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La retroguardia ribelle

 

Fidel Castro www.granma.cu

 

- Capitolo 15º -

 

È obbligato dedicare, in queste riassunto della grande offensiva nemica, un capitolo sul funzionamento del dispositivo di retroguardia della nostra azione  militare, perchè la sua attività fu, senza dubbio, una delle ragioni  della nostra vittoria.

 

Ho già detto prima che nel lavoro della retroguardia fu decisivo il ruolo disimpegnato da Celia. Grazie a lei e ai suoi collaboratori, io potevo evitare d’occuparmi molte volte di quei mille  dettagli  che coadiuvavano un miglior  disimpegno delle nostre unità nel piano militare, e concentrare la mia attenzione negli  aspetti strategici e tattici delle operazioni.

 

Un problema essenziale che il nostro apparato di retroguardia doveva risolvere, forse  il più importante, era  garantire i rifornimenti  necessari per appoggiare sia l’azione  militare, con armi, munizioni ed altri strumenti della guerra, come con gli  alimenti e altri beni, come vestiti, calzature ed altro.

 

Nel caso delle armi, non era tanta la mia preoccupazione. La vita e l’esperienza della lotta nella Sierra avevano dimostrato e lo facevano ancora nella maniera più chiara durante l’ offensiva, che il principale fornitore di armi di ogni  tipo era il nemico, a cui le prendevamo nei combattimenti.

 

Dopo le azioni della prima Battaglia di Santo Domingo, incrementammo in maniera considerevole il nostro arsenale, di nuovo accresciuto in modo sostanzioso dopo la vittoria di Jigüe e nelle azioni  finali della nostra controffensiva. No era, quindi, l’ottenimento  delle armi,  un tema di  priorità per la nostra retroguardia.

 

Nonostante questo, dato che qualsiasi aiuto in questo senso non era mai di troppo, non smisi mai d’insistere con le nostre organizzazioni all’estero perchè continuassero negli sforzi per ottenere armi e munizioni.

 

Pensando al ricevimento di quelle che sarebbero giunte per questa via, avevamo abilitato la pista aerea chiamata Alfa, nel fiume  La Plata. Incluso,  giunsi ad avvertire che nel caso in cui Alfa fosse stata occupata dall’Esercito della tirannia, esisteva sempre la possibilità di continuare gli invii di armi con paracadute, in qualche punto della montagna non dominato dal nemico. La realtà fu che per tutta l’offensiva non ricevemmo nessun altro invio di armi dall’estero. Furono sufficienti quelle che conquistammo in combattimento.

 

In senso generale, non era  una grande  preoccupazione nemmeno l’ottenere le munizioni, perchè il nostro principale fornitore era sempre il nemico. Senza dubbio, per me, era sempre fondamentale la questione del risparmio delle pallottole. In tutte queste pagine abbiamo visto l’importanza che io attribuivo  al tema del risparmio delle munizioni e la gran irritazione che mi produceva lo spreco, con l’suo esagerato e inutile che, in occasioni, realizzavano alcuni combattenti.

 

Il 5 giugno, per esempio, scrissi a Celia:

 

“Credo che i piani di difesa siano abbastanza avanzati. Il problema che mi preoccupa maggiormente, oggi come oggi, è che  la gente non si rende conto che si tratta di un piano di resistenza continua e scaglionata, e che non si possono sparare in due ore  le pallottole che devono durare  un mese. L’unica cosa  che mi resta da fare è custodire bene quelle che mi restano e non dare più nemmeno una pallottola, sino a che non sia questione di vita o di morte, perchè realmente non è restata più  nemmeno una  pallottola.  Ricordi il giorno che  andavamo da  Horacio [Rodríguez] nel secondo giorno  del combattimento a Mercedes, che sentimmo il  fuoco dei fucili? Bene: in quei  15 minuti solamente, Raúl Castro [Mercader] tirò 80 colpi con il suo fucile.

 

Io non mi stanco d’insistere su questo problema che è realmente il nostro tallone d’ Achille”.

