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I RACCONTI DEL PRESIDIO La notte dei morti |
18 dicembre 2009 - www.granma.cu (AIN)
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Pablo de la Torriente Brau
Un 19 dicembre, durante la guerra civile spagnola, il Commissario Politico Pablo de la Torriente Brau, giovane e brillante scrittore e giornalista cubano, attivista comunista, moriva ucciso dal fascismo.
Per non dimenticare, vale la pena leggere questo suo racconto scritto dopo la prigionia nel terribile Presidio Modelo, dove anni dopo, fu carcerato un altro giovane combattete ribelle eccezionale, Fidel Castro.
Una notte, quando ero in carcere, vissi la più incredibile avventura della mia vita, piena di strani momenti e straordinarie emozioni.
Fu la notte in cui, obbedendo alle penose regole del carcere, dovetti svolgere un servizio monotono e quasi angosciante come “ caporale dell’immaginario”, ossia “carcerato di guardia” in quella galera nella quale io trascorrevo la mia lunga e lenta condanna. Fu la notte del 29 di luglio del 1931. Devo parlare di tutto questo anticipatamente perchè non tutta la gente è stata in carcere e quindi non può comprendere e nemmeno credere facilmente a tutto ciò che può capitare a un uomo.
Stare in carcere è come vivere nella penombra: è apprendere la virtù della diffidenza con una misteriosa abilità sotterranea dello spirito, molto simile alla doppiezza ma più sottile – molto di più – dell’ipocrisia . Stare in carcere significa perdere per sempre la fiducia nel successo dello sforzo umano; sospettare che in realtà il mondo esterno è solamente un carcere un poco più grande, sommergersi in speranze senza fondamenta, dare corpo all’inverosimile, al fantastico ...Stare in carcere quando si è giovani è negativo quasi come stare da bambini in un collegio di preti...
Il carcere dove io scontavo la mia condanna era una tipica e antica fortezza spagnola, mai cambiata con la Repubblica e apparentemente eterna, dove la leggenda, come una fitta nebbia, avvolgeva il ricordo di eroi fucilati, comunisti scomparsi, uomini torturati, corridoi sotterranei al cui termine l’oscurità è assoluta e rende nere e sinistre le acque del mare dove nuotano i pescecani, con celle spaventose fredde come la morte, dove non entra mai il sorriso del sole o altra cosa che non siano la brocca dell’acqua e il pezzo di pane...
Schiacciata sopra le rocce, sulla riva del mare, sembrava far parte della natura stessa. Bastioni, piazzole con pezzi di antica artiglieria, un fosso largo e profondo nel quale cantavano le rane di notte, imperturbabili; sbarre nere e inamovibili, grandi pareti aspre e muri che circondavano gli uomini che entravano lì per la prima volta, precipitando su di loro il silenzio dei secoli... l’angoscia dominava durante i primi giorni e poi, con serenità fatalista si accettava quasi come una speranza la morte morale e si dimenticava il futuro, che, come resurrezioni parziali, si iniettavano di speranza al cloroformio in attesa del passare del tempo ...
Tutte le celle della prigione erano più o meno uguali con poche differenze di grandezza. Erano lunghe, strette, basse e con soffitti curvi, come sezioni esatte di un tubo gigantesco, tagliato nel suo diametro.
Anche se erano dipinte di bianco con enormi inferriate agli estremi, la cella 11, nella quale io dovetti vivere per un certo periodo, aveva una sorta di oscurità tiepida che rivestiva di un grigiore diffuso le lettere delle pagine dei libri. Era lo scenario che conveniva allo scopo della prigione: schiacciare gli uomini, spremerli e rimandarli grigi nel mondo... Molti anche neri: di un nero profondo, eterno e abissale.
Nemmeno un dettaglio sulla linea inflessibile del soffitto; nemmeno un mozzicone di sigaretta sopra il cemento pulito del pavimento; nemmeno una piuma di cuscino che volasse e salisse in un raggio di sole ...Un mondo crudele e perpetuamente uguale! Un pazzo incubo dell’invariabile!
Quale uomo che non è stato in carcere può sapere che cosa significa essere “caporale dell’immaginario”?
“La fuori” tutto questo è inconcepibile. Ed è tale perchè il boia viene pagato, ma il caporale dell’immaginario non riceve monete ma solamente responsabilità e odio; soprattutto odio. Un odio che giunge sino all’animo pieno di rancore dei pervertiti dai testicoli gonfi per la disumana astinenza forzata... perchè il caporale dell’immaginario ha come funzione fondamentale il dovere di controllo sulla sodomia, della quale risponderà con la condanna nella cella a pane acqua e con castighi corporali davanti alle autorità della prigione. E la sodomia è, in carcere, dove è morto o anestetizzato lo spirito umano, la buia bestialità, posta in agguato e la lussuria – persistente, fulminea e felina – che non perdona il cacciatore e che gli fa abbandonare la presa ...
