Ha
dimezzato la povertà e la disoccupazione in uno dei paesi più ricchi e
ingiusti del mondo. Una straordinaria sollevazione popolare lo ha fatto
sopravvivere ad un colpo di Stato organizzato da George Bush, da José
María Aznar e dal Fondo Monetario Internazionale. Ha costruito un sistema
mediatico equilibrato laddove aveva voce solo il “pensiero unico”, è stato
il primo capo di stato a dire che il neoliberismo era un crimine e aveva
fallito ed è stato uno dei padri dell’integrazione latinoamericana.
Adesso, finita la bonanza degli alti prezzi del petrolio riuscirà a
mantenere la promessa di un Socialismo del XXI secolo?
C’è un dato che non può essere eluso quando si parla di bilanci per i
dieci anni di governo di Hugo Chávez. Secondo il CEPAL, l’istituto di
studi economici delle Nazioni Unite, l’azione del suo governo ha portato
al crollo degli indici di povertà dal 50 al 30% e quelli di indigenza dal
21.7 al 9.9%. Che piaccia o no a chi parla di regime, di caudillo e trama
da anni per rovesciarlo con ogni mezzo antidemocratico, oggi milioni di
venezuelani ridotti alla disperazione dal sistema neoliberale della IV
Repubblica, hanno ritrovato speranza e dignità.
E’ stato costruito da zero o quasi un sistema di salute pubblica che oggi
conta (i dati citati sono sempre della Nazioni Unite, CEPAL o UNESCO)
4.500 tra ambulatori, pronti soccorsi e centri ospedalieri che hanno
permesso dal 2003 ad oggi la più grande riduzione al mondo della mortalità
infantile. Dal 2005 l’UNESCO ha dichiarato il Venezuela libero
dall’analfabetismo, il 96% dei venezuelani ha oramai accesso all’acqua
potabile. La disoccupazione, esattamente dimezzata, è oggi al 7%. Ma se
nel resto del continente questi anni di grande crescita economica si sono
caratterizzati per crescita del lavoro informale, in Venezuela i posti di
lavoro creati sono soprattutto formali, legali, nei servizi, nei
trasporti, nel settore commerciale e bancario.
A questi dati che danno la misura dello sforzo di un ricchissimo paese del
terzo mondo se ne aggiungono altri che possono fare invidia anche a paesi
del primo mondo. La ricerca scientifica, che quando governavano i partiti
che "El País" di Madrid considera democratici era quasi a zero, oggi è in
percentuale quasi il triplo di quella italiana. Il debito pubblico è
passato dal 73 al 15% del PIL e le riserve internazionali sono triplicate.
Al momento del colpo di Stato dell’11 aprile 2002, il 100%
dell’informazione apparteneva a media commerciali dell’opposizione. Ancora
oggi l’opposizione ha la maggioranza dei media, ma forme di pluralismo
sono garantite perfino al governo popolare sopravvissuto a quello che è
stato definito il primo colpo di Stato mediatico della storia. La
corruzione infine non è certo scomparsa in Venezuela con il governo
bolivariano, ma è bastato che una parte dell’enorme fiume di denaro in
tangenti che prendeva la via delle Bahamas fosse destinato al popolo che
il paese rinascesse.
Dati così positivi che nessun analista in buona fede può ignorare sono
stati possibili per il coniugarsi di due fattori fondamentali. Da una
parte c’è stato un netto spostamento di egemonia politica dalle classi
alte a quelle popolari. L’esplosione della partecipazione politica di
queste ha prodotto il movimento bolivariano, non viceversa. Questo, una
volta arrivato al governo con Hugo Chávez, ha potuto beneficiare di una
lunga stagione di bonanza petrolifera con i prezzi del greggio, la
principale risorsa del paese da sempre, ai livelli più alti dagli anni
’70. In questo contesto lo spostamento di egemonia verso le classi
popolari ha permesso la costruzione di uno stato sociale importante e di
politiche integrazioniste nella regione.
Se a dieci anni dall’inizio del governo bolivariano i risultati positivi
non possono essere messi in discussione vanno valutati anche aspetti
negativi del processo e le lentezze nel cambiamento. Al primo posto vi è
senz’altro il sostanziale non intaccamento della schiavitù da monocultura.
Il paese continua ad essere troppo dipendente dal petrolio. Se è evidente
che qualunque altra attività economica è meno redditizia di quella
petrolifera è altrettanto evidente che la diversificazione dell’economia è
una battaglia che è lontanissima dall’essere vinta. Ciò fa sì che il
Venezuela continui ad essere un importatore netto della maggior parte dei
beni di consumo, alimenti compresi. Inoltre, nonostante la crescita del
narcotraffico non sia paragonabile con quella di paesi come la Colombia o
soprattutto il Messico, la diminuzione della povertà e la creazione di
posti di lavoro non hanno visto diminuire la violenza e la criminalità. Il
Venezuela continua ad essere un paese violentissimo e la polizia e il
potere giudiziario continuano ad essere parte del problema e non della
soluzione. Inoltre il chavismo in dieci anni ha solo parzialmente risolto
il problema del partito, il PSUV, Partito Socialista Unitario del
Venezuela, il luogo della burocrazia dove spesso si alligna il carrierismo
e la corruzione. Questo dal 2007 ha relativamente dato risposta al
problema della frammentazione ma i movimenti sociali, la spina dorsale del
chavismo, in questi anni non si sono mai fidati veramente del livello
politico per far riferimento al presidente, il che è una risposta al
problema, ma non un bene.
Luci, molte luci, alcune delle quali strutturali, e qualche ombra, alcune
delle quali restano come debito storico forse per altre stagioni
politiche. La domanda per il prossimo decennio è: saprà la rivoluzione
bolivariana sopravvivere e consolidarsi all’attuale stagione di basso
prezzo del petrolio? Saprà far uscire il paese dal sottosviluppo o dello
stato sociale resterà il clientelismo e l’assistenzialismo? Saprà
continuare a dare impulso al Socialismo del XXI secolo e all’integrazione
regionale? Di sicuro la grande onda degli anni 2002-2007, della grande
avanzata è alle spalle. Il 15 febbraio un referendum stabilirà se il
presidente Chávez potrà candidarsi alle prossime elezioni. Quel giorno si
misurerà quanto i venezuelani, molti dei quali devono al governo il
transitare dalla povertà verso la classe media, ci credono ancora.