 

A tale punto giungeva la  mia ossessiva attenzione al tema, che determinai di  creare a La Plata una riserva centrale di munizioni gestita personalmente da me.

 

Una delle  funzioni eseguita da Ramiro durante buona parte dell’offensiva fu fare l’amministratore  di quella riserva, con le istruzioni  precise di non consegnare  niente senza la mia autorizzazione. Quella mia taccagneria  non veniva compresa da tutti i capi  subalterni, ma molti altri, come il Che, erano  coscienti che quell’estrema  austerità nel caso dell’uso delle munizioni, era una politica necessaria.

 

In queste pagine ho citato la preoccupazione che al rispetto manifestava, per esempio, Braulio Curuneaux, che con frequenza mi mandava un rapporto sulla quantità esatta di pallottole  usate in un combattimento e, con molta precisione, su quante gli restavano.  Con tutto che Curuneaux, anche se era un magnifico combattente e maestro nell’uso razionale ed efficace  della mitragliatrice  calibro 50, la nostra unica "artiglieria" sino a quando non conseguimmo mortai e bazooka in poche contate occasioni, no fu esempio di risparmio stretto delle munizioni della  sua arma.

 

Dove doveva brillare la nostra retroguardia era nel garantire altri rifornimenti, soprattutto quelli alimentari.

 

Ho già detto che in previsione dell’offensiva, avevamo creato nel quartiere di Jiménez, vicino a La Plata, nella fattoria del collaboratore Radamés Charruf, una fabbrica di carne salata. La fabbrica di “tasajo” di  Jiménez, directa dal combattente Gello Argelís, funzionò durante tutta l’offensiva, anche durante la penetrazione dal Sud, del Battaglione 18, che condusse il nemico molto vicino a Jiménez. Mediante una costante selezione  ed il trasporto del bestiame  sotto i bombardamenti  e le mitragliatrici dell’aviazione nemica, la produzione ed il rifornimento  di carne salata per le  nostre forze in prima linea di combattimento non mancò mai.

 

Lo stesso si può dire per la produzione del formaggio, organizzata da Celia in diversi punti del territorio, e della sua distribuzione tra i nostri combattenti. Un esempio della fiammante produzione di latte si nota in questo messaggio inviato da Celia il 12 luglio, dall’altura di Cahuara, a Ramón Paz, che in quel momento era  posizionato a Purialón, aspettando l’arrivo dei rinforzi che dovevano andare a soccorrere  la truppa nemica situata dal giorno prima a Jigüe:

 

“Il Comandante le manda questo formaggio e delle sigarette, per lei e  Orestes [Guerra]. Anche se sappiamo che lì si riforniscono  malamente come qui, tiriamo avanti ugualmente. Vogliamo condividere il primo formaggio della nostra produzione...”

 

Anche nei giorni della Battaglia di Jigüe, sempre a proposito del latte, quest’altro  illustrativo messaggio di Celia per  Curuneaux, che in quel  momento era in prima linea di combattimento nell’accerchiamento della truppa assediata in quel luogo:

 

“Ho mandato del latte per lei e per la guardia ferita, per lei due (lattine). Qui mi restano tre lattine che ho messo da parte, una per lei domani e due per i feriti; questo per assicurarlo, perchè ho mandato a cercare il latte e dovrebbero portarlo questo pomeriggio. In questo caso domani ne manderò di più. Ma se non dovesse arrivare, comunque, ho una lattina separata.”  

 

Grazie all’amministrazione di Celia e al suo maneggio rigoroso e organizzato dei rifornimenti, le nostre scarsissime  risorse  furono distribuite in accordo con le priorità di ogni momento.

