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Pubblicato in Spagna un libro sulle navi coloniali affondate in acque cubane
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12 novembre 2009 - Eva Díaz Pérez www.granma.cu |
Una ricerca recupera la storia delle navi della flotta delle Indie affondate a Cuba.
Una notte di tormenta del 28 ottobre del 1592 la nave Santa Maria de San Vincente affondò di fronte alle costa de L’Avana, nell’estremità di Sant’Antonio. Successivamente fu il silenzio. Un silenzio durato secoli.
Ed il mare ricoprì tutti i cannoni, i barili, le anfore e la carcassa della nave come se fossero parte del proprio paesaggio.
La Santa Maria di San Vincente è solo una delle mille navi che dormono sul fondo dell’oceano, e la cui storia è stata adesso raccontata attraverso il libro Naufragi. Navi spagnole nelle acque di Cuba, edito dalla Renacimiento di Siviglia.
Carlos Alberto Hernández Oliva, geologo e fondatore del Gabinetto di Archeologia dell’Oficina del Historiador (Ufficio dello Storico) de L’Avana, è il responsabile di questo meticoloso studio sulla storia dei vari affondamenti avvenuti tra il XVI secolo ed il XVII nelle coste cubane.
“In quei secoli, la complessa geografia dei Caraibi non era conosciuta dai piloti che affrontavano la traversata in maniera insicura ed i viaggi si convertivano in vere e proprie odissee nelle quali perdevano la vita forti e coraggiosi marinai”, spiega l’autore del libro, nel quale, oltre al racconto dei naufragi, si narrano i processi giudiziali che iniziavano per le quasi inevitabili rapine o saccheggi che seguivano alla tragedia.
Una delle ragioni che spiega la quantità dei naufragi che si verificavano nelle coste cubane è che L’Avana era l’ultimo punto del viaggio di ritorno della Flotta di Terra Ferma e della Nuova Spagna. I venti, le correnti traditrici, gli uragani e le tempeste tropicali, così come gli attacchi dei pirati e dei corsari minacciavano il transito delle navi del potente imperio spagnolo.
Questo studio delle navi naufragate riprende curiosissime storie come quelle sui meccanismi messi in atto a partire dal secolo XVI per proteggere le mercanzie affondate dai frequenti furti. “Si produceva una follia collettiva: una volta salvata la vita, tutto il personale che viaggiava a bordo, cercava di trarre vantaggio, senza aver rispetto della gerarchia”, spiega Carlos Alberto Hernández.
La Casa della Stipula di Siviglia esigeva, in forza di un Documento Reale del 1538, che le autorità delle Indie inviassero l’importo e le giustificazioni delle mercanzie salvate e vendute “con il chiaro obiettivo di ripagare i proprietari”.
Si raccontano anche storie sui primi cacciatori di tesori, audaci sommozzatori che si ingegnavano per sommergersi e riscattare preziosi resti.
“Occasionalmente i sommozzatori potevano tenersi una parte di ciò che riscattavano, previo accordo con le parti interessate nella ricerca”, continua a spiegare lo studioso cubano.
Tra questi cacciatori di tesori, spicca un tal Francisco Soler che nel 1573 ottenne una licenza di lavoro di dieci anni in esclusiva con l’aiuto di un artefatto da lui fabbricato per estrarre tesori dal fondo del mare. Egli poteva tenersi tutto ciò che incontrava, previo pagamento della quinta parte alla Corona.
O la storia di Nicolás de Roda, un greco naturalizzato a Siviglia, che perlustrava il fondo del Guadalquivir recuperando oggetti nelle carcasse delle navi affondate che non arrivarono al porto di Siviglia. “Un Documento Reale del 1539 gli permise di essere l’unico sommozzatore, in Spagna o nelle Indie, in grado di lavorare per dieci anni nel Guadalquivir fino a Sanlúcar, e nel Porto di Santa Maria y Cádiz”, commenta Carlos Alberto Hernández.
Uno dei naufragi ricostruiti risalente a quell’epoca storica è quello della galea San Salvador, nave capitana della Flotta diretta alla Nuova Spagna sotto il comando di don Pedro de las Roelas nel 1563.
Grazie a questo studio si è in grado di recuperare anche la storia interna della nave affondata con i personaggi sconosciuti che vissero la tragedia della notte del 18 agosto del 1563. Per esempio, assieme a Don Pedro del las Roelas c’erano gli ufficiali Pedro Jorge – di 33 anni e che zoppicava con la gamba sinistra –, il cappellano Cristobál Rodríguez – uomo alto e magro di 31 anni, anche lui vicino a Siviglia – lo scrivano Johan Martínez, ed il sotto ufficiale Francisco de Ortellana, di 30 anni, pelle molto bianca e robusto.
Secondo la cronaca dell’affondamento, la nave si stava avvicinando alla Spagnola e continuava a perlustrare il sud di Cuba, pieno di isolotti e correnti ancora poco studiate a metà del secolo XVI. Improvvisamente la nave si incaglia nell’attuale arcipelago delle Canarie e va a sbattere contro la barriera corallina. L’autore spiega che è forse a causa di questo naufragio, - nel quale morirono 35 persone – che il luogo venne battezzato con il nome di Isola della Croce.
Oltre alle preziose mercanzie di velluto, raso, tela e seta, la nave era carica del mercurio del re, necessario per processare i metalli preziosi. Per questa ragione, durante il riscatto dei resti, si produsse un saccheggio che obbligò la Casa della Stipula di Siviglia, ad iniziare un processo giuridico durato vari mesi.
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