Per mia fortuna, quando per disgrazia mi venne assegnato quel compito, io avevo l’esperienza del tempo, di ciò che avevo già visto e, pur essendo giovane, avevo già acquisito la sana abitudine dei vecchi di apprendere dall’esperienza altrui e non mi sentii mai compiaciuto pericolosamente... perchè le miserabili e corrotte “femmine” giungono a provare gelosie autentiche dei loro disprezzabili “mariti” e il pettegolezzo, come un vento rapido, vola sino al corpo di guardia dove istantaneamente si trasforma in un castigo terribile.
Da una parte il castigo spaventoso e dall’altra l’odio dei compagni. E che compagni! ...Assassini, ladri, rapinatori, sfruttatori ...Una “scala di fiori sino all’asso del vizio” Quante volte si pensa sussultando alla terribile pugnalata che ci verrà sferrata senza rimedio tra tre anni quando usciremo ! ...
Malato di solitudine, di isolamento in me stesso, disperato e senza speranze, quando entrai nel carcere io ero già un cadavere. Dopo un poco di tempo giunsi ad essere caporale dell’immaginario e mandavo già puzza di puro marciume. Da allora io sono sicuro che a uno si putrefà qualcosa anche prima della morte.
Nelle notti libere, con frequenza, soffrivo di incubi e cadevo sul pavimento. Già sveglio ignoravo tutto. Tutto quello che mi aveva tormentato nel sonno, come ero giunto sino lì, chi ero io... per me uscire dall’incubo era come nascere nuovamente ...Io avrei dovuto stare nell’ospedale dei dementi o sottoterra, ma dovevo invece prestare servizio in quelle notti angosciose di silenzio, passeggiando sotto le luci giallastre della galera, tra una doppia fila di rancori ... E mi mancavano ancora tre anni!...
Quella notte del 29 luglio per un lungo periodo di tempo durante il quale tutti i va e vieni ai servizi si calmarono completamente, il silenzio della prigione divenne nel mio cervello una sorta di immensa pianura piena di neve ...fuori la luce della luna piena spandeva una sfumatura argentata sul grande cortile deserto...
Con passi uguali e meccanici, come un pendolo umano, i miei passi marcavano i secondi che fuggivano nella notte, mentre la mia immaginazione tesseva i suoi tragici cavilli tra la fila doppia dei letti sui quali la mia vista poneva una vaga attenzione, guardando i visi dei compagni addormentati.
Che strane e pazze figure! Quel passaggio tra i letti per me era quasi sempre un percorso di imboscate e ad ogni passo mi assalivano tremendi dubbi. Ciò che quella notte divenne realtà, ciò che molte volte si era rigirato come un lupo nella mia mente, riempie i miei ricordi di angoscia e da allora mantiene i miei nervi con una continuata e implacabile vibrazione, come il campanello di una sveglia destinato a non lasciar mai dormire o riposare il mio spirito agitato.
Quella notte! ...Come ricordare in quale passaggio mi raggiunse quel sospetto che mi annichilì? Mi ricordo che poco a poco i visi dei compagni addormentati mi preoccuparono sempre maggiormente, sino a che rimasi immobile davanti a uno di loro. Teso, tranquillo, sembrava morto, ma dormiva solamente. Mi ritornò alla mente una vecchia lettura: dormire era come morire per qualche ora ? La morte è solamente un sogno prolungato? Questa supposizione allucinante cancellò al momento anche i miei incubi senza ricordi, l’incubo del tempo che pieno di buio impenetrabile va dalla notte sino all’alba sul silenzio carretto del sonno. Di turbamento in turbamento, senza rimedi e senza freni, mi trovai avvolto nel sospetto funebre, carico del terrore e del panico che tutti i miei compagni erano morti e che io ero testimone e interprete di fronte ai loro cambi di posizione, ai loro sospiri, ai singhiozzi ai rochi respiri, alla vita che conducevano nelle infinite praterie della morte.
Questo dubbio spaventoso mi bloccò per alcuni terribili minuti a alla fine, dato che uno si abitua al terrore come alla prigione, terminai per considerare questa possibilità affascinante e comincia a studiare con impegno paradossale la vita che, nella morte, conducevano i miei compagni di carcere ...
La galera sembrava una nicchia biancastra e le due livide lampade del soffitto sembravano offerte votive appese lassù. Sui letti allineati dormivano i morti.