 

E già che  ho parlato delle lattine di latte condensato, devo dire che tra le nostre limitate scorte questo era uno degli articoli che riceveva un trattamento speciale.  Il latte condensato, per le sue caratteristiche  energetiche e il suo sapore molto apprezzato, era per noi, un prodotto di lusso, e la sua distribuzione si eseguiva seguendo le mie personali indicazioni. Un esempio: in previsione della dura camminata che gli uomini di Lalo  Sardiñas avrebbero dovuto realizzare dai dintorni di Santo Domingo - quando  ordinai a Lalo di trasferirsi  senza perdita di tempo, a Meriño, per completare l’accerchiamento  delle truppe che erano penetrate in questo luogo -  inviai a Celia l’indicazione precisa di consegnare ad ognuno degli uomini del plotone di Lalo due lattine di latte  condensato. Senza quella mia indicazione  personale, zero latte condensato per gli abnegati combattenti del plotone di Lalo.

 

Un altro prodotto strategico che la nostra retroguardia doveva assicurare era il sale. Era necessario, non solo per il consumo normale delle nostre truppe, ma anche per  il funzionamento della fabbrica di carne secca ed anche per l’attività di una piccola  fabbrica di cuoio che eravamo riusciti  ad installare. Come si ricorderà, in previsione dell’offensiva, Celia aveva  organizzato una produzione  sufficiente di sale in vari punti della costa. Alcune di quelle  saline artigianali, vicine alle foci dei fiumi   La Plata e Palma Mocha, le dovemmo abbandonare per via dello sbarco del Battaglione  18 nella zona, ma altre,  come quelle di Ocujal, La Magdalena, El Macho e El Macío, si mantennero in funzione  durante tutta l’offensiva, e soddisfarono le  nostre necessità di base. Fu un’altra prodezza della retroguardia.

 

Senza dubbio, non sempre le cose funzionarono come  desideravamo. La mobilità richiesta per poter seguire perfettamente lo sviluppo delle operazioni o dirigerle,  come nel caso della batatglia di  Jigüe, supponeva, dal punto di vista delle condizioni materiali che riguardavano il  dispositivo del Quartier Generale  ribelle, un ritorno, in occasioni, a situazioni caratteristiche dei  primi mesi della guerra. Questo fu più evidente che mai durante gli 11 giorni in cui rimasi nelle alture di Cahuara, conducendo l’operazione di Jigüe. Lì dovemmo improvvisare un Posto di Comando più o meno permanente nella montagna; creare condizioni minime per il funzionamento del Posto di Comando e per il rifornimento della sua cucina e  degli uomini che partecipavano all’accerchiamento del  Battaglione 18. Una mostra dei piccoli e grandi problemi  quotidiani durante quei giorni, la offre Celia in questo messaggio inviato da Cahuara a Delsa Puebla, “Teté”, per tutti  noi, a Mompié, il primo giorno della Battaglia  de Jigüe:

 

“Telefona a Camilo [a La Plata] e digli che mi mandi  una delle  scatole di sigari di Fidel che ci sono lì, e che cerchi di vedere  Gello [Argelís] che verrà qui perchè la porti. Qui sia Fidel che il  Che non hanno sigari. Il Ché lo chiami [a Minas de Frío] e gli dici che Fidel è rimasto con un sigaro solamente e che a lui ne ho mandati due, e che ne ho chiesti a Camilo e quando mi arriveranno, li manderò”.

 

In quello stesso  messaggio, Celia si riferiva anche ad altri problemi più seri di questo dei sigari:

 

[…] stanotte ci siamo bagnati tutti, come le mercanzie ed anche le munizioni.

 

Siamo  accampati in montagna ed è piovuto dal pomeriggio sino al sorgere della luna. Ho chiesto nylon (cappe di protezione NdT.) e scarpe il giorno prima di lasciare  Mina; spiega a Camilo la necessità che abbiamo perchè si sbrighi e li mandi. Abbiamo passato due giorni senza mangiare, dato che qui non avevamo niente;ricordando tempi che non sono passati, si allontanano, ma ritornano. Ho preso una forte influenza”. 

 

Stanotte la pioggia è caduta sul Posto di Comando.

