Indipendentemente da chi vincerà le
elezioni presidenziali americane - John McCain, Hillary Clinton o Barack Obama -
questo non influenzerà la politica di Washington nei confronti dell'Avana. Fino
a oggi i repubblicani hanno sempre potuto contare sui voti della forte comunità
dei cubani di Miami. Ma ormai gli anticastristi, anche se hanno ancora il
controllo della città, sono sempre più contestati.
dal nostro inviato speciale Maurice
Lemoine
«Qui è come a Cuba, ma con in più il cibo!». Il sole è tramontato su Miami e
sembra di stare all'Avana: siamo in febbraio e ci sono ancora più di venti
gradi. Da una piazza all'altra, in mezzo ai grattacieli, svettano le palme, in
lontananza spicca la grande M di un McDonald's.
Con gli occhi il cubano mostra le vetrine piene di elettrodomestici, di mobili,
di vestiti, di televisori all'ultima moda, e si lancia in una stima (piuttosto
sommaria): «C'è di che rifornire l'intera popolazione di Cuba per un secolo».
I negozi abbassano le saracinesche e nei piccoli fast food latinos si sentono le
ultime note di salsa. Donwntown Miami - il centro della città, peraltro tutto
spostato a est - si svuota dei suoi uomini d'affari, delle sue segretarie, dei
suoi impiegati. Con il lasciapassare ancora al collo, quasi tutti parlano in
spagnolo. Qualche eccentrico si esprime in inglese. Ma tutti si affrettano: ben
presto la Wall Street dell'America latina si trasformerà in un lugubre deserto
di cemento e acciaio.
La metropolitana all'aperto si dirige verso lontane periferie. Un convoglio ogni
venti minuti (quando va bene). Gli autobus si lanciano in interminabili
maratone. Miami è fatta per chi può permettersi una macchina, non per i poveri.
In questi autobus ci si conosce.
Un cubano saluta una cubana. Non parlano di politica né di Fidel Castro.«Come
va?» «Sono stanca di andare sempre di corsa». La donna abbozza un sorriso
stanco.
L'autobus non va verso Miami Beach, con le sue palme, l'oceano brillante e i
suoi alberghi art déco, ma al quartiere popolare di Hialeah.
In realtà anche Miami Beach - questa Mecca dell'edonismo - ha i suoi cubani,
ricchi ovviamente. E l'esercito di cameriere, di donne delle pulizie e di
inservienti. Tutte queste ragazze di seconda generazione, che, perfettamente
bilingue, attirano i turisti davanti ai ristoranti di Ocean Drive. «Hey, this is
the place! This is the good place! Holá, amigos, como están? Tenemos de todo»
(1). Ma questo autobus non va né a Miami Beach né a Little Havana.
Little Havana. Un mito. Un mito alimentato da frotte di giornalisti frettolosi.
È vero, per molto tempo Little Havana, a ridosso di Downtown, è stata il «feudo»
cubano di Miami. Una roccaforte popolata da sostenitori di Batista (2): grandi
proprietari, liberi professionisti, dirigenti, commercianti, ma anche
trafficanti di ogni risma fuggiti dalla rivoluzione.
All'epoca la vita scorreva animata sulla Calle Ocho - l'Ottava strada.
Una via costeggiata da negozi, da bar illuminati, da ristoranti.
Qui si sono ordite tutte le trame per invadere Cuba, per uccidere Fidel Castro,
per destabilizzare l'isola, per organizzare attentati dinamitardi e altri
progetti tenebrosi. Ma oggi Little Havana è solo una sorta di triste periferia.
Dalla metà degli anni Ottanta i cubani non la frequentano più. Gli esiliati più
anziani sono morti, i loro figli si sono trasferiti in altre parti della città -
Kendall, Hialeah, North West - e nel resto della contea di Miami Dade. A poco a
poco sono stati sostituiti da centroamericani, da colombiani e da altri latinos.
La Calle Ocho presenta ormai solo negozi onduregni, bar nicaraguegni, ristoranti
salvadoregni; in altre parole Little Havana non è stata ripresa dagli autoctoni.
