scelta dell’ “uomo dell’anno”, cui consacrare la prima
copertina del 2007. Pessima decisione, visto che il personaggio più votato è
stato il presidente del Venezuela Hugo Chávez, seguito dal capo del governo
iraniano, Mahmoud Ahmadinejad.
Di fronte a due nomi imbarazzanti, Time ha scelto una via degna di Ponzio Pilato.
Ha cioè deciso di conferire il titolo di “uomo dell’anno” ai votanti stessi. La
copertina è andata a un generico “popolo di Internet”.
Ebbene, Carmilla non sta al gioco e conferisce il titolo proprio al personaggio
indicato dai lettori di Time. Seguono le motivazioni.
Sono tre anni che su Carmilla non mi occupo dell’Iraq. L’ultima volta che lo
feci fu con un articolo intitolato
L’Iraq è un severo maestro. A ciò che scrissi
allora non ho trovato, in seguito, altro da aggiungere. Gli esiti catastrofici
dell’intervento presunto “umanitario” sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso
governo degli Stati Uniti ha finito per ammettere la propria sconfitta. Saddam
Hussein è stato impiccato, ma la fine della sua dittatura lascia un paese in
piena guerra civile e sull’orlo della divisione, governato da un esecutivo
fantoccio che in realtà non controlla nulla, e retto (si fa per dire) da una
Costituzione che altri hanno scritto per suo conto.
Tutti – dico tutti – i precedenti interventi armati “umanitari”, “democratici”,
“preventivi”, sono finiti allo stesso modo: con pure bruciature sulla carta
geografica. La situazione nel Kosovo, di cui non parla più nessuno, è
semplicemente ingestibile. La Somalia è un inferno in cui si combattono bande
islamiste, poteri feudali e un’Etiopia mossa da poco celate intenzioni imperiali
sulla regione. L’Afghanistan, dotato a forza di un presidente-marionetta che non
controlla nemmeno la periferia della capitale, pare ripiombato in pieno
feudalesimo.
Ricordo un dialogo telefonico che ebbi all’epoca dei bombardamenti
sull’Afghanistan, nella trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre, con due
“opinionisti” fra i più ambigui: Gianni Riotta e – udite, udite – Maria Giovanna
Maglie. Il primo, appena capì (ci mise un po’ a farlo: è meno sveglio di quanto
si creda) che ritenevo l’invasione dell’Afghanistan, in quelle forme efferate,
qualcosa di controproducente, mise giù il telefono. La seconda, femminista a
scoppio ritardato, mi strillò nelle orecchie che finalmente le donne afgane si
erano liberate dell’odioso bourkha. Mi dispiace per lei, ma non è vero per
niente. Le afgane indossano il bourkha come prima. La sua abolizione non era nei
programmi né dell’attuale presidente-copertina, l’ex ristoratore Kanzai potente
quanto Romolo Augustolo, né della cosiddetta Armata del Nord, coalizione
tumultuosa di feroci capitribù (qualcuno ricorderà il parlamento arabo del film
Lawrence d’Arabia), né, mi dispiace per i fan, del mitico Massud. Integralista
musulmano, in apparenza filo-occidentale, che tra i suoi bersagli ebbe sempre le
scuole afgane aperte anche alle donne.
Il suo ideale, in certa misura, è stato conseguito. Non ci sono più i Talebani
al potere, ma l’Afghanistan “liberale” e liberato somiglia molto al precedente.
A pochi, tra i governanti del mondo e tra gli operatori dei media al loro
servizio, sorge il dubbio che “guerre umanitarie”, stragi di civili (altrimenti
detti “vittime collaterali”), occupazioni armate servano a poco o a nulla.
Le uniche invasioni statunitensi pienamente riuscite, nell’ultimo ventennio,
sono state quelle di Grenada e di Panama. Un’isoletta con vocazione turistica e
una città, peraltro bruciata per un terzo (con gli abitanti dentro). Splendidi
esempi di strategia politico-militare.