 

Una delle conseguenze dello stretto blocco  imposto alla Sierra Maestra dal nemico, come parte della sua offensiva, è stato che non riceviamo più i contributi in denaro che ci inviavano dal piano, denaro che proveniva dalle donazioni di proprietari terrieri, imprenditori, commercianti e da altre fonti, oltre che dagli stessi militanti clandestini del Movimento. Questo era il denaro che si utilizzava per pagare scrupolosamente tutte le merci che compravamo ai contadini, soprattutto tuberi e prodotti alimentari. Senza

 

dubbio, nonostante le consegne gratuite spontanee realizzate da molti abitanti del teatro del operazioni, abbiamo rapidamente trovato alcune alternative per supplire la mancanza di denaro.

 

Un esempio si evidenzia nel  messaggio che  mi inviò Ramiro il 28 maggio dalla  Colonna 4:

 

“Ho autorizzato un uomo responsabile e serio per parlare con i coltivatori di caffè di  un’estesa zona per ricavare fondi. L’esercito minaccia questa zona ed è propizio il momento per la gestione, perchè loro si aspettano una protezione. Ho dato istruzioni all’inviato  perchè coltivatori di caffè non pensino che i loro apporti economici siano un pagamento di questa nostra protezione. Se hai qualche piano per la prossima raccolta del caffè, fammelo sapere per metterlo in pratica.  Ho gia ricevuto la risposta ad una delle mie gestioni: $2.000 di credito in un magazzino di Bayamo; ed è già partito il primo invio di merci”.

 

Fattore di grande importanza, e molte volte determinante del nostro successo  nelle azioni intraprese dalle  forze ribelli  durante l’offensiva, fu il ruolo svolto dai messaggeri ribelli.

 

In queste pagine abbiamo visto e continueremo a vedere numerose occasioni in cui fu possibile prendere a tempo decisioni cruciali per garantire il successo  di un’operazione determinata, grazie alla rapidità  ed efficienza con cui i  nostri messaggeri trasmettevano gli ordini e le indicazioni pertinenti, o mi facevano giungere le informazioni inviate dai capi sui fronti di combattimento.

 

Ho gia spiegato nel capitolo riferito i preparativi per la difesa del nostro territorio e che, in previsione dell’offensiva, avevamo stabilito le comunicazioni telefoniche tra La Plata, la botteghina della Maestra e Compié, ma  già durante la piena offensiva la linea fu estesa sino a Minas de Frío, grazie al bravo sforzo del gruppo incaricato di quella.

 

Quella era tutta la copertura della nostra rete telefonica che, nonostante i suoi limiti, fu molto utile in varie occasioni.

 

In cambio, il nemico aveva a sua disposizione tutti i mezzi di comunicazione senza fili esistenti in quel momento, e soprattutto tutti gli strumenti a microonde, che assicuravano una comunicazione immediata tra le sue differenti unità, e tra queste  il posto di comando di Bayamo o gli posti avanzati a Estrada Palma, Cerro Pelado, Cienaguilla ed altri punti. Noi indubbiamente dovevamo dipendere dall’abilità, l’astuzia e la resistenza fisica dei nostri messaggeri, capaci di percorrere lunghe distanze sulle  montagne, quasi sempre a piedi, in un tempo incredibilmente breve.

 

Molte volte i messaggi li portava un combattente scelto dal capo di una delle nostre squadre o plotone, con quelle caratteristiche che ho appena descritto. Però in generale, nel caso dei  messaggi che io inviavo da dov’era installato in un momento determinato il mio posto di comando transitorio o semplicemente da dove mi trovavo in quella occasione, il nostro scambio di messaggi era realizzato da un gruppo scelto di combattenti, la cui funzione era quella di fare i messaggeri. Tra tutti loro, forse, il più affidabile per la sua rapidità e responsabilità, fu lo spiritoso  Juan Pescao, già menzionato in queste pagine. Altri nomi che non posso  tralasciare di citare sono Edilberto González Rojas ed Eliécer Tejeda Peña, tutti e due subordinati di  Remigio Álvarez Figueredo, che era capo di quel picolo gruppo di messaggeri al servizio del  Comando.