Sulla porta di alcuni negozi si può leggere «Qui si parla inglese», ma da queste
parti i cubani sono ormai solo la principale minoranza.
Del loro splendore passato rimangono i vecchi anticastristi che giocano a domino
nel Maximo Gómez Park e il ristorante Versailles, quartier generale dell'estrema
destra in esilio. È da queste parti che in occasione di ogni evento importante
il clima diventa effervescente: in occasione dell'implosione dell'Unione
sovietica, «tra poco, molto poco, cadrà anche Fidel»; con la crisi dei balseros
(3), «con la prossima spallata, il sistema crollerà»; quando le truppe americane
hanno preso Baghdad, «oggi l'Iraq, domani Cuba!»; quando il «líder máximo» si è
ammalato, «questa è una grande occasione per tutti gli uomini e donne di
coraggio che vogliono che Cuba prenda un'altra strada». È qui perciò che si
precipitano le telecamere per riprendere i membri della «comunità», anche se di
solito sono solo alcune migliaia di persone a manifestare su 650 mila cubani
(4).
In ogni modo bisogna riconoscere che dagli anni Sessanta in poi l'estrema destra
cubana ha sempre avuto il controllo di Miami grazie all'enorme potere economico
del suo capitale iniziale, al suo dinamismo e all'aiuto concesso da dieci
amministrazioni successive; e grazie anche al controllo dei media. Due mondi
strettamente collegati.
Due quotidiani in spagnolo, Diario las Américas ed El Nuevo Herald - versione
spagnola del Miami Herald. Sei radio - La Poderosa, Radio Mambi, Wqba, ecc.; una
rete televisiva, Canal 41(5). «Quando sono arrivato, nel 1982 - racconta Luis,
un uruguaiano - ho subito cominciato ad ascoltare la radio e a guardare la
televisione in spagnolo. Tutti i programmi avevano un solo argomento: Cuba. Era
il nostro pane quotidiano, una propaganda incessante che non aveva nulla a che
vedere con l'informazione».
E da allora non è cambiato nulla.
I giorni dell'esilio Riguardo la stampa scritta, il discorso è simile. Il Miami
Herald sa bene che da un punto di vista economico non ha alcun interesse a
mettersi contro la destra cubana. La sua traduzione in spagnolo, El Nuevo Herald,
va ancora più lontano: edulcorando, censurando addirittura alcuni articoli della
casa madre, pubblica quello che sembra più un ciclostile politico che un
quotidiano. Per trovare in città una copia di Usa Today o del New York Times
bisogna alzarsi presto. E in ogni modo sono scritti in inglese, una cosa che non
piace molto ai cubani.
«Il ruolo della radio in questa città - spiega Francisco Aruca - è sempre stato
quello di mantenere "la linea" e di esercitare una pressione sociale, in
particolare sui gruppi che manifestano opinioni diverse. C'è stato un tempo in
cui se ti criticavano alla radio dicendo che eri un simpatizzante di Castro,
anche se non era vero, la sera gli amici non ti salutavano dicendoti: "Mi sei
molto caro, ma è meglio se non ci facciamo vedere insieme". E tutte le porte si
chiudevano».
Contrario all'indirizzo preso dalla rivoluzione - al punto di prendere le armi
per combatterla sull'isola negli anni '60, nelle campagne dell'Escambray - Marc
Leznic, dopo essere arrivato a Miami, ha creato una rivista, Réplica. Tornato su
posizioni più moderate, Leznic raccomanda oggi il dialogo e rifiuta la violenza
contro Cuba. «La rivista è stata vittima di undici attentati dinamitardi fra il
1975 e la metà degli anni Ottanta, quando abbiamo smesso di pubblicarla». I
tempi cambiano, negli Stati uniti si è ridotto lo spazio per questo tipo di
attività. «Questo ci permette di sopravvivere in un ambiente ostile, ma dove
l'azione diretta è più difficile - osserva Leznic, che dirige adesso, sempre
sulla stessa linea politica, Radio Miami. Ma questo non vuol dire che ci
sentiamo del tutto sicuri».
