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Dame di bianco Signore in rosso
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22 aprile 2010 - Margarita Alarcón Perea www.granma.cu
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In generale le persone devono avere il diritto di protestare, essere in disaccordo, ed è importante che si sentano interamente libere di lamentarsi.
Indipendentemente dalla forma che scelgono, o se portano rami d’olivo, manifesti o gladioli.
Detto questo, nella mia modesta opinione, le auto-definite “Dame in Bianco” appartenenti alle fila della contro-rivoluzione cubana, devono sentirsi con l’autorità di protestare contro chiunque o qualsiasi cosa che considerano appropriata, sempre e quando loro, come le persone sulle quali possono inciampare nel cammino, aderiscano a regole elementari di civiltà.
L’azione di protestare non è certo nuova.
In tutto il mondo, persone e gruppi organizzati passano per un processo prima di preparare qualsiasi genere di marcia, protesta o manifestazione, ed in generale questo processo include la richiesta di permessi e licenze alle autorità della città, al governo locale o alle forze dell’ordine.
Una volta avuto il permesso, questi gruppi od individui, hanno già stabilito l’orario, la data e l’area in cui esprimere il loro diritto.
Agli inizi degli anni ’90, ricordo bene i gruppi dell’estrema destra cubano-americana nel New Jersey, che protestavano per la presenza di mio padre a New York e per il ruolo che svolgeva nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. E contro l’atteggiamento razionale della nostra Patria, abbastanza sui generis per quei giorni, rispetto la Guerra del Golfo del presidente Bush padre, quei manifestanti si organizzavano e marciavano da un estremo all’altro dell’Avenida Lexington, verso calle 38, giungendo quasi sino ad est di Harlem.
Lì si fermavano perché sapevano bene - come lo sa la città di New York - che la comunità cubano-americana di New Jersey prende sul serio i dominicani del quartiere di Washington Heights ed i portoricani dell’Harlem ispanico, come gli afroamericani di Harlem, perché tutti questi gruppi si organizzavano e marciavano verso i manifestanti a favore di Cuba.
In una nota precedente ho ricordato che Cuba ha molte ragion per protestare e più di una cosa da diffondere attraverso i grandi media.
I mariti di queste dette “Dame in bianco”, sono stati accusati d’agire a nome di un governo straniero usando fondi di questo governo, destinati a certi cubani nell’Isola, con l’obiettivo di creare un’opposizione sociale nella detta società civile indipendente, con l’intenzione d’identificare i mezzi adeguati per porre in fine in maniera rapida al regime ed organizzare “la transizione”.
Questi fondi, durante l’amministrazione di Bush figlio hanno raggiunto i 20 milioni di dollari annuali e tanti sono ancora oggi.
Queste signore, i cui mariti sono stati condannati alla reclusione, accusati di agire per un governo straniero, logicamente hanno tutto il diritto del mondo di essere arrabbiate e ovviamente vogliono che tutti sappiano come si sentono. Anche se si sa che i membri della loro famiglia sono stati arrestati con le mani nella massa e sono in galera per questo.
Loro hanno lo stesso diritto di protestare del Governo cubano di condannare quei connazionali che lavorano a favore degli Stati Uniti, nazione che, casualmente, condanna questo tipo di azione quando accade nel suo territorio. Quindi che protestino!
Che il governo lo permetta, concedendo alle dette signore un permesso ogni volta che lo vogliono fare, con l’adeguata custodia della polizia, per evitare che qualcuno, in apparenza spontaneo, spinga, maltratti o compia altre azioni da stelle e strisce...
Io quindi chiederei alla stampa straniera, ad Amnesty Internacional e a tutte quelle organizzazioni politiche che ci sono e che diffondono con i loro mezzi le proteste pubbliche, di farlo con le assai poco pubblicizzate manifestazioni di migliaia di cubani nell’Isola, contro 50 anni di un crudele castigo economico, politico e commerciale: cioè il blocco.
O contro le innumerevoli azioni terroristiche ed i sabotaggi, perpetrati contro l’Isola in questi 50 anni, che includono - e non si limitano a questo - anche l’assassinio a sangue freddo di Carlos Muñiz Varela, un cubano- americano di 26 anni, che fu vilmente ucciso a San Juan di Puerto Rico.
O le molteplici esplosioni di bombe a Miami, contro i luoghi di lavoro di coloro che cercavano un avvicinamento conciliatore con il governo dell’Isola, o l’azione più vile di tutte: il primo attentato contro un aereo civile, con 73 passeggeri a bordo. Tutti morirono.
Ma torniamo al sodo. Le dette “Dame in bianco”, protestano per la prigionia dei loro familiari e vogliono che tornino a casa.
C’è un gruppo di donne a Cuba, meno noto, non perché hanno meno motivi o meno passione, ma semplicemente perché ricevono meno copertura ed esigono meno attenzione.
Questo gruppo di donne è più piccolo di numero, ma loro hanno tutte le ragioni per protestare, anche se non si vestono di bianco e non portano fiori. Portano con loro la ferma convinzione della loro verità, di quella dei loro cari, e ciò che è più importante: la verità di una nazione intera, che include la verità di queste dette dame di bianco...
Sono le mogli, le madri e le figlie dei Cinque Eroi cubani, cinque uomini che sono imprigionati da più di dieci anni negli Stati Uniti per aver combattuto le stesse azioni di odio che hanno colpito la nazione cubana in questi 50 anni. Non lavoravano a nome di un governo straniero, non erano negli Stati Uniti per far cadere il governo e nemmeno per cercare di rafforzare e sviluppare facendole fare “passi avanti”, l'opposizione e la società civile.
Erano là per proteggere il popolo cubano e coloro che negli Stati Uniti credono onestamente che una realtà migliore tra le due nazioni, ad ogni lato dello stretto, è possibile.
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