Nulla potrà cancellare la galera di Guantanamo e la sua eredità.
Neppure l'ordine esecutivo con cui, nel gennaio scorso, Barack Obama
ne ha disposto la chiusura entro i primi mesi del 2010. E anche per
questo, con la consapevolezza di un "obbligo verso la memoria", il
National Geographic consegna alla Storia per immagini del nostro tempo
un documentario di due ore - "Inside Guantanamo" - tradotto in 34
lingue, in onda in Italia domenica 5 aprile alle 21 su National
Geographic Channel. Un diario di tre settimane trascorse nel braccio
di massima sicurezza di uno dei sette campi della prigione per "unlawful
enemy combatants". Un raggelante caleidoscopio di un universo di
acciaio, cemento armato, filo spinato e lamenti in cui, oggi,
continuano a languire 240 detenuti il cui destino resta incerto.
In un montaggio asciutto e intenzionalmente didascalico, le immagini
registrate a Guantanamo parlano con la voce e il volto di chi ne è
stato e ne è oggi il guardiano e di chi ne è stato, fino a ieri, il
prigioniero. Restituendo intatta la profondità dell'abisso culturale
ed emotivo che, in questi sette anni, ha separato e continua a
separare chi ha concepito ed è a guardia delle gabbie e chi in quelle
gabbie è lasciato marcire. Un abisso tanto più cupo, perché presentato
come figlio "legittimo" di un'alternativa del Diavolo che, agli occhi
di una buona parte dell'America, continua ad apparire inestricabile.
Quella tra diritto alla sicurezza e rispetto dei diritti civili.
Parlano del Nemico e del proprio lavoro, gli uomini in alta uniforme.
Forti di certezze incrollabili. "Nulla di quel che ho fatto in
quest'isola mi farà vergognare di fronte ai miei figli", dice
l'ammiraglio David Thomas, comandante della Joint Task Force
Guantanamo, l'ufficiale che l'11 settembre del 2001 sopravvisse al
rogo del Pentagono e la cui uniforme semi carbonizzata di quel giorno
è conservata nella Smithsonian American History gallery. "Al Qaeda ha
le sue cellule anche qui e impone ai singoli ruoli diversi, anche da
prigionieri", chiosa il colonnello dell'esercito Bruce Vargo,
responsabile dei bracci di detenzione.
"Non abbiamo mai torturato nessuno", assicura Paul Rester, già capo
del team della Defence Intelligence Agency, mentre in sovrimpressione
scorre il dettaglio dei rapporti ormai desecretati del Fbi in cui si
documenta cosa in quelle celle è accaduto ("... Il prigioniero era
incatenato da molte ore al pavimento, in posizione fetale... durante
la notte si era letteralmente strappato i capelli dalla testa... ").
Parlano con la sincerità e la semplicità di un dubbio che si è fatto
prima tarlo esistenziale e poi ossessione morale, i "private", la
truppa semplice. Dopo l'11 Settembre, gli era stata promessa una
guerra contro i macellai delle Torri e del Pentagono. Si sono
ritrovati consegnati a una routine da aguzzini. A giorni e notti di
sguardi oltre uno spioncino di vetro corazzato, su spazi di 1 metro e
85 per 2 metri e 44, dove ciondolano o gridano impazziti uomini di cui
non debbono conoscere il nome, ma solo la lettera e il numero che ne
identifica la cella. Come il soldato Jane, 25 anni, gli occhiali tondi
a incorniciare un volto che comunica la stessa ingenuità del suo
accento del Sud.
Quel Kentucky in cui è nata e in cui hanno smesso di comprenderla. A
cominciare da sua sorella, attivista per i diritti umani. Dice "Ogni
giorno percorro 19 chilometri a piedi, affacciandomi da una cella ad
un'altra. E alla fine, so che non potrò raccontarlo in famiglia. E
questo fa male".
Nell'universo concentrazionario di Guantanamo non c'è redenzione. Odio
e paura hanno seminato e continuano a seminare nuovo odio e nuova
paura tra i musulmani. Gli ex prigionieri Moazzam Begg,
anglo-pachistano, Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore talebano in
Pakistan, Haji Rohullah Wakii, leader tribale afgano, lo raccontano
con il rancore, a tratti persino stupefatto, di chi ancora non sa come
e perché ha perso la libertà per un tempo infinito e come e perché,
altrettanto inopinatamente, l'ha riacquistata una mattina in cui la
cella si è aperta e un soldato ha annunciato che "si tornava a casa".
Dice Charles Swift, ex ufficiale di Marina e
difensore di Salim Ahmed Hamdan, afgano rinchiuso sull'isola perché
indicato come l'autista di Bin Laden: "Guantanamo è stata e resta lo
specchio di quel che è stata l'America in questi anni". La Corte
Suprema ha chiesto che non se ne cancelli la traccia, perché futura
"body of evidence", prova processuale nei giudizi civili o penali a
chi ne dovesse essere chiamato a rispondere come responsabile. "X-Ray",
il primo campo da cui tutto cominciò nel gennaio del 2002, è dunque
oggi una distesa di gabbie abbandonate, infestate dalla gramigna. Un
monumento silente all'inizio di quella Storia. I bracci di acciaio e
cemento dove oggi restano 240 prigionieri e che di quella Storia sono
l'approdo, un monumento lo saranno presto. Anche se di loro, con la
memoria di chi li ha abitati, resteranno ora due ore di immagini.
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