Fondatore di Marazul, agenzia organizzatrice di voli verso Cuba, Aruca conduce
una trasmissione, «Radio Progreso», sulla Wocn - Unión Radio in spagnolo. Cinque
ore che avrebbero dovuto essere finanziate con la pubblicità: musica cubana,
cronache, analisi politiche moderate.
«Mi sono detto, gli inserzionisti arriveranno. E di fatto sono arrivati,
numerosi. Ma dopo quattro, cinque giorni mi chiamavano: "ci arrivano telefonate
minatorie". Il proprietario di un bar mi ha detto che gli avevano lanciato un
sasso contro la vetrina!». Così, in mancanza di denaro, Aruca ha ridotto la sua
trasmissione di informazione indipendente a un'ora. Sempre senza pubblicità
(tranne Marazul) e nonostante uno share del 15%.
Nei primi tempi l'esilio cubano aveva un carattere familiare, bianco, ricco e
fortemente anticastrista. L'ondata antirivoluzionaria successiva, fino alla metà
degli anni '70, vi ha aggiunto il suo numero di impiegati, di artigiani, di
insegnanti e di piccoli commercianti. Nel 1980, in seguito alle gravi difficoltà
incontrate dall'isola, 125 mila cubani attraversano lo stretto della Florida dal
porto di Mariel.
Ma se si eccettua il piacere di vedere L'Avana in difficoltà, i loro
predecessori ricevono piuttosto male questi marielitos: per la prima volta la
città si popola di cubani che non appartengono né all'ex classe dominante né
alla classe media, ma provengono «dalla strada» e hanno una pelle un po' più
«colorata». Il fenomeno diventerà ancora più accentuato nel 1994, con l'arrivo
dei balseros.
La città cambia completamente, con alcuni effetti perversi. «Nel complesso,
osserva un «anglo» del quartiere di Coral Gables parlando dei marielitos, la
maggioranza di persone arrivata è gente perbene, onesta, ma tra di loro vi sono
anche dei delinquenti e dei malati mentali mandati da Castro». Riguardo questi
ultimi, Max Leznic fornisce una spiegazione di solito passata sotto silenzio:
«Questi matti si trovavano negli ospedali psichiatrici cubani, lasciati alle
cure della rivoluzione. L'Avana ne aveva la lista. "Dove sono i loro parenti?
Negli Stati uniti? Allora fateli uscire e spediteli laggiù. I loro parenti hanno
i mezzi per occuparsene"». Con tutti questi arrivi Miami ha attraversato un
periodo difficile, contrassegnato dalla violenza, da traffici di droga e da
morti violente (in seguito la situazione è parzialmente migliorata).
Gli americani di colore non vedono con piacere l'arrivo di questi nuovi
emigranti, che fanno loro concorrenza nella ricerca di lavori umili già
malpagati. A loro volta i latinoamericani e gli haitiani sopportano con
difficoltà il trattamento privilegiato di cui beneficiano i cubani. «La loro
posizione viene subito regolarizzata - osserva Luis, l'uruguaiano. Sono gli
unici. Gli altri vivono nella paura, e per molto tempo in condizioni di
illegalità. Se sono scoperti perdono tutto e devono "sloggiare"».
A tutto ciò bisogna aggiungere che ancora oggi i cubani - anche se hanno
ottenuto la nazionalità americana - vivono fra cubani. «Sono snob, si
considerano i migliori, sono diversi! A noi, latinos, ci trattano da indios». Il
paradosso può andare più lontano: ormai la rivoluzione è qualcosa di lontano nel
tempo e così, non appena viene evocato loro il presidente venezuelano Hugo
Chávez, assumono un'aria importante: «Chávez? È un pagliaccio! Fidel è molto,
molto più intelligente».
La situazione è ancora peggiore con l'estrema destra: «Se gli afroamericani
sapessero come parlano di loro. Per fortuna non capiscono quello che viene detto
alla radio».