 

Con loro e con altri, il nostro Esercito Rebelde ha un enorme debito di gratitudine. Forse molti non hanno mai sparato un solo tiro nè hanno partecipato ad un combattimento, ma tutti meritano il massimo riconoscimento della loro condizione di combattenti, perchè anche loro contribuirono decisamente alla nostra vittoria.

 

Non va dimenticato nemmeno il lavoro sviluppato dai nostri conduttori di muli responsabili  del trasporto di ogni genere di  mercanzia, includendo in occasioni  armi, munizioni ed altri strumenti di guerra.

 

Era un lavoro di grande responsabilità e pieno di pericoli, perchè in qualsiasi momento quelle file generalmente accompagnate da uomini disarmati potevano cadere in un’imboscata nemica od essere bersaglio di un attacco aereo. Ricordo ora il nome di Eduardo Rodríguez Vargas, Pipe, conduttore di fiducia di Celia, che per la sua intima conoscenza di tutti gli angoli della montagna, anche dopo il trionfo della Rivoluzione,  prestò un impagabile servizio come guida del gruppo degli investigatori storici che con il loro lavoro minuzioso contribuirono a ricostruire la storia della Sierra alla quale mi sono riferiti per la redazione di queste pagine. 

 

Una menzione speciale in questo riscontro lo meritano i medici ribelli. In condizioni terribilmente precarie, a volte senza nemmeno le minime risorse necessarie, realizzarono vere prodezze. I feriti, sia i ribelli come le guardie nemiche catturate dopo un combattimento, ed anche bambini ed altri abitanti della montagna,, dovevano la loro vita, in molte occasioni all’impegno assoluto ed efficiente dei medici che prestavano servizio nelle nostre fila.

 

Dottori come René Vallejo, Manuel Piti Fajardo, Julio Martínez Páez, Bernabé Ordaz, Vicente de la O, Sergio del Valle, Fabio Vázquez, Raúl Trillo e il dentista Luis Borges Alducín, tra gli altri, non si possono non nominare in queste pagine. Molti di loro, come Vallejo, Piti Fajardo e De la O, realizzarone, in varie opportunità, funzioni d’appoggio alla nostra azione, estranee alla loro professione di medico.

 

Nel  teatro delle operazioni dell’offensiva nel Primo Fronte funzionavano solamente due installazioni che si potevano  considerare come ospedali fissi di campagna: quello di  Pozo Azul, diretto dal dottor Vallejo, che in un momento determinato fu trasportato nella zona di Limones, di fronte alla minaccia d’occupazione di una truppa nemica, che giunse sino ad Aguacate, a circa cinque chilometri di distanza; e quello di La Plata, stabilito  prima a Camaroncito, diretto dal dottor Martínez Páez, vicino al fiume La Plata, che dovette cambiare luogo quando il fiume in piena lo minacciò severamente e fu allora ubicato a Rincón Caliente, a mezza strada tra il Comando  e il villaggio di  Jiménez. A partire dal mese di giugno, questo Piccolo ospedale  fu trasferito dov’era il Comando Generale e lì funzionò durante l’offensiva, in installazioni provvisorie ed in cui prestarono i propri servizi, tra gli altri, a parte Martínez Páez, i dottori Ordaz, Fajardo, De la O e Trillo. Nel  Comando di La Plata si conserva ancora quel bell’ospedale costruito dopo l’ offensiva come installazione permanente, ed il rustico locale che serviva  da  gabinetto dentistico del dottor Borges Alduncín.

 

A parte questi ospedali, il lavoro dei nostri medici si realizzava principalmente nello stesso campo di battaglia.