Le minacce del basso impero americano, invasato
dalla sua vocazione protestante di esportare modelli di società e stili di vita,
si sono spostate sempre più a Est. Qui hanno trovato controparti più rigide di
ciò che si attendevano. Una di queste è la Cina, che nelle settimane scorse ha
deciso, dopo anni di tentennamenti, di sostituire l’euro al dollaro nelle
transazioni internazionali. Sulla traccia di ciò che hanno promesso di fare, in
tempi appena un poco più lunghi, Russia, Iran e India (quest’ultima più propensa
a usare l’oro, invece che la moneta europea). Brasile e Argentina, mi informa il
giornalista italiano residente in Venezuela Tito Pulsinelli (presto
pubblicheremo un suo articolo, primo di una serie), hanno deciso di usare negli
scambi la moneta nazionale, in attesa della moneta unica del Mercosur, il
mercato comune latinoamericano.
Una delegazione americana, capeggiata dai senatori Paulsen e Bernanke, si è
precipitata in Cina, ma è tornata a mani vuote. I cinesi, negli ultimi anni,
hanno perso troppo, dagli scambi in dollari, per un ripensamento. La decisione è
irreversibile.
Quando Emmanuel Todd pubblicò il suo Dopo l’impero, ed. Net, 2005 (“Après
l’Empire”, Gallimard, 2002), pochi presero sul serio la tesi centrale del
saggio: l’aggressività dell’amministrazione Bush sarebbe stata dovuta non alla
forza, bensì alla debolezza crescente degli Stati Uniti. Debolezza di natura
prevalentemente economica, e legata all’enorme debito estero della superpotenza,
finora coperto dall’essere il dollaro la moneta internazionale di scambio.
La perdita di quest’ultima prerogativa del dollaro porrebbe allo scoperto la
fragilità dell’economia americana, con conseguenze facili da prevedere. Forse
anche per evitare questo Bush ha attaccato due paesi, Afghanistan e Iraq,
strategici nel campo degli approvvigionamenti energetici, uno dei quali – l’Iraq
– era stato il primo a minacciare il passaggio all’euro quale moneta di scambio.
Se c’è una cosa chiara a tutti, è che la “lotta al terrorismo” era, almeno nel
caso iracheno, puro pretesto, e che la battaglia per la democrazia nel mondo
costituiva il più inconsistente degli alibi. Bush era interessato al bourkha
delle donne afgane quanto alla vita sessuale dei formichieri.
Purtroppo per lui Cina e Russia non sono passibili di invasione armata e, oggi,
non lo è nemmeno un’America Latina quasi completamente ribelle. Restano,
all’amministrazione statunitense, labili possibilità di ricatto per interposta
persona. Così, la fedele Arabia Saudita (un bel modello di democrazia!), ha
annunciato alla Cina, assetata di risorse energetiche a causa di uno sviluppo
economico travolgente, che non le fornirà petrolio se non in cambio di dollari.
La Cina ha risposto alla minaccia stringendo accordi con altri paesi fornitori
di petrolio: Iran, Nigeria ecc., fino al Venezuela. Ha risorse energetiche
assicurate per trent’anni.
Parlando di Venezuela torna in ballo Hugo Chávez, l’uomo dell’anno.
Non è tanto facile accusare Chávez di essere un
“dittatore”. Le sue conferme, alla presidenza del Venezuela (l’ultima col 67%
dei suffragi), sono avvenute attraverso elezioni assolutamente limpide,
monitorate da una folla di osservatori internazionali. In cambio, Chávez ha
patito, dai tristi sostenitori del “liberalismo occidentale”, attentati da cui
pochi sarebbero usciti indenni, senza un enorme consenso popolare alle spalle.
Tali furono, nel 2002, lo sciopero dell’industria petrolifera, di cui lui
auspicava una gestione con finalità sociali, e nello stesso anno un colpo di
Stato apertamente appoggiato dagli Usa, condito da notizie totalmente false
provenienti dai media privati (se oggi sappiamo la verità lo si deve al coraggio
di alcuni documentaristi inglesi, che filmarono quanto accadeva).
Chávez rimase prigioniero due giorni e fu liberato grazie a un’incontenibile
pressione popolare a suo sostegno.