Tuttavia i cubani del dopo-Mariel hanno dato a Miami il suo volto, con i loro
difetti e le loro qualità. Simpatici, ironici, estroversi, aiutati al loro
arrivo dal governo americano, hanno lavorato sodo e si sono creati un loro
spazio. I più dinamici sono diventati commercianti, piccoli imprenditori nel
campo dei servizi, del commercio, delle pizzerie. Tutti fanno ridere il loro
connazionale Francisco: «Criticano Fidel perché non li lasciava viaggiare.
Arrivati qui, non escono mai da Miami, a loro il mondo esterno non sembra
interessare. C'è una sola eccezione: appena hanno quindici giorni di vacanza
vogliono andare a Cuba!».
L'anticastrismo radicale si attacca alle sue certezze: ancora un mese, una
settimana, un giorno e il «regime» cadrà; gli esiliati torneranno sull'isola e
saranno accolti in modo trionfale; uno di loro si presenterà alle elezioni
presidenziali e le vincerà. A forza di parlare della vittoria futura e sempre
rimandata, si credono invincibili e vivono guardando al passato.
Attorno a loro hanno attirato e attirano tuttora una moltitudine di
organizzazioni criminali - Alpha 66, Comandos L, Comandos Martianos Mrd, Omega
7, Partito di unità nazionale democratica (Pund), Consiglio per la libertà di
Cuba e così via - e una facciata più «rispettabile», la Fondazione nazionale
cubano-americana (Fnca), creata nel settembre 1981 da Ronald Reagan, e le cui
modalità operative sono basate sulla corruzione degli uomini politici e
sull'intimidazione. Tutte queste persone vivono dilapidando patrimoni enormi: il
denaro fornito generosamente dalla Cia e dalle varie amministrazioni per
«rovesciare Castro».
A livello federale dall'inizio degli anni Novanta sono molto attivi i tre
deputati cubano-americani di Miami eletti alla Camera dei rappresentanti: i due
fratelli Lincoln e Mario Díaz Balart e Ileana Ros Lehtinen.
Questi deputati, tutti repubblicani, conducono a Washington un'intensa attività
di lobby: sono all'origine di tutte le leggi dirette a irrigidire l'embargo
contro Cuba (6), chiedono la comparsa di Fidel Castro davanti a una Corte penale
internazionale (se non la sua uccisione) ed esigono la liberazione di Luis
Posada Carriles (vedere il box).
La maggioranza dei cubano-americani ha invece altre preoccupazioni.
Di fronte a questi estremisti, alla loro violenza e alle loro pressioni, per
molto tempo la popolazione cubana di Miami ha tenuto un atteggiamento piuttosto
passivo, partecipando anche al finanziamento delle loro attività pubbliche (e
delle varie attività clandestine contro Cuba).
Ma soprattutto, ha cercato di non farsi notare. «Anche qui - dice Francisco - la
gente ha paura di parlare. Non sono d'accordo con la corrente dominante, ma non
dicono nulla per evitare problemi».
L'embargo dei pacchi Come i milioni di latino-americani che non provengono da un
paese «comunista», ma che hanno scelto comunque di emigrare negli Stati uniti, i
cubani hanno intrapreso il viaggio per ragioni economiche.
Avendo lasciato le loro famiglie sull'isola, vogliono poter andare a trovarle, e
anche se i loro mezzi sono per lo più modesti, vogliono aiutarle. E non vogliono
sentir parlare di embargo o di invasione militare dell'isola.
Molti negozi mostrano l'annuncio: «Mandiamo dei pacchi a Cuba». Il fenomeno -
soprattutto i viaggi sull'isola - è iniziato in modo quasi clandestino, ma
adesso nessuno si nasconde. In questo autobus due donne dicono ad alta voce:
«Vado a Cuba, vuoi che porti qualcosa alla tua famiglia?». «Ti preparo delle
lettere e un pacco. Quando parti?». Sembra di stare all'Avana, in una guagua
(7).