 

Tra le attività della retroguardia, una menzione a parte la meritano le donne. In quell’epoca non era ancora sorta l’idea della creazione di un plotone femminile che fu formato nel mese di settembre, dopo l’offensiva, costituito per una mia iniziativa, contro l’opinione di alcuni: il Plotone Mariana Grajales. Le donne presenti nelle nostre fila durante l’offensiva, molte delle quali integrarono più tardi  il plotone delle Mariane, disimpegnarono in quell’epoca funzioni d’appoggio  di ogni tipo, come assistenti dei medici, messaggere, cuoche, aiutanti in compiti di rifornimento, riparatrici di uniformi e scarpe, sentinelle. Insomma, prestarono preziosi e variati servizi.

 

Esemplare fu il lavoro d’assistente di Celia realizzato da Teté Puebla, che, inoltre, come vedremo nel suo momento, desimpegnò con efficacia la delicata missione d’essere l’emissaria inviata dal Che all’accampamento nemico a  Vegas de Jibacoa per negoziare i dettagli della consegna  dei prigionieri  nemici, effettuata il 23 luglio, ancora in piena battaglia contro l’offensiva.

 

Altre donne molto capaci in quella tappa  furono Rita García ed Eva Palma, sopravvissute miracolosamente al colpo di  mortaio che uccise  Geonel Rodríguez, Orosia Soto e Juana Peña, aiutanti dei  medici, Olga Guevara, Angelina Antolín e Ada Bella Pompa.

 

Un ruolo  decisivo, come parte della nostra retroguardia durante l’offensiva, corrispose  a Radio Rebelde. L’emittente che, come si ricorderà, fu trasferita al finale d’aprile da Pata de la Mesa, nella zona del Che, verso La Plata, funzionò durante i 74 giorni  di combattimento come veicolo d’informazione per gli altri fronti ribelli, per i combattenti della clandestinità  nel piano e per tutto il popolo su quello che   accadeva ogni giorno sulle montagne della  Sierra.

 

Quasi ogni giorno, Radio Rebelde trasmetteva  un comunicato  di guerra, molte volte scritto da me, sullo sviluppo e sui risultati  delle azioni combattive. Per quella  via i suoi ascoltatori, dentro e fuori da Cuba, ricevevano un’informazione assolutamente autentica su quello che avveniva e potevano smentire così le falsità, le esagerazioni, le omissioni e la disinformazione diffuse dai mezzi della propaganda dell’esercito nemico. 

 

A quel lavoro di Radio Rebelde parteciparono, in maniera decisiva: Luis Orlando Rodríguez, direttore titolare dell’emittente; il tecnico principale Eduardo Fernández, assistito da Orlando Payret, Luis González e Otto Suárez, che  furono capaci di mantenere le trasmissioni dell’emittente che funzionava con regolarità, nonostante tutte le difficoltà; l’assistente Alicia Santacoloma, stenografa ed editrice; i presentatori Jorge Enrique Mendoza, Orestes Valera, Ricardo Martínez e Violeta Casals, che con le loro voci divennero gli esponenti emblematici della lotta dei ribelli.

 

A proposito dei presentatori, tra le carte si conserva  questa nota mia per Orestes Valera, che includo in queste pagine per mostrare l’attenzione  minuziosa con cui io seguivo il lavoro di Radio Rebelde, precisamente per l’importanza che le concedevo, anche se avevamo già un futuro traditore, Carlos Franqui, che dopo aver disertato dal Partito Comunista - allora PSP- fu erroneamente captato dal Movimento 26 di Luglio, e risultò poi, in realtà, un transfuga e ambizioso che cercava di seminare  la zizzania dell’anticomunismo nelle nostre fila:

 

“Orestes: stai usando un tono ed un’enfasi per radio simili a quelli di Díaz Balart [Rafael Díaz Balart, principale portavoce del regime batistiano]. Non ti offendere per questo. Voglio solo che cerchi di superarlo. Tu sai che declamare è un’arte. Tu hai una voce sonora ed una buona dizione, ma poni un’enfasi da “gente arrogante” alle frasi. Ricardo [Martínez] parla in modo più amabile anche se meno energico. Mi pare che  sia perfetto per le nostre trasmissioni  un tono amabile e un’enfasi energica. Lo potremo conseguire? Ieri mi è piaciuta di più la lettura di Ricardo.