Chávez si sottopose anche a un referendum concepito per abbatterlo, e che invece
lo riconfermò. Poi agì in piena coerenza con quelle che erano state le sue
promesse. Riportò le risorse petrolifere sotto il controllo dello Stato, e fece
sì che le eccedenze andassero a beneficio dei meno abbienti, sotto forma di
servizi d’ogni tipo (cosa gravissima agli occhi del corrispondente dal Venezuela
di Repubblica, pronto a denunciare lo scandalo di plebi affidate a un’assistenza
pubblica omnipervasiva). Instaurò scambi internazionali in cui il petrolio era
pagato non in dollari, bensì in beni e servizi. Avviò ripartizioni di terre
incolte, progetti urbanistici, sostegno alle cooperative, protezioni per la
pesca.
Peggio ancora, Chávez ha allacciato rapporti fraterni di scambio con l’Iran
(alla faccia della “guerra di civiltà”: cattolici da una parte, musulmani
dall’altra), con la Cina, con buona parte dell’America Latina. Ha relazioni
strettissime, oltre che con Cuba, con Bolivia ed Ecuador. Coltiva amicizia con
Brasile, Argentina, Uruguay ecc., e spesso si propone quale mediatore nei
conflitti che ancora dividono questi paesi. Ma il peggio del peggio è stato il
chiudere la propria ambasciata in Israele, dopo i bombardamenti sul Libano, con
la laconica motivazione che intrattenere rapporti diplomatici con un “paese
così” non gli interessava, e non interessava al Venezuela.
Il crimine capitale di Chávez, agli occhi dei
nostri maggiori quotidiani, è stato proclamare l’attualità di un “socialismo del
XXI secolo”. Tale socialismo non è in realtà tanto più estremo della
socialdemocrazia cui il nostro “centrosinistra”, qualche volta, si richiama,
eppure basta a suscitare orrore. Vediamo, molto in breve, di cosa si tratti, e
perché le reazioni siano feroci a tal punto (cioè fino ad avallare, nel 2002, un
colpo di Stato contro Chávez, spacciandolo come un ritorno a una non meglio
precisata “democrazia”, mentre Chávez stesso, la vittima, sarebbe un golpista).
In Spagna è uscito nel 2005 un libro così reazionario e codino da mettere i
brividi, ma quanto mai interessante, di tale Jesús Trillo-Figueroa, intitolato
La ideología invisible. El pensamiento de la nueva izquierda radical (ed.
Libroslibres, Madrid). Per quanto ne so, si tratta della prima opera in Europa
che cerca di dare organicità e sistematicità alle tesi di quella che, ormai
universalmente, viene definita “sinistra radicale” e che, in apparenza, si
direbbe poggiare sul puro pragmatismo.
Il merito di Trillo-Figueroa, pur nell’ambito di un’avversione persino
viscerale, è di avere individuato il femminismo, e le modificazioni che ha
indotto nel movimento operaio tradizionale, quale componente di un socialismo di
nuovo conio, non esclusivamente marxista. Un socialismo, cioè, in cui la
tematica della proprietà dei mezzi di produzione non è più l’unico perno, mentre
lo sono anche le condizioni individuali di vita e la loro rispondenza a bisogni
umani elementari, tra cui la libertà (sia personale che sociale). Una tesi che,
agitata con forza dalle femministe, si è poi trasmessa a buona parte dell’
“ultrasinistra” europea e, oserei dire, mondiale, fino a caratterizzare i
momenti migliori del movimento no global.
Accettare il punto di vista femminista conduce, secondo un emulo di Pio IX come
Trillo-Figueroa (con tutto il rispetto per la felicità delle sue intuizioni, di
cui sembra incapace la “sinistra storica”), alla distruzione della famiglia e
alla negazione dei ruoli sessuali. Ammesso che ciò sia un male, la ripercussione
di quel discorso incrina soprattutto alcuni presupposti del “socialismo reale”:
la santificazione dello Stato-padre, l’identificazione Stato-partito,
l’assunzione del partito – e dunque dello Stato, e dunque del suo governo – a
giudice unico di cosa sia bene per il proletariato, ecc.
