29 settembre '08 - peacereport

GUANTANAMO

Respinta una confessione ottenuta sotto tortura
Un giudice degli USA non l’accetta come prova

 

 

Il giudice di un tribunale di crimini di guerra degli Stati Uniti ha stabilito che la confessione di un giovane detenuto a Guantánamo, ottenuta  sotto tortura non serve come prova nel processo contro di lui.

 

Le  autorità accusano Mohamed Jawad d’aver ferito dei soldati degli USA con il lancio d’una granata, ma il magistrato, il colonnello dell’Esercito Stephen Henley, ha sottolineato che gli agenti afgani lo avevano minacciato di morte, lui a la sua famiglia, se non ammetteva i fatti.

 

Henley ha detto che ottenere una confessione con una minaccia di morte equivale alla tortura, secondo le regole dei processi di Guantánamo, dato che lo si considera  un’azione specificatamente indirizzata alla provocazione di severi danni psicologici o menatali, di sofferenza,  e che queste regole permettono l’uso della convinzione, ma non della tortura.

 

 

LA MANCANZA DI PROVE

 

 

“Jawad aveva, al momento dei fatti, 16 o 17 anni e sembrava drogato”, ha detto il giudice. “È stato consegnato alle forze nordamericane dopo la confessione e poi è stato portato nella prigione della base navale in Cuba”.

 

Il giudice militare  aveva abbandonato il caso il mese scorso, sostenendo che il governo degli USA occulta prove che generano dubbi sulla colpevolezza di Jawad.

 

L’avvocato militare del giovane, il maggiore della Forza Aerea, David Frakt, ha assicurato che le prove eliminate dimostravano che il suo cliente era stato drogato dagli afgani, che lo avevano reclutato per una presunta missione di pulizia dalle mine e che altre due persone avevano confessato d’aver tirato la stessa granata.