 

Sforzati! Quando ci sono le condizioni, tutto è questione di volontà”.

 

Un’altra funzione cruciale di Radio Rebelde fu quella di servire da vincolo con l’estero, specialmente con i nuclei dell’esilio rivoluzionario negli Stati Uniti, in Venezuela ed in  altri paesi americani. Per quella via conoscevamo, tra le altre  informazioni d’importanza, l’arrivo di qualche carico di armi e munizioni, come quello che arrivò con l’aereo che  atterrò il 10 maggio sulla nostra improvvisata pista aerea lungo il fiume La Plata, alla foce  del ruscello Manacas, che avevamo battezzato con il nome in chiave di Alfa. Già dal giorno precedente io avevo il sospetto che sarebbe giunto presto un aereo, perchè mi avevano  domandato attraverso Radio Rebelde se Alfa era pronta, ed io avevo risposto affermativamente.

 

Nei primi giorni dell’offensiva nemica c’erano problemi nella comunicazione in chiave mediante Radio Rebelde. Accadde quello che avevo sempre  temuto e che avevo avvisato in varie occasioni, cioè che all’ora di decifrare alcuni messaggi non contavamo con la chiave adeguata. Avvenne con  un messaggio importante che si doveva decodificare mediante due libri ed una penna che dovevano giungere da Santiago di Cuba. Nessuno mi diede una spiegazione  Della destinazione dei libri e dovetti rispondere  che era impossibile decifrare il messaggio per la mancanza degli elementi necessari.

 

Un altro messaggio giunto  da Miami, con una chiave numerica che il Che dominava, lo dovetti inviare a  Minas de Frío perchè lui lo leggesse e gli dovetti chiedere di mandare qualcuno di ritorno, per spiegarmi il funzionamento di quella chiave.

Ma, a parte questi problemi occasionali, la comunicazione con l’estero funzionò abbastanza bene durante l’offensiva grazie  a Radio Rebelde.

 

Un buon esempio di quello fu l’intervista di più di un’ora di durata che concessi al principio di luglio ad un gruppo di giornalisti  venezuelani.

 

Va ricordato che il popolo del Venezuela si era appena liberato dalla brutale dittatura di Marcos Pérez Jiménez. Di quella lunga intervista  mi sembra opportuno citare il seguente frammento:

 

“I venezuelani e noi cubani ci comprendiamo bene, perche tutti e due conosciamo il dolore dell’oppressione ed il prezzo della libertà. Dopo il cubano, il popolo che mi emoziona di più in questi istanti, è quello del  Venezuela.

 

La profonda ammirazione che sento verso questo paese, dov’è nato il più grande uomo di questo continente, si accresce con lo straordinario esempio di civismo che ha appena dato al mondo, quando molti credevano lontano il giorno del suo bel risveglio”.

 

All’ammirazione si unisce la gratitudine per l’ospitalità che incontrano lì i perseguitati politici cubani, l’attenzione che ricevono nella stampa già libera del Venezuela, le notizie che non può pubblicare la stampa con la museruola di Cuba ed il dolore che prova questo popolo fratello come se le nostri fossero le loro sofferenze.

 

E alla gratitudine si unisce la speranza: la speranza che il Venezuela vada avanti per il cammino che si è tracciato, e la speranza che ci aiuti  con lo stesso spirito con cui Bolívar aiutò altri popoli oppressi, per cercare nell’unione delle nazioni libere dell’America Latina, la solidarietà e la forza che ci potranno preservare dai gravi pericoli della debolezza, la divisione, la tirannia e il colonialismo”.