Fattori, tutti, che hanno finito col rendere la vicenda del socialismo del XX
secolo una tragedia, ogni volta che il movimento delle classi subalterne si è
fatto Stato (ferma restando la positività di alcune conquiste sociali che, in
regime capitalista, erano solo un sogno. Per dirne una, nell’ex Germania Est,
tre anni di congedo pagato dal lavoro a una partoriente. Negli Stati Uniti una
donna che stia per partorire ha normalmente diritto a un congedo di una
settimana).
Un’inchiesta condotta tra i giovani russi, circa
tre anni fa, condusse a questo risultato. La maggioranza di loro voleva che: 1)
fossero statali le industrie strategiche, dalla metallurgia pesante,
all’energia, alle comunicazioni portanti; 2) fossero a base cooperativa la
grande agricoltura e la media industria; 3) fossero privati il commercio,
l’industria culturale, il resto dell’agricoltura, le comunicazioni su scala non
monopolistica, le rimanenti attività; 4) il tutto poggiasse su meccanismi
democratici di raccolta del consenso.
I giovani russi non lo sapevano, ma il Nicaragua, all’epoca del primo governo
sandinista (1979-1989), aveva cercato di mettere in piedi qualcosa del genere.
Lo chiamava “economia mista”. Ronald Reagan (che NON riposi in pace) diceva che
si trattava di una dittatura succube di Cuba e dell’Unione Sovietica. Eppure
quando i sandinisti, nel 1989, persero le elezioni, accettarono il risultato e
si fecero da parte.
Grosso modo, ciò che Hugo Chávez cerca di
realizzare somiglia molto a quello che desideravano i giovani russi, e a quanto
tentavano i sandinisti. I suoi omaggi a Cuba (obbligati e giusti, come sa bene
chiunque adotti un punto di vista latinoamericano) non hanno ricadute né di
sudditanza, né di imitazione pedissequa del modello. Oltre all’apporto
femminista, sembra avere accettato altri contributi provenienti dal magma
ribollente della new left dagli anni 1960 al 2000: quello degli ecologisti (non
è accettabile un’industria che inquini), quello dei pacifisti (il mio paese non
farà mai guerra a un altro), quello dei cattolici trasgressivi (i poveri, da
ultimi che sono, devono stare al primo posto), quello degli anarchici (vanno
moltiplicate le forme di democrazia diretta), quello dei marxisti (tra le classi
di interessi contrapposti non può esservi compromesso), quello dei
“terzomondisti” (la nozione di lotta tra sfruttati e sfruttatori va trasferita
su scala mondiale) ecc. Siamo mille miglia oltre il comunismo d’annata, la
variante cubana inclusa.
Tutto ciò può essere letto, da chi conosca lo spagnolo, in un saggio disponibile
on line, che è un poco la Bibbia del “socialismo del XXI secolo”: Haiman El
Troudi, Juan Carlos Monederos,
Empresas de Producción Social: Instrumento para el
Socialismo del Siglo XXI.
Io non so se Chávez resisterà alle sirene del populismo (termine abusato,
applicato com’è a chiunque contesti il “pensiero unico” neoliberale) o, peggio,
del bonapartismo (di cui lo si accusa in quanto ex militare, salvo applaudire i
militari allorché cercano di rovesciarlo con la violenza). So solo che finora ha
resistito, e si è mantenuto su un cammino totalmente democratico.
Non aderisce al liberalismo trionfante in uno spicchio di mondo? La cosa,
sinceramente, non mi turba. Ignora il “mercato”? Oh, che brutta cosa. Però
nemmeno questo mi tocca. Sarà perché liberali e mercantili sono state le ultime,
atroci guerre a cui ho assistito, con i loro menzionati "effetti collaterali".
L’antagonismo europeo – escludendo la sua variante politica, istituzionale e
parlamentare, di cui non mi frega nulla – dall’esempio venezuelano avrebbe molto
da apprendere.
Dunque sia Hugo Chávez “uomo dell’anno”. Nominato da Time e da Carmilla (si
parva licet…). :-)
Valerio Evangelisti
Fonte: http://www.carmillaonline.com/
Link: http://www.carmillaonline.com/archives/2007/01/002091.html#002091
04.01.2007
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