I processi di Guantanamo stanno per iniziare e
ben presto i tribunali speciali militari potranno giudicare i prigionieri
accusati di terrorismo; molti di loro non avranno però la possibilità di
parlare o quantomeno, dopo anni d’isolamento e senza contatti con l'esterno,
di capire cosa sta accadendo. La denuncia, pubblicata sul New York Times,
arriva dagli stessi avvocati di Salim Ahmed Hamdan, l’uomo arrestato con
l’accusa di essere stato l’autista personale di Osama bin Laden. Secondo i
legali di Hamdan, lo yemenita ha sviluppato atteggiamenti paranoici e ha ormai
perso ogni contatto con la realtà. Questo è il motivo per il quale è stato
chiesto al giudice il rinvio del processo, almeno fino a quando l'uomo non
dimostrerà di essere lucido. Intanto la difesa ha già dichiarato di essere
pronta a mettere in discussione le confessioni estorte durante gli
interrogatori e si è detta pronta a combattere perché siano comunque garantiti
processi equi e giusti. Ma questo è ancora possibile?
Per gli Stati Uniti la prigione di Guantanamo è ormai diventata una questione
di reputazione, un infamante caso di violazione dei diritti umani che in
questi mesi sta addirittura entrando a far parte della campagna elettorale, un
tema la cui soluzione potrebbe dar vita a nuovi problemi: la chiusura del
carcere di massima sicurezza passerebbe il controllo dei detenuti, più di 350
terroristi, o presunti tali, dai tribunali speciali voluti da Bush al sistema
giudiziario ordinario. A trattare questo spinoso argomento è l’ex procuratore
federale di New York e di Washington DC e attuale direttore esecutivo di Human
Rigth Watch, Kenneth Roth, che in un articolo intitolato “After Guantanamo”
parla del rapporto tra sicurezza e libertà messo in atto in molti paesi e
spiega come la prigione militare americana sia diventata il simbolo della
violazione degli standard minimi di reclusione, un caso di status giuridico
che non assegna ai detenuti alcun titolo e ne impedisce un giusto rinvio a
giudizio.
Il campo di prigionia di Guantanamo, sorto nel gennaio 2002 nell’omonima base
navale, è forse la più alta espressione della lotta al terrorismo voluta
dall’amministrazione Bush e, in particolar modo, dall’ex segretario alla
Difesa Donald Rumsfeld, dall’ex Segretario alla Giustizia Gonzales e dal
vicepresidente Cheney: una struttura di massima sicurezza costruita per
rinchiudere “il peggio del peggio” del terrorismo internazionale. Assicurare
alla giustizia coloro che hanno straziato l’America, i responsabili del più
bestiale atto di terrorismo della storia, il folle gesto di un gruppo di
irresponsabili assassini costato la vita a quasi tremila innocenti, rientra
del diritto di autodifesa di qualsiasi paese ma i tempi e il modo in cui è
stata applicata la legge, le torture denunciate dalle organizzazioni per i
diritti umani e l’uso ossessivo delle reclusioni preventive hanno trasformato
Guantanamo in un imbarazzante caso internazionale, ingombrante a tal punto che
ora è lo stesso Bush a volerlo chiudere.
Fino ad oggi le celle di Guantanamo hanno ospitato 778 detenuti, più della
metà dei quali sono già stati rilasciati; 150 di quelli ancora rimasti
sull’isola sono considerati il cuore dell’estremismo islamico, individui
accusati di aver pianificato o commesso atti di terrorismo e che da circa sei
anni attendono di essere giudicati. Ora, se l’attuale o il futuro presidente
americano dovesse chiudere Guantanamo, cosa ne sarebbe dei detenuti? Sarebbero
giudicati come criminali qualsiasi o rimarrebbero in uno stato giuridico
conosciuto come detenzione amministrativa o preventiva? Il sistema America può
lasciar trattare i casi di terrorismo ad un tribunale ordinario o permette che
il diritto ad un giusto processo venga sacrificato sull’altare della sicurezza
nazionale?
In molti Paesi non sempre l’ago della bilancia pesa a favore dei diritti
dell’accusato. Secondo Kenneth Roth i regimi autoritari sono sicuramente
giunti alla conclusione che al primo posto viene la sicurezza nazionale. In
Malaysia e a Singapore le autorità possono trattenere un sospetto per più di
due anni: islamici, comunisti e dissidenti politici vengono incarcerati per
anni sulla semplice base di indizi; a Singapore, Chia Thye Poh, accusato di
essere membro del partito comunista, ha scontato 32 anni di carcere senza
alcuna accusa. In Occidente, ad un sistema autoritario è certamente preferito
un modello liberal-democratico; in Europa ci sono comunque paesi che applicano
una strategia più aggressiva, come Gran Bretagna e Francia dove la lotta al
terrorismo ha imposto misure di detenzione più restrittive. Londra aveva già
adottato questa politica negli anni 70 e 80, quando l’Irlanda del Nord e la
stessa Inghilterra erano minacciate dalle azioni terroristiche dell’IRA.
La
legge introdotta nel Regno Unito in seguito agli attentati dell’11 settembre,
che prevedeva la detenzione preventiva per i cittadini non-britannici, è stata
abrogata nel 2004 dalla Camera dei Lords perché ritenuta sproporzionatamente
discriminante rispetto alla minaccia subita. Scotland Yard può comunque
trattenere per almeno 28 giorni coloro che sono sospettati di aver commesso
fatti legati al terrorismo (è stata avanzata una proposta per estendere questa
misura restrittiva a 42 giorni) e, nel caso non vengano arrestati, ne può
limitare la libertà di movimento. In materia di terrorismo Washington permette
che i combattenti catturati in Medio Oriente, i terroristi e tutti coloro che
sono sospettati di avere collegamenti con al-Qaeda vengano detenuti fino alla
fine del conflitto, senza la garanzia di un processo. Da qui i casi di
prigionia prolungata e la controversa questione Guantanamo: la guerra globale
al terrorismo non ha un collocamento geografico o un campo di battaglia ben
definito e molti detenuti sono stati arrestati a migliaia di chilometri dalle
zone di combattimento.
E’ evidente che la chiusura del carcere di massima sicurezza impone una
decisione sulla sorte dei prigionieri. Kenneth Roth suggerisce una soluzione
quanto mai auspicata: demandare alle corti federali i processi riguardanti i
fatti di terrorismo e ai tribunali militari quelli riguardanti i prigionieri
catturati in zone di guerra. Il problema è che l’amministrazione Bush è
convinta che il sistema giudiziario americano non è in grado di portare a
termine questo compito e quindi insiste sulla strada delle commissioni
speciali, un modo discutibilmente pericoloso visto che metterebbe in dubbio il
ruolo della giustizia. Non è poi da sottovalutare l’aspetto tecnico del
processo: l’evidenza dei fatti non è sempre dimostrabile e in molti casi le
percezioni intelligence non sono sufficienti per emettere una condanna.
Inoltre, la detenzione preventiva può spesso diventare dannosa, generando un
rifiuto di cooperazione e un forte risentimento nei riguardi di chi opera nel
settore della lotta al terrorismo; Guantanamo insegna che se la detenzione
preventiva non si basa su prove inappellabili e se non viene garantito un
processo in tempi rapidi, l’indiziato, anche se colpevole, diventa lui stesso
vittima del sistema.