In
mezzo a tutto il fiorire di
reazioni (o meglio, di mancate reazioni…) della comunità
internazionale al sanguinoso attacco israeliano contro la Striscia
di Gaza di fine 2008-inizio 2009, è passato in secondo piano
l’atteggiamento assunto dal Venezuela di Chavez.
La Repubblica Bolivariana, infatti, ha deciso, in data 6 gennaio,
l’espulsione dell’ambasciatore d’Israele Shlomo Cohen, in risposta a
quella che il presidente ex-parà ha definito
la “barbarie” di Gaza. Decisione destinata prevedibilmente ad avere
parecchie ripercussioni sul futuro degli equilibri geopolitici
dell’America Latina. Intanto, già il giorno successivo, è arrivata
immediata e scontata la risposta di Tel Aviv: l’espulsione
dell’Incaricato d’Affari del Venezuela in Israele, Roland Betancourt.
Il Venezuela infatti non aveva alcuna rappresentanza diplomatica in
Israele, ma appunto un Incaricato per il disbrigo di Affari
diplomatici. Relazioni di basso livello, insomma. Già in netto
peggioramento da quando Chavez espulse una prima volta
l’ambasciatore israeliano durante la guerra al Libano dell’estate
2006, e anche in seguito all’inesorabile avvicinamento politico ed
economico all’Iran di Ahmadinejad.
Come dicevamo, la notizia è passata molto in sordina, almeno sui
nostri media: trafiletto fra le vittime di un bombardamento e
l’altro, e un atteggiamento come per indicare che un atto del genere
rientri piuttosto nel folklore della politica sudamericana, tanto
lontana dal teatro mediorientale.
Lettura decisamente superficiale: in America Latina, infatti, non
solo gli Stati Uniti (con la loro storica politica di ingerenza nel
cortile di casa dettata dalla dottrina Monroe), ma anche Israele
stesso ha sempre giocato una partita decisiva per la propria
influenza internazionale.
Premessa: il principale fronte di scontro (per ora fortunatamente
solo politico, ma che occasionalmente rischia di sfociare in guerra
vera e propria) che si gioca attualmente nel subcontinente americano
è ormai da diverso tempo sull’asse Colombia-Venezuela.
Due Paesi vicini, per certi versi fratelli (entrambi devono la loro
indipendenza a Simon Bolivar e furono protagonisti del suo grande
progetto politico, facendo anche parte della stessa nazione, la
Grande Colombia, dal 1819 al 1831) ma al tempo stesso divisi da una
rivalità storica e da due destini politicamente agli antipodi.
In realtà il ruolo di Israele nelle aree di crisi sudamericane ha
radici ancora più lontane, ed è soprattutto legato alla funzione di
immenso deposito di armi, di cui gli Stati Uniti sono sempre stati
generosi fin dalla sua nascita, nel 1948.
Avendo quindi il governo israeliano guadagnato ben presto la fama di
immensa armeria e di Paese più militarizzato al mondo, soprattutto a
causa della sua storia di guerra semi-permanente con i vicini arabi
nel corso di tutti questi decenni, non deve sorprendere che durante
la Guerra Fredda esso fosse divenuto un punto di riferimento per
tantissimi regimi che aspiravano ad entrare nell’area di influenza
statunitense nelle regioni più delicate del globo. Il Sud America
fu, come noto, una delle principali vittime della contrapposizione
USA-URSS. Per niente disposti a perdere la loro storica zona di
controllo a sud, gli statunitensi non persero tempo a reprimere con
la forza tutti quei partiti e movimenti popolari che, anche quando
non comunisti o filo-sovietici, reclamavano giustizia sociale per le
masse del continente, da sempre sottoposte a sfruttamenti e
vessazioni da parte di ristrette oligarchie gradite agli interessi
di Washington. Atteggiamento che, si sa, si spinse anche al
rovesciamento di governi democraticamente eletti, come quello del
socialista Allende in Cile, con la successiva installazione del
regime di Pinochet.
Questo fu solo il primo passo di una catena che vide, a partire
dagli anni ’70 e con un picco nel decennio successivo, l’irruzione
sulla scena della famigerata counter-insurgency, la politica di
controguerriglia eterodiretta dagli USA contro i movimenti di
liberazione nazionale della regione. Lo schema si ripeteva
meccanicamente in quasi ogni Paese del Centro e Sud America: laddove
la popolazione richiedeva più libertà e giustizia, ecco che i
governi venivano affidati a giunte militari o comunque ad ambienti
di apparati legati a Washington. Naturale che, in diversi casi, le
opposizioni popolari ricorressero alla guerriglia armata. Ed è
proprio a quel punto che interveniva Israele: armi, addestramento e
consiglieri militari, di concerto con l’alleato nordamericano. A
decenni di distanza, con molti segreti scoperchiati (e con tanti
altri di cui invece non sapremo mai nulla) è certo che il principale
fornitore di armi per regimi brutali come quelli di Haiti,
Argentina, Brasile, Paraguay, Panama, Perù, Costarica, Repubblica
Dominicana, Honduras e Guatemala fu proprio Israele, assieme al
reclutamento e addestramento dei Contras in Nicaragua in funzione
anti-sandinista, ingrassando al tempo stesso la dittatura di Somoza
di ingenti carichi di armi. I contratti di vendita e collaborazione
con questi regimi erano mascherati da innocui aiuti tecnici e da non
meglio definita “pacificazione rurale”, da intendersi in realtà come
liquidazione di massa e sistematica di campesinos in odor di
guerriglia. Scendendo nel dettaglio, si possono ricordare episodi
della Guerra Sporca in El Salvador che videro protagonisti gli
squadroni della morte freschi di addestramento israeliano: la
tristemente famosa polizia segreta dell’ANSESAL, capeggiata
dall’ufficiale Roberto D’Aubuisson, che non molto tempo dopo entrò
anche in politica alla guida del movimento reazionario ARENA, da lui
stesso fondato, e che mandò addirittura il figlio a studiare in
Israele. D’Aubuisson che si macchiò tra le altre cose dell’omicidio
dell’Arcivescovo di San Salvador Oscar Romero. Il guadagno per
Israele in El Salvador fu notevole: dal 1975 ala 1979 l’83% delle
commesse militari del Paese centroamericano erano infatti stipulate
con Tel Aviv, secondo lo Stockholm International Peace Research
Institute. Va ricordato anche che Israele pagò il suo coinvolgimento
nel conflitto salvadoregno con l’uccisione da parte della guerriglia
del suo Console onorario, Ernesto Liebes.
Il quadro storico, dunque, è piuttosto pesante. Ma non si ferma qui,
perché arriva ai giorni nostri e finisce per riguardare anche Chavez
stesso. Come in occasione del fallito golpe dell’aprile 2002, quando
Pedro Carmona tentò senza successo di prendere il potere a Caracas.
Al suo fianco, secondo diverse fonti, si muovevano personaggi non
estranei ad addestramento militare israeliano, interessati a
instaurare un regime amico in un Paese, il Venezuela, membro
dell’Opec (organizzazione da sempre monopolizzata da stati arabi e
musulmani e verso cui Israele nutre una storica diffidenza). Il
colpo di Stato, però, fallì, e da allora le relazioni
israelo-venezuelane conobbero un rapido declino, a cominciare da un
accordo militare bilaterale per la revisione e vendita congiunta
alla Cina di jet F-16 di produzione statunitense, che fu fatto
annullare proprio da… Washington, a cui evidentemente una mano
troppo libera di Tel Aviv in America Latina non piace molto.
In seguito a questo episodio, le attenzioni israeliane iniziarono a
distogliersi sempre più da Caracas e, fra una polemica e l’altra, si
sono via via indirizzate alla vicina Colombia. La quale, per
Israele, è da sempre un ottimo cliente sia ufficialmente che…
ufficiosamente. In quest’ultimo ambito rientra infatti l’appoggio
logistico, l’addestramento e il rifornimento di armi di cui, sin
dalla loro nascita, hanno goduto i tristemente noti paramilitari
delle AUC (Autodefensas Unìdas de Colombia), tramite agenzie di
sicurezza private come quella dell’ex colonnello di Tsahal Yair
Klein (noto mercenario internazionale, implicato a suo tempo nella
strage di Sabra e Chatila). Prova incontestabile di questo legame è
addirittura un intero capitolo che Carlos Castano, fondatore delle
AUC, dedica nella sua autobiografia alla sua formazione israeliana.
All’appoggio agli squadroni della morte si aggiunge, naturalmente,
quello proficuo allo Stato colombiano: mitragliatrici Uzi, carichi
di munizioni, ma anche materiale molto più sensibile e sofisticato,
che dimostrano l’esistenza di un legame ideologico solido fra i due
stati, prima ancora che semplici forniture belliche. Infatti
attraverso le sovvenzioni statunitensi del Plan Colombia
(ufficialmente destinato a combattere il narcotraffico, secondo
certi maliziosi istituito piuttosto per mantenerlo sotto controllo
statale…) l’esercito colombiano è anche all’avanguardia per jet,
droni senza pilota e sistemi di intelligence (l’ultima contratto in
materia è stato assegnato alla compagnia israeliana Global CST per
un totale di 10 milioni di dollari). Nessuna sorpresa che un tale
arsenale debba essere di tanto in tanto essere utilizzato sul campo,
magari con la scusa dell’onnipresente terrorismo (in Colombia quello
delle Farc e dell’Eln). In realtà il più delle volte la vittima di
questi armamenti finisce per essere la stessa popolazione civile
colombiana, o addirittura uno stato confinante, proprio come
accaduto l’1 marzo scorso con l’impunita violazione della sovranità
del vicino Ecuador (anche lì, obiettivo dichiarato un campo oltre
confine delle Farc, evidentemente la parola magica “terrorismo”
legittima ormai qualsiasi cosa in ogni angolo del mondo).
E ancora, nessuna sorpresa che, in seguito a quello che era stato a
tutti gli effetti un atto di guerra contro l’Ecuador, Chavez arrivò
a schierare i carri armati sul confine con la Colombia, definendola
“Israele dell’America Latina”. Il governo di Bogotà aveva
evidentemente ben appreso la politica dell’aggressione a freddo, e
delle scuse successive, a fatto compiuto, dai suoi maestri di Tel
Aviv.
Per la storia dei rapporti fra Israele e regimi del Centro e Sud
America, si consiglia il libro di Jon Lee Anderson “Loose Cannon: On
the Trail of Israel’s Gunrunners in Central America”.
Alessandro Iacobellis, laureato in
Scienze della Comunicazione con una tesi in Storia Contemporanea,
si occupa di politica
internazionale e geopolitica