Uno dopo l’altro li guardai tutti con animo commosso. Io che li conoscevo bene e che ero consapevole sino al fondo delle oscure macchie dei loro spiriti, ebbi, osservandoli, la sicura percezione di una infallibile ed esatta relazione tra le loro vite - e i delitti- e l’aspetto che la morte dava loro sotto l’assoluto dominio del sogno. Il primo si lamentava con la debolezza di un bambino ed era uno scaricatore di porto... sembrava che egli, davanti a un invisibile tribunale senza perdono, piangesse le proprie colpe più che umane.
Quel povero ragazzo disperato! Un altro, che aveva ucciso una donna anziana in un luogo solitario, contraeva le mani sul petto e sibilava tra i denti, come in una tempesta al microscopio; un altro, abilissimo negli alibi, tesseva con le braccia e le gambe, sottili come un filo di mulinello, posizioni inverosimili e inesplicabili; palpebre violacee chiudevano a un vizioso gli occhi con le occhiaie verdi; un ragazzo forte, che aveva violato, si rigirava le mani sui genitali apparentemente minacciati, notando la sua respirazione agiata e il suo viso, un insieme di agonia e di sfida; un vecchio grasso, calvo e comico, eccellente baro e prestigiatore di circo, con le braccia sopra la testa faceva piroette grottesche da corista in disuso; il petto ampio e villoso di un altro, con la bocca semiaperta e anelante ricordavano qualcosa di simile a un trionfo guadagnato(egli in verità era uno a cui avevano rubato e si trovava in carcere per colpa del ladro ).
Un perfido assassino si raccoglieva nel letto come un feto mostruoso, come se lo obbligassero a nascere nuovamente in un supremo castigo.
Avvolto dal silenzio e dall’ossessione, io traducevo nella mia mente malata la vita di castigo dei morti e guardavo con tenebrosa chiarezza lo spettacolo delle sofferenze dell’oltretomba che popolava la mia immaginazione di tempestosi interrogativi, di visioni dantesche, che dava un respiro impetuoso al mio spirito affinché rimanesse sempre vigile, per non farlo dormire mai più! Mai più! Mai più!...
Alla fine continuai nella mia macabra ispezione. Un compagno era completamente nascosto dal lenzuolo. Si era fatto da solo il proprio sudario ...Le mosche si posarono su un altro, fuggendo dal bordo del letto al mio passaggio e volando su di lui come su carne morta; percorrevano laboriosamente anche un altro corpo, a lato, e altri ancora, come fossero state vermi, enormi cimici che scoppiavano dopo aver tanto succhiato... Un altro, mentre cercavo di vedergli il viso aperse gli occhi verdi come un mare sporco e mi guardò senza vita: lo spavento mi rese di pietra e mi immobilizzò al suo lato. Egli continuava ad essere morto!
Una grande farfalla nera della luce andò a posarsi volando su un compagno al fondo della cella. Io andai sin laggiù e rimasi sbalordito. Quell’uomo era un soggetto viscido e astuto che, se non fosse stato per la denuncia di un “consorte” non sarebbe mai finito in galera. Per tutta la vita aveva ingannato l’umanità ed ora, davanti ai miei occhi sorpresi io vedevo che stava cercando di ingannare anche la morte. Sdraiato, con una certa serenità sul viso, dava l’impressione che con la sua splendida astuzia e con arte incredibile avrebbe potuto celare i suoi delitti innumerevoli anche davanti al penetrante tribunale dell’oltretomba... Quella scoperta di trionfo di un uomo sulla giustizia infallibile dell’eternità produsse in me una sorta di allegria umana. Quella maschera seria di delinquente produceva nella mia anima non conforme rumorose sghignazzate!
Quando mi raggiunse il cambio della guardia il mio compagno mi guardò attentamente. Poi mi disse: “Sei dimagrito, hai la faccia di un morto, di un cadavere... Tu sei malato: domani chiedi di andare in infermeria”.
Io andai a letto, ma mezzora dopo ululavo come un lupo, mi dissero. Mi rimisi a dormire e mi svegliò la vibrazione di un forte rumore : ero caduto sul pavimento. All’alba finalmente la stanchezza e l’agonia vinsero e riuscii a dormire.
La mattina dopo tutti i morti si svegliarono per ricominciare a guardare il mondo con sospetto, ma il compagno che dormiva al fondo della cella, quello della farfalla nera della luce non si rialzò: era morto veramente, dormiva davvero. Il medico scrisse sul certificato che era morto sin dalla mezzanotte, prima che io lo vedessi come il solo capace di ingannare la morte.
Da quel giorno io non dormo: da due mesi mi trovo in ospedale lottando contro tutti i medici, contro le medicine, contro la stanchezza del corpo e l’agonia dello spirito, per non lasciarmi vincere, per non cadere mai più sotto la grande ombra traditrice del sonno!
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