Purtroppo le cose sono diventate più difficili dopo il 2004. In quell'anno
infatti il presidente Bush ha approvato un rapporto della Commissione per
l'aiuto a Cuba libre, che prevede una serie di misure che rendono ancora più
duro l'embargo: restrizione all'invio di denaro - 1.200 dollari all'anno e solo
alla famiglia diretta - e dei pacchi; limitazione dei viaggi (da uno all'anno di
14 giorni a uno ogni tre anni, e solo per visitare la propria famiglia) ;
riduzione dei fondi che è possibile importare, da tremila a trecento dollari. La
somma permessa per le spese quotidiane passa da 167 a 50 dollari. E non è
possibile di portare con sé più di ventisette chili di bagagli.
All'inizio Miami rimane attonita, incredula, poi la comunità lascia esplodere
tutta la sua rabbia. Anche il direttore dell'Fnca dell'epoca, José García, parla
di un madornale errore di valutazione. Nella città si comincia a sentire
l'impensabile: «Ho sempre votato repubblicano, adesso basta».
I democratici colgono la palla al balzo e tre dei loro candidati si
presenteranno alle elezioni politiche del prossimo novembre con la volontà e,
per la prima volta, con delle serie possibilità di essere eletti. Contro Lincoln
Díaz Balart si presenta Raúl Martínez, a lungo sindaco molto popolare di Hialeah,
il più importante dei quartieri cubani. José García affronterà Mario Díaz Balart,
mentre Ileana Ros Lehtinen dovrà vedersela con l'americo-colombiana Annette
Taddeo. «Già il fatto che i tre repubblicani abbiano un avversario dimostra che
c'è una forte corrente di opinione contro l'estrema destra - osserva Max Leznic.
Altrimenti tutto ciò sarebbe inutile».
Ovviamente è difficile che Miami passi al «centrosinistra». García, solo per
fare un esempio, è stato l'uomo di fiducia di Jorge Mas Canosa, presidente dell'Fnca
fino alla sua morte il 23 novembre 1997, è stato direttore dell'organizzazione e
ancora oggi ne è membro (9).
Ma il fiuto politico gli dice che la politica di Washington non funziona.
Come gli altri due candidati non si pronuncia contro l'embargo (anche se
Martínez lo fa in privato), ma si batte per un alleggerimento delle misure che
tagliano il cordone ombelicale fra i cubani di Miami e l'isola, convinto che la
moltiplicazione dei contatti favorirà sull'isola l'evoluzione del sistema
politico.
In ogni modo, osserva Aruca, «se uno di questi candidati dovesse vincere sarà in
cinquanta anni il primo duro colpo per l'estrema destra locale. Se dovessero
farcela in due, questa struttura crollerà in poco tempo, aprendo nuove
prospettive. Il clima politico a Washington cambierà».
note:
(1) «Ehi! È questo il posto giusto! Ehilà, amici, come state? Qui abbiamo di
tutto».
(2) Sostenitori del dittatore Fulgencio Batista, rovesciato nel 1959 dalla
rivoluzione.
(3) Partenza dall'isola di 32 mila cubani su imbarcazioni di fortuna nel 1994.
(4) Nel censimento del 2000 c'erano in tutta la contea di Miame Dade 650 mila
cubani o discendenti di cubani (la comunità più importante), 465.770 americani
bianchi, 427.140 neri e 641.130 latino-americani di varia origine.
(5) Le due reti televisive nazionali in spagnolo, Univisión e Telemundo, sono
poco guardate dai cubani perché danno la precedenza ai messicani (molto più
numerosi sull'intero territorio degli Stati uniti e quindi un pubblico
privilegiato per gli inserzionisti).
(6) La legge Torricelli, su iniziativa del democratico Robert Torricelli (23
ottobre 1992) e la legge Helms-Burton, promossa dai repubblicani Jess Helms e
Dan Burton (12 marzo 1996).
(7) Mezzo di trasporto pubblico.
(Nel 2003 115 mila esiliati si sono recati a Cuba).
(9) Dopo la morte di Jorge Mas Canosa, l'Fnca è entrata in crisi ed è stata
costretta a rinnovarsi. Gli elementi più estremisti la hanno abbandonata nel
luglio 2001 per creare il Cuba Liberty Council.
(Traduzione di A. D. R.)
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