 

In quella stessa intervista, indubbiamente , dissi quanto segue in relazione al tentativo di sciopero  del 9 aprile di quell’anno:

La mobilitazione del popolo per lo sciopero ha una tecnica propria alla quale ci si deve aggiustare,  che va contro il segreto, il rigore e la sorpresa che esigono le azioni  armate. Mentre il successo di un’azione  armata può  dipendere da molti fattori imponderabili, la mobilitazione del popolo, quando esiste la coscienza rivoluzionaria, maturata con metodi corretti è infallibile e non dipende da eventualità.

 

Lo sciopero generale aveva uno straordinario ambiente, ma il Comitato dello Sciopero commise l’errore fondamentale di subordinare la mobilitazione delle masse all’azione a sorpresa delle milizie armate. Alla sicurezza di queste azioni a sorpresa fu sacrificata la mobilitazione del popolo[...]

 

Lo sciopero è l’arma più formidabile del popolo nella lotta rivoluzionaria e la lotta armata si deve subordinare a questo. Non si può portare il popolo ad una battaglia, come non si può portare un Esercito se non lo si  mobilita adeguatamente per l’istante dell’azione, e questo accadde il 9 aprile. […] L’errore non si ripeterà.

 

Allo sciopero generale non abbiamo rinunciato, come arma decisiva di lotta contro la tirannia”.

 

Uno degli intervistatori venezuelani mi chiese, riferendosi all’offensiva nemica in pieno sviluppo se “ di fronte al brusco giro degli avvenimenti  era vero che avevo pensato di abbandonare la Sierra Maestra".

 

Questa fu la mia risposta:

“L’ Esercito Ribelle non abbandonerà mai le sue posizioni sulla Sierra Maestra se non per avanzare sul resto del territorio nazionale.

 

La morte o la vittoria sono le uniche alternative che accettiamo.

 

Senza libertà e senza Patria, nessuno di noi ama vivere. L’idea d’abbandonare la Sierra Maestra non mi ha tentato nemmeno  quando mi vidi con tre uomini e due fucili.

 

Con questo spirito si è forgiata la coscienza dei nostri combattenti.

 

Abbiamo appreso a lottare contro l’impossibile. Qui morirà gloriosamente, se sarà necessario dal primo all’ultimo ribelle. La Patria non si abbandona per salvarsi la vita. Un esempio vale sempre più di un uomo.

 

Gli intervistatori venezuelani toccarono molti altri temi d’interesse, tra i quali il cruciale tema dell’unità e i piani di un futuro governo rivoluzionario, ma non voglio allungare eccessivamente questo capitolo dedicato al ruolo della retroguardia ribelle durante l’offensiva.

 

Mi resta da segnalare, per ultimo, che anche in piena offensiva cominciarono a programmarsi le basi dell’apparato amministrativo che, infine, a partire dal mese di settembre, fu costituito nel Comando di La Plata con il nome di Amministrazione  Civile del Territorio Libero (ACTL), al fronte del quale restò Faustino Pérez sino al finale della guerra. Quell’amministrazione  si dedicò al necessario maneggio della vita economica e sociale della montagna ribelle, un vasto territorio definitivamente liberato, la cui popolazione mancava quasi di tutto in assoluto, e giunse ad  essere integrata da otto dipartimenti incaricati dei temi agricoli e contadini, dell’educazione, la salubrità e l’assistenza sociale, la giustizia, la promozione, le industrie, le opere pubbliche, i rifornimenti e le finanze. Aspetti rilevanti del suo lavoro furono l’assistenza medica, la scolarizzazione, l’alfabetizzazione, lo sviluppo delle  infrastrutture per produrre alimenti e la creazione  di non meno di 35 cooperative contadine.

 

Così come  le istituzioni create da Raúl nel Secondo Fronte, l’organizzazione civile sviluppata nella Sierra Maestra nei mesi finali della guerra elevò a un piano superiore le relazioni esistenti, dall’inizio della lotta nella montagna, tra l’Esercito Ribelle e i contadini, e costituì la semente del nuovo Stato che sarebbe sorto dopo il trionfo rivoluzionario, fedele allo spirito democratico e popolare della Rivoluzione.

 

 

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