I primi risultati assegnano al Partito Socialista Unitario (PSUV) di Hugo Chávez 95 seggi su 165 nel prossimo parlamento venezuelano. Al cartello delle opposizioni (il MUD, Tavola di Unità Democratica) vanno 64 seggi. A questi si aggiungeranno nelle prossime ore gli ultimi sei seggi. Vanno a partiti minori, almeno due ad un partito di sinistra, a rappresentanti indigeni o sono ancora in ballottaggio tra le due liste maggiori.
Se queste sono le cifre, la sensazione più importante è che il Venezuela ha vissuto l’ennesima tranquilla giornata democratica lasciandosi alle spalle la polarizzazione feroce degli anni 2002-2005. Tutti gli osservatori hanno rilevato l’estrema tranquillità con la quale il paese ha votato, la regolarità degli scrutini e il fatto che alle tre della mattina di Caracas ci siano risultati pressoché definitivi.
Anche se frastagliata ed eterogenea, e probabilmente incapace di restare insieme, l’opposizione è forte e può finalmente condizionare il governo, che non ha più la maggioranza qualificata, in parlamento. Lo scellerato boicottaggio del 2005 (indotto dal governo Bush e che puntava ad un rovesciamento violento di Chávez dopo il fallito golpe dell’11 aprile 2002) è alle spalle e in pace e democrazia tornerà ad essere rappresentata in parlamento così come governa già in alcuni stati importanti. All’interno della stessa opposizione, lentamente, stanno passando in seconda fila gli estremisti, quelli che hanno sempre puntato al rovesciamento violento del governo, a favore di politici duramente critici ma vincolati a rispettare i processi democratici che, loro malgrado, continuano a premiare la “rivoluzione bolivariana”. Chávez a parole continua ad essere “il demonio”, ma nei fatti queste elezioni hanno dimostrato che anche l’opposizione oramai ritiene possibile e prioritaria una dialettica democratica normale.
Al momento di chiudere questo commento non sono ancora disponibili le percentuali, ma il partito di Chávez vince o pareggia nella maggior parte degli stati e, a Caracas, elegge sette dei dieci deputati. Perde invece duramente in un paio di ricchi stati alla frontiera con la Colombia, lo Zulia e il Táchira, e nell’Anzoátegui. Se nei primi l’opposizione è stata sempre forte, il segnale dell’Anzoátegui non va sottovalutato perché il PSUV soffre per la figura abbastanza compromessa del governatore chavista, Tarek Williams. Ciò dimostra che, a parte il carisma del Presidente, gli elettori venezuelani discernono e castigano o premiano se necessario il partito di Chávez.
Perché vince Chávez, si domanderà allora il pubblico italiano? Dati come quello sulla riduzione delle disuguaglianze, la più forte al mondo secondo l’ONU, non fanno titoli sui giornali ma hanno significato in questi anni piccoli grandi cambiamenti in positivo per milioni di venezuelani che vivevano nel totale abbandono negli anni ’80 e ’90. Testimoniano che, se oggi la maggioranza del paese si riconosce nel progetto bolivariano, al di là delle critiche che possono essere mosse al Presidente e che tanto scaldano in Europa, è perché in questo trovano dignità e progetti che rendono migliore la vita dei più bisognosi.
Il PSUV, fondato nel 2007, alla prima prova con elezioni parlamentari, si è imposto come uno dei partiti più forti dell’intero continente. È una scommessa vinta dal Presidente Chávez, che supera la frammentazione dei primi anni di governo, quando il chavismo era un conglomerato di partiti e movimenti sociali. Il PSUV, però, non ottiene la maggioranza qualificata nel parlamento di Caracas e quindi non potrà più usare decreti legge senza trattare con l’opposizione. È probabilmente un bene perché riconduce anche il processo venezuelano a quella dialettica parlamentare alla quale sono stati sempre vincolati altri paesi, come il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay dove i partiti di centro-sinistra al governo hanno sempre avuto a che fare con opposizioni responsabili.
Sono tutti paesi che, in questi anni, si sono mossi nella stessa direzione del Venezuela: rivalutazione del ruolo dello Stato dopo il neoliberismo dogmatico degli ultimi 30 anni del XX secolo, riduzione della disuguaglianza, integrazione latinoamericana. Tra una settimana si vota per le presidenziali in Brasile. Con ogni probabilità una donna ex guerrigliera, Dilma Rousseff, succederà nella continuità totale a Lula da Silva. Ed è questa, che piaccia o no, la cifra attuale